Italiano cosmopolita

Federico Italiano vive a Vienna dove è ricercatore presso l’Accademia austriaca delle scienze. Poeta, saggista, traduttore, insegna letteratura comparata all’Università di Monaco di Baviera. Le sue poesie sono tradotte in diverse lingue e pubblicate in varie antologie. ytali l’ha intervistato.
MARIA GAZZETTI
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Federico Italiano, nato a Novara nel 1976, vive a Vienna dove è ricercatore presso l’Accademia austriaca delle scienze. Poeta, saggista, traduttore, insegna letteratura comparata all’Università di Monaco di Baviera. Dopo l’esordio con Nella costanza (2003) ha pubblicato quattro libri di poesie: L’invasione dei granchi giganti (2010), L’impronta (2014), Un esilio perfetto. Poesie scelte (2000-2015) e Habitat (2020) cui ora fa seguito il quinto, dal titolo La grande nevicata, uscito per Donzelli nel 2023. Le sue poesie sono tradotte in diverse lingue e pubblicate in varie antologie. Nel 2022 è uscita per i tipi di Hanser Sieben Arten von Weiß, una selezione delle sue migliori poesie nella traduzione in tedesco di Raoul Schrott e Jan Wagner. Dello stesso Wagner, Italiano ha tradotto dal tedesco Variazioni sul barile dell’acqua piovana (2019) per Einaudi e Autoritratto con sciame d’api (2022) per Bompiani.

Cominciamo dal titolo di questa tua ultima raccolta di poesie La grande nevicata. Oltre al fatto che possa riferirsi a un evento reale, questo titolo rievoca lo stupore, la meraviglia, la sorpresa, la gioia forse… È come se, e il titolo potrebbe essere programma, nelle tue poesie, alla fine, tutto fosse possibile, soprattutto il miracolo di qualcosa che accade, una epifania… O è secondario dare importanza ai titoli?
I titoli sono naturalmente importanti, se non fondamentali, perché sono la prima cosa del libro con cui il lettore entra in contatto, in libreria o leggendo la nota biografica dell’autore. Sono la porta para-testuale del libro. A volte, sono un ingresso ornato e spettacolare, altre una ghirlanda fiorita, altre ancora un fuoco d’artificio che dà inizio alla festa, non di rado, però, sono un ombroso passaggio segreto, un tranello, una scorciