Scegliere il pesce gatto come metafora della propria poesia è un atto di coraggio un po’ spregiudicato, come di uomo giovane ancora scanzonato; e insieme è un gesto di grande umiltà, come di uomo maturo, meglio consapevole di sé. Si tratta, infatti, di un pesce particolare, resistente e spazzino, che predilige acque dolci, lente o addirittura ferme, e che sa vivere e prosperare in ambienti poco ossigenati o anche decisamente inquinati. Un pesce che nuota e sguazza, insomma, nelle dimensioni, lutulente o frivole, della nostra contemporaneità più impermanente, della quale tuttavia si nutre e nella quale si riproduce, ma che, come avviene per la poesia di Marco Pelliccioli, non gli impedisce di immaginarvi altri modi di guardare la vita e di comporre melodie nuove per raccontarne, comunque, tracce di valore e spunti di bellezza. Persino di sognare, magari, un esotico «cammello volare per strada la notte per te», che stai leggendo le parole di quel sogno.
Così, Il sogno del pesce gatto, diventa il titolo della plaquette che il quarantunenne bergamasco Marco Pelliccioli licenzia in questi giorni, nei quaderni di poesia curati da Maurizio Cucchi per Stampa 2009, a proporre una piccola, ma significativa silloge del suo particolare e ormai assestato magistero poetico:
I fari ti tolgono la vista
mentre passeggi col tuo ombrello decorato
tour eiffel, ti hanno detto che l’indaco
è il colore della neve, ma per vivere, a volte,
basta un pesce gatto.
Dopo questa dichiarazione d’intenti (quelle di poetica verranno più avanti), Marco intraprende l’esplorazione e il racconto «coinvolgente nella sua complessità, spesso parzialmente insondabile, di apparizioni multiformi, dove l’esserci umano viene ad occupare la scena accanto ad altre figure, a presenze del mondo vegetale e animale, in una sorta di suggestiva e sempre attiva apertura di senso»; così Cucchi in prefazione. Ma quel senso che, nelle cose, nei contesti e nei gesti di vita rappresentati, sembra sempre disperdersi e deficitare, appare subito possibile nella lingua cui Pelliccioli ricorre per descriverli e raccontarli. La sua prosodia è semplice ed esatta eppure mossa e distesa, priva di ridondanze e compiacimenti, scevra di astrazioni raziocinanti e, insieme, refrattaria ad abbandoni sentimentali. Ѐ costruita con il ricorso a un lessico che organizza la propria sonorità nella costruzione di una musica malinconica a registri e ritmi variati, perché impegnato ad aderire il più possibile al narrato esperienziale e, insieme, a trascenderne la contingenza di significato. Il verso, pertanto, cambia continuamente di misura, da breve a più lunga, e di vocazione, da lirica a narrativa, quasi a raccogliere nello spartito della pagina, la cadenza di respiro, più emozionata e partecipe o più meditativa e distaccata, della voce che sta raccontando. Così, quasi ogni testo può comportare una dichiarazione condensata di poetica e, insieme, un’esibizione esemplificativa di tecnica compositiva:
mi chiedevi a mani nude se la vita fosse eterna
e io ti rispondevo che a volte dura a lungo
altre invero poco, altre non ha neppure inizio
(hai sentito di. una storia orribile. la madre. e poi.)
eppure, eccoci ancora qui,
a pigiare i tasti e chiederci
se il dire è più dell’essere
o l’essere soltanto
è uscire alle diciotto
riprendere la prole, accendere
i fornelli; il lenzuolo
copre il volto della luna.

Le raccolte di Marco Pelliccioli ci hanno ormai abituati all’immersione della sua poesia nella realtà frammentata e degradata del tessuto quotidiano di esperienza e di memoria, con cui la nostra epoca di crisi ci avvolge nelle micro- e nelle macro-dimensioni della storia che viviamo e della lingua che la racconta. E abbiamo visto che il suo verso indaga non solo le possibilità di resilienza e di tenuta dell’umano, ma anche quelle di ricucitura e di riappropriazione del senso delle cose che l’amore rinnova e che la speranza alimenta, non tanto nelle grandi opzioni, ma nei piccoli gesti d’accoglienza, nel taglio dello sguardo partecipe, nella voce che prova a dire e a consolare, nel “trovar poesia”, insomma. Diventava così evidente, fra l’altro, che il retroterra culturale di cui la ricerca poetica di Pelliccioli si sostanzia è quello delle grandi voci italiane del secondo Novecento, dall’amato Sereni, a Luzi e a Zanzotto, da De Angelis all’amico, mentore e maestro, Maurizio Cucchi.
L’orfanezza era stata la chiave di una condizione, non solo esistenziale, ma antropologica, rappresentata nella raccolta del 2016 (L’orfano, appunto, nella gialla di Pordenonelegge-LietoColle), dove oggetti, figure, luoghi e ricordi si disperdevano in una sfibrata disappartenenza dalla realtà, sia esperienziale che memoriale, e che la parola poetica si sforzava di riannodare in sequenze di racconto, di valore identitario e umanitario (o umanistico), da parte di un soggetto emerso dallo sgretolamento del passato e, insieme, immerso nel concreto e lancinante disorientamento del presente:
Anche se ti nascondi, luna,
dietro la polvere, il manto
di cupole e binari, tu la conosci
la scomparsa via Perosa
la rauca solitudine delle orfane operaie
all’alba in filanda, di notte ai magazzini:
le cerate appiccicate come coperte
i secchi, d’orina e pioggia colmi.
E scovi orfano me, luna d’estate in ombra,
disperso tra detriti, cocci di memoria…
…nel casolare abbandonato
l’Angiolina, i figli: Wolly tredici anni,
Cristina una bambina, Nino al campo santo…

