Un canto sospeso nel vento e nella luce

La poesia di Vito Santin
MAURIZIO CASAGRANDE
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Te’l gnentitut de le parole suonava il titolo della raccolta d’esordio di Santin (2019) nel trevigiano di Scomigo; gli fa eco, ad appena quattro anni di distanza, un’altra melodia, quella del canto delle cicale, un canto sottovoce modulato sulle stesse tonalità dell’esordio col manifestare a questo modo la particolare natura del suo approccio alla scrittura poetica come pure alla pubblicazione, vale a dire un accostarsi ispirato a profonda umiltà, con una spiccata e genuina vocazione lirica nel modellare la parola come la creta.

A rigore la silloge, articolata in tre sezioni, si apre all’insegna del vento, metafora tanto della leggerezza quanto dell’impermanenza, della mutevolezza e dell’intangibilità, radicandosi a questo modo nel cuore stesso della tradizione, se solo si consideri quale peso le venisse accreditato dai classici o da un poeta come Diego Valeri, la cui opera è stata recentemente riedita dal Ponte del Sale proprio all’insegna di tale metafora: Il mio nome sul vento. Poesie 1908-1976 (Rovigo 2022).

Non sfuggirà al lettore, inoltre, come in entrambi i titoli l’autore adotti il medesimo incipit (con un parallelismo sintattico ante litteram: “Te’l” + sostantivo) amplificando fin dall’inizio la valenza simbolica dell’impalpabilità della lingua o del vento/canto.

Vito Santin

I temi, in linea di massima, restano i medesimi, vale a dire i vincoli d’affetto maturati in seno alla famiglia, in particolare nei confronti di figure femminili quali la madre o alcune zie; nuova, invece, appare la cornice in cui tali temi vengono inscritti, quel cono di luce che li avvolge esaltando anche i dettagli più minuti per restituirceli, leopardianamente, nella prospettiva vivificante del ricordo, magari con sfumature lunari, con un tocco delicato che ricorda la grazia degli interni di Giotti o alcuni dei suoi ritratti, ma senza quel velo di malinconia o mestizia che distingueva il triestino: si potrebbe dire che è proprio questa la cifra distintiva della poetica di Santin, ancor più e ancor prima che la precedenza accordata al dialetto.

A diretta conferma di tale assunto, sarà sufficiente una sommaria rassegna sulle voci lessicali più ricorrenti che afferiscono all’area semantica della luce: limitandoci alla prima sezione, abbiamo nell’ordine la “luna di Aprile” e un “cantuccio di sole” (p. 18), un “coleottero d’oro” (p. 20), “ori di luce mattutina” nel “chiarore della neve d’aprile” (p. 22), “coccinelle gialle” e “betulle vestite di veli bianchi” (p. 26), “intatta luce” (p. 28), il “farsi della luce”, la “stella nuova del portico” e il “carro stracolmo di piogge e di lune” (p. 32), le “faville toccate” (p. 36), “in una bolla di luce” (p. 38), “una finestra di luce” (p. 40) e si potrebbe continuare; con altrettanta frequenza, inoltre e a rinforzo, ricorrono i connotati semantici del vento, quasi a comporre un correlativo oggettivo della luce.

Quest’ultima, tuttavia, non costituisce mai un medium neutro e non può esserlo nemmeno nel caso di Santin, dal momento che si converte nei suoi versi in soglia del trascendente e in una sorta di marcatore del sacro e della sacralità del quotidiano col risultato di accreditare una valenza di vita anche alla morte, fino ad investire della propria aura persino quello strumento linguistico che Santin si è forgiato valorizzando al massimo grado la lezione di Zanzotto allorché questi parlava del dialetto nei termini di logos erchomenos, ovvero, con taglio biblico, di una «parola che viene di là dove non è scrittura né grammatica». Ma una suggestione non minore hanno esercitato sul poeta di Scomigo le voci di grandi dialettali, da Bandini a Meneghello fino ai conterranei Cecchinel o Caniato, senza trascurare, a livello di forme, l’attenzione per la misura dell’haiku attestata nella preferenza per brevi componimenti risolti nella misura di appena sei versi.

Nel chiudere questa scarna analisi, due parole sulla lirica da cui è derivato il titolo della silloge. E varrà la pena di riportarne il testo per intero:

I é bèl che setanta
I é bèl che setanta i fuìn scanpadi fòra –
e l’é benpóc invero da cantar aleluja
L’é da le àgreme che vien-su la parola
(diṡéa ‘n scrito co’l lapis asà su te’l travo)
E me sovién de «ti» te’l ciel in bicicréta
– e de «mi» bocéta te’l vènt de ‘e ẑigàle

Sono ormai settanta. «Sono ormai settanta i folletti scappati via – / e in verità c’è ben poco da cantare alleluia. // È dalle lacrime che nasce la parola / (diceva una scritta col lapis lasciata sulla trave). // E mi sovviene di «te» nel cielo in bicicletta / – e di «me» bambino nel vento delle cicale» (pp. 122-123).

Tre distici essenziali nei quali il poeta ripercorre con una punta di autoironia il proprio itinerario esistenziale per chiudere su un remoto ricordo d’infanzia legato alla madre, molto leopardiano (ma pure manzoniano) nell’adozione del francesismo “sovvenire”. Il cuore del testo tuttavia pone l’accento senza inutili fronzoli ed in chiave sapienziale sulla questione esiziale nella genesi di ogni poesia, ossia la pena del vivere e il rovello dell’assenza: L’é da le àgreme che vien-su la parola. Non solo: l’impianto ternario dell’intera raccolta, organizzata in endecasillabi riuniti in terne di distici dall’inizio alla fine, testimonia di quale influsso abbiano esercitato su Santin la lezione dantesca della Commedia, congiuntamente a quella di Leopardi, nel solco di una consolidata tradizione novecentesca.

Te’l vènt de ‘e zigale
di Vito Santin
Ronzani Editore, 2023,
Prezzo: euro 14,00

Copertina: Joaquín Sorolla “Campos de trigo, Castela”, fonte wikimedia commons.

Un canto sospeso nel vento e nella luce ultima modifica: 2023-08-28T17:00:08+02:00 da MAURIZIO CASAGRANDE
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