Abbiamo recentemente rivisto e ascoltato, in un filmato registrato per la televisione, Rudolf Buchbinder, l’elegante e schivo pianista austriaco che avemmo la fortuna di ascoltare anni fa, in due diversi concerti, al Teatro Olimpico di Roma. Si trattò, allora, di musiche per piano solo, scelta obbligata anche per le ridotte dimensioni del teatro del quartiere Flaminio. Buchbinder suonò soprattutto musiche di Beethoven, alcune sonate e altri brani di forte richiamo, se la memoria non ci inganna. Ma le sue grandi doti di solista della tastiera le abbiamo forse potute meglio apprezzare nel filmato televisivo. Un’esecuzione del primo concerto per piano di Johannes Brahms ulteriormente impreziosita grazie alla magica bacchetta di Zubin Metha e alla “coloratura” musicale garantita da archi e ottoni dei Wiener Philarmoniker.
Date queste premesse, quello che consideriamo in assoluto uno dei più bei concerti per piano e orchestra, ci ha ancora una volta commosso per la forza, la drammaticità e, al tempo stesso, la speranza che sono la materia viva del primo movimento il cui tono (“maestoso”) fu indicato dallo stesso compositore amburghese allora solo ventiquattrenne. C’è qualcosa di “monumentale” nel lungo primo movimento, come ha detto l’ottima Silvia Corbetta, pianista e critica musicale milanese (nonché architetta), qualcosa di “monumentale” che induce a pensare, aggiungiamo noi, al destino, lo “Shicksaal” così presente nella musica e nella letteratura romantiche tedesche.
L’influenza beethoveniana c’è, inutile negarlo, ma elaborare un capolavoro pregno di una drammatica percezione della vita e del mondo a soli 24 anni è indubbiamente un fatto molto raro. C’è, come sempre in Brahms, quel timbro unico degli archi che a volte sembra sfiorare una “dolce dissonanza” (e ci si perdoni l’apparente ossimoro) e un’eco, a momenti palese, del disperato romanticismo di Schumann, delle sue sinfonie, dei suoi concerti. Si è molto scritto sull’influenza del compositore di Zwickau (Lipsia) su Brahms al quale era legato da affettuosa amicizia. (Al riguardo, ricordiamo come accanto al letto di morte di Schumann, in un reparto per “alienati” di un ospedale vicino a Bonn c’era, accanto alla moglie – la pianista e compositrice Clara Wieck – anche Johannes Brahms.).
Il musicologo Piero De Martini, nel suo libro Johannes Brahms, autobiografia dell’artista da giovane (Il Saggiatore) sostiene inoltre, citando Claude Rostand (il maggior biografo di Brahms), che la drammaticità del primo movimento del concerto fu dovuta all’impressione che Brahms provò alla notizia del tentato suicidio di Schumann, gettatosi nel Reno per sfuggire ai suoi démoni.



Stessa opinione sembra avere lo studioso Daniele Mastrangelo che sottolinea da parte sua come “i contenuti esistenziali nei grandi compositori precedano sempre la forma destinata ad accoglierli”. Questa convinzione si spiega col fatto che Brahms, in realtà, aveva cominciato a riempire di note gli spartiti pensando di comporre una sinfonia. E solo in un secondo momento decise per la forma di un concerto nella certezza che il pianoforte avrebbe potuto aggiungere una venatura più drammatica alla composizione e una maggiore possibilità di soluzioni sia armoniche che melodiche rispetto a quanto poteva assicurare una sinfonia.
L’ascolto di questo concerto ripropone poi il tema della “citazione esplicita o del rimando a stili del passato”. Per cui possiamo dire, assieme al filosofo e musicologo Roberto Favaro, che ogni brano composto riecheggia passaggi, fraseggi, già presenti in opere precedenti. Brani che vengono quindi rielaborati e consegnati, dati in eredità ai musicisti che si succederanno. Laureato in filosofia all’ateneo di Padova e perfezionatosi poi in musicologia presso l’Università Humboldt di Berlino, nel suo libro Musiche al quadrato (Marsilio Editore), Favaro ricorda come echi di Rossini siano percepibili nella musica di Stravinsky o, come si è già accennato, cenni melodici di Schumann si possano ritrovare in Brahms. O, ancora, potremmo aggiungere, come Mozart stesso sia stato influenzato da Scarlatti e da Muzio Clementi, tra l’altro autore, quest’ultimo, di una sonatina che si può ritrovare (senza che fosse cambiata una nota) nell’Ouverture del “Flauto Magico” del grande salisburghese. Un vero e proprio plagio. Le tenui dissonanze Brahmsiane, poi, a sorpresa si possono ritrovare anche nella magnifica “Valse viennoise” di Maurice Ravel, quando violoncelli ed oboi (e clarinetti) sembrano quasi sfidarsi prendendo il sopravvento momentaneo sul resto dell’orchestra. Ravel è chiaramente un neo-romantico non esente da tentazioni musicali moderniste. La sua indubbia grandezza è stata a nostro avviso parzialmente offuscata da due fattori: il primo, paradossalmente, è stato il planetario successo del suo ossessivo Bolèro che ha in parte oscurato altre sue opere di maggior valore. Il secondo è la quasi contemporanea attività del suo grande connazionale Claude Debussy, il più importante musicista della corrente simbolista che indicò nuovi orizzonti alla musica del Ventesimo secolo.

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