Dalla postura di osservatore interno-esterno ai piani temporali della vita, Marco dà prova, anche, di saper lavorare sulla dissipazione del senso con una tecnica particolare: la sua parola, esatta come un bulino, cattura e compone i dettagli e le scenografie del reale in sequenze quasi cinematografiche che alternano, nei versi, zumate delicate sui particolari e campi lunghi di profondità, grazie ai quali le immagini compongono una storia che non viene solo raccontata, ma fatta vedere, quasi rivivere, a chi legge, rendendolo partecipe e interlocutore:
Come riponi le muffole, i calzini,
la tutina azzurra da indossare il primo giorno:
petali posati sull’asse da stiro,
il vapore che confonde le tue mani
la valigia sul letto da preparare prima
l’erba umida a solleticare i piedi
il battito d’amore che bussa nel tuo ventre…
Ne L’inganno della superficie, il libro del 2019 pubblicato da Stampa2009, l’uniformità livellante delle superfici dell’esistere diventava il contesto socio-culturale omologato e pervasivo, dove personaggi, situazioni e vicende – della quotidianità corale del secolo o della memoria personale del poeta – venivano osservati alla ricerca di dettagli e interstizi che si potessero far varchi di significato nell’abbaglio illusorio dell’apparente e grigia levigatezza della vita di tutti i giorni:
La terra scavata nel verde bagnato
anonimi corpi pilotano gru:
non è più la semina, o il canto dell’aria,
che ingravida a fiotti di luce la terra
ma questa pretesa di spazio abitato
che toglie mistero, ci pone al riparo
sordi, indolenti, affaccendati.
Soprattutto in Nuovi Vocabolari, una sezione centrale del libro, la poesia di Pelliccioli denunciava, con un’ironia che sconfina in un sarcasmo amaro ma composto, la contaminazione del linguaggio comune operata dall’invasione semplificante e spersonalizzante degli anglismi informatici e pubblicitari, che riducono figure e relazioni umane a funzioni e situazioni serializzate, anonime e inespressive, di fatto impraticabili al racconto in profondità che la lingua della poesia ha compito di costruire, per tutti, dalla e nella vita:
Discorrono al “round-table” dei nuovi risultati:
l’affinità del “talent”, il “mood”, i “follower”, i “fan”,
“l’abstract” della strategia.
L’aria condizionata provoca starnuti, dolori cervicali.
E allora, la resilienza della poesia a questo scempio della comunicazione sociale, che riduce i linguaggi all’ininterrotta trasmissione di input per comportamenti standardizzati, asettici e ripetitivi, avviene attraverso un’attenta ricostruzione semantica e valoriale della parola, grazie alla quale la semplicità delle espressioni è, nei versi di Marco, conquista finale e non rinuncia a priori di un lavoro competente sul significante. Ed è per questo lavoro sulla lingua che, in alcuni testi, la ricerca di uno spessore identitario, nelle proprie radici familiari ed etniche, d’improvviso vede l’affacciarsi di toponimi, di voci gergali, di modi di dire derivati da una memoria del dialetto, forse non posseduto direttamente, ma depositato come riserva di senso nella storia linguistica interiore, da cui la poesia attinge.
Infine, è ancora da questa acribia tecnica esercitata – ormai quasi con naturalezza – sulla lingua del pesce gatto della propria poesia, sempre innestata e alimentata, per altro, nel rapporto con l’estenuato e frammentato degrado del reale prosaico della vita odierna, che nasce a Marco Pelliccioli la musicalità più variata e mossa nei toni e nei registri dell’ultimo libro, dove si racconta un sogno di leggerezza serena e persino di allegria, un sogno di emancipazione della parola poetica dal peso fiaccante e dal tempo immoto della condizione quotidiana, un sogno in cui il «pesce gatto sognava che il sogno / fosse il braciere di nuove melodie». E, nei due notturni e nei due mattutini, in cui la raccolta si suddivide, la poesia può farsi così prima nenia che culla e poi canto di lode.
Per esempio e piluccando sequenze qua e là: «il campanile scioglie i suoi contorni / nel trillo del cammello che va per il mercato / (mentre il pesce gatto vola via con te…)»; allora, «quando la notte è chiara / […] va in scena un concerto / di nidi al balcone / presenti e nascosti, / con parole che scivolano / in ombra al chiaro / dalla finestra aperta»; e si può scoprire che «le foglie cadute sul prato / […] nascondono, sai, / la vita che ignori / mentre cammini di corsa al tuo treno / creature che, lente, / si amalgamano al passo della stagione / ne seguono il fiato, il battito, i giorni / senza scordare il vento che scuote / le chiuse persiane // i vivi mai morti, i morti non più». Così, forse per un attimo, o per un succedersi intenso di attimi, sembra sciogliersi, nel sogno, l’inganno diurno della superficie e l’orfanezza si stempera, al risveglio, nella ritrovata appartenenza alla bellezza essenziale della vita che non demorde, ma sorride e si rinnova:
e fiorisce di nuovo
la bianca magnolia
lontano dal male che batte nel vento
e chiude le giacche, ci lascia più soli.
fiorisce più alta a bordo strada
sovrasta ringhiere, le carte incollate
sopra il pannello,
invade la strada, intralcia
l’andare sbagliato di noi.


Il sogno del pesce gatto
di Marco Pelliccioli
I quaderni de La collana,
Stampa 2009 editore, 2023
Prezzo: euro 7,00

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