Felipe VI non ha indugiato, su chi incaricare di cercare la fiducia in parlamento né sui tempi. Ha scelto subito il rappresentante della lista più votata. Aberto Nuñez Feijóo, che di tempo ha bisogno, si è riunito subito con la presidente del Congresso, la socialista Francina Armengol che ha fissato la data per il dibattito di investitura il 25 e 26 settembre. In quel momento scatterà il cronometro: i 57 giorni di tempo che la costituzione assegna al parlamento per eleggere il capo del governo, dopo i quali si sciolgono le camere e si indicono nuove elezioni.
Feijóo ha ottenuto quello che voleva. Ha richiesto con forza di presentarsi in parlamento. Rinunciare avrebbe aperto la successione nel Pp, il tempo gli serve almeno per prepararsi l’uscita di scena. Poi, malgrado la delusione del risultato, questa è la sua unica occasione. Come dice lui, ha 172 voti, ne mancano solo quattro alla maggioranza assoluta. Poi, dalla seconda votazione, basta che i sì siano più dei no, e qui entrano in gioco anche le astensioni, benigne o ostili. Feijóo ha più di un mese per provare a dirimere la matassa.
Con un Congresso frammentato, undici gruppi, nessun blocco, figuriamoci partito, in grado arrivare alla maggioranza da solo, ogni soluzione di governo in Spagna passa oggi per accordi “impossibili”. Quelli tra nazionalismi periferici e centralisti, tra sinistra e centrodestra, tra contrapposizioni interne ai nazionalismi periferici. Tornare al voto è un’incognita per tutti, ipotesi invisa anche ai mercati e alle istituzioni europee che preferiscono un governo politico, di qualsiasi segno.
L’obiettivo è evitare il voto e, per Sánchez e Feijóo, per Pp e Psoe, e anche altri protagonisti “minori”, avere un futuro politico, e personale anche. Per arrivarci cadono tutti i tabù, la propaganda lascia il posto alla concretezza politica. Così il Pp si incontrerà ufficialmente con il Partido nacionalista Vasco (Pnv), e qui restiamo nell’ordinario, ma anche con Junts per Cat (JxC), la formazione del “golpista” con mandato di cattura, Carles Puigdemont. Lo avevano fatto emissari in riservati incontri per l’apertura della legislatura e l’elezione delle presidenze, lo fanno ora alla luce del sole.
Il vicesegretario di Azione istituzionale del Pp, Esteban González Pons, alla radio Onda Cero ha spiegato che il Pp adesso separa le “coincidenze programmatiche” con la formazione di Puigdemont dal resto: “Junts è un gruppo parlamentare che, come Erc, oltre agli atti che quattro, cinque o dieci persone abbiano potuto commettere, rappresenta un partito la cui tradizione e legalità non sono in dubbio. Parleremo con tutti meno con quelli che non hanno condannato il terrorismo”, ha concluso riferendosi a EH-Bildu — che lo ha condannato ma costituisce una linea rossa da mostrare all’elettorato.
È uno dei lati più interessanti della grande confusione determinata dal voto del 23 giugno scorso. Costringe tutti i protagonisti a misurarsi con la dimensione asfittica, inutile al fine della comprensione e risoluzione dei problemi, delle propagande che hanno emesso negli ultimi anni, in particolare sulla questione territoriale. E concede seconde chance.
A Carles Puigdemont, il fuggitivo, uno dei principali protagonisti della deriva propagandistica delle élite catalane, politiche e imprenditoriali, che hanno emesso un realismo magico in cui la Spagna aveva invaso, la secessione della Catalogna fosse non solo possibile ma auspicabile e loro fossero impegnati anima e corpo a questo scopo; col Procés verso l’indipendenza, iniziato dal suo predecessore e mentore, Artur Mas; che fu, invece, una fabbrica di propaganda politico-istituzionale, che non ha mai dichiarato nessuna indipendenza né fatto nulla che non fosse evocarla come un bluff — mentendo ai propri elettori, al mondo e anche a se stessi — a celare con la Senyera, la bandiera catalana, la corruzione del sistema che tanta indignazione scatenava.
Una narrazione volentieri accolta come vera da un Partido popular ancor più travolto dalla corruzione e dall’ecosistema politico-imprenditoriale e editoriale madrileno, in un’escalation di propagande contrapposte che ha portato il paese sull’orlo del baratro.

Per Puigdemont arriva l’opportunità personale, dunque, di “tornare sulla terra” — e di tornare cittadino libero in qualche modo, anche questo conta —; e l’opportunità politica, per lui e l’indipendentismo, di influire come mai si sarebbe creduto possibile sul quadro politico nazionale. Puigdemont è solo un europarlamentare e presidente del Consejo por la República Catalana, una entità esterna al partito, verticale e controllata da lui con sede in Belgio ma, come Pablo Iglesias con Podemos, controlla saldamente partito e gruppo parlamentare senza incarichi ufficiali.
Un’opportunità importante per lo stesso Pp, che accetta di sedersi al tavolo coi “traditori della patria”, un bagno di realtà. Senza farsi illusioni su un cambio profondo di postura, un momento comunque importante, necessario.
Quante chance ha Feijóo? Teoricamente, poche, i margini di manovra per il Pp sono molto più ridotti rispetto a quelli di Sánchez. Eppure deve tentare, ha già guadagnato tempo, va tentato il colpaccio. Obiettivi: mantenere Coalicion canaria al suo fianco, portare il Pnv e Junts sull’astensione, malgrado l’ingombrante presenza di Vox, e riuscire così a ottenere in seconda votazione più sì che no. Però il galiziano c’è e ha tempo a disposizione.
La corona ha agito rapidamente. Il tema era: il re deve dare l’incarico al candidato del partito più votato o a quello che ha più possibilità in Parlamento? Feijóo rivendicava la prima soluzione, Sánchez suggeriva che lui incarnasse la seconda, Felipe VI ha scelto Feijóo, senza indugiare sui tempi. Per qualcuno ha favorito Feijóo, per altri ha fatto quanto fosse più logico aspettarsi. Difficile discutere un capo di stato che agisce nel margine della sua autonomia, anche immaginando preferenze conservatrici — di un re dei Borboni, pensa un po’ —. Certamente anche il rifiuto a presentarsi alle consultazioni di Erc, Junts e EH-Bildu ha determinato la scelta del re, non potendo contare su nessuna dichiarazione di intenti. Poi, i tempi del dibattito parlamentare, non dipendono dal re.
È la presidente del Congresso Francina Armengol, sentito il candidato, a decidere l’agenda del Congresso e la data della prima votazione. Tempi importanti, perché faranno scattare il termine di 57 giorni dallo scioglimento delle camere per nuove elezioni se il parlamento non trovasse una fiducia. Difficile pensare che non sia stato valutato. Un dibattito rapido, alla fine di agosto, avrebbe evitato un eventuale nuovo voto tra le festività natalizie e la fine dell’anno ma è stato scelto di dare tempo a Feijóo. Tempo che serve evidentemente anche a Sánchez. In questo modo le urne non coinciderebbero comunque con Natale e fine anno ma la campagna elettorale, ridotta a una settimana nelle ripetizioni elettorali, arriverebbe con i Re Magi, la nostra Epifania.

Lo abbiamo detto e ridetto, Sánchez ha più possibilità di trovare accordi parlamentari, i fossati scavati dal Pp sono difficilmente colmabili a breve. Ma l’epoca delle maggioranze assolute è lontana, e neanche i blocchi destra / sinistra sono sufficienti. La Spagna è plurale, anche nella rappresentanza parlamentare, con questa realtà tocca fare i conti. Quindi il Pp dialoga e non esclude di governare grazie agli indipendentisti, sperando che una lotta intestina nell’indipendentismo, una convenienza dei vertici, consenta di fare il colpo.
Sánchez ritiene che per lui sarà più facile. È interlocutore più affidabile in tema territoriale, Vox è un problema per molti, la logica fa pensare che alcune scelte soddisfino la maggiore convenienza degli attori in campo. Ma non vanno escluse altre dinamiche, l’autoreferenzialità dei mondi indipendentisti, la reale capacità di convincere i propri seguaci nello smentire anni di propaganda, né va sottovalutato il fatto personale — un accordo col Pp forse costerebbe elettori ma forse garantirebbe una più sicura soluzione giudiziaria al leader indipendentista, vista l’influenza del Pp nel potere giudiziario —. Casi di scuola, come lo è l’ipotesi che Feijóo trovi qualche defezione nel Psoe. È lo spettro del Tamayazo, — il tradimento di due deputati autonomici socialisti, Eduardo Tamayo y María Teresa Sáez, che nel 2003 non si presentarono in aula in seconda votazione, impedendo l’elezione di Rafael Simancas come presidente della Comunidad de Madrid e portando a un nuovo voto che premiò i popolari —. Caso di scuola anche questo, ma la posta in gioco è altissima, spagnola ed europea.
Sánchez aspetta il suo turno, convinto che Feijóo non supererà la prova. Ora tocca a Feijóo inventare politica per questi tempi nuovi.

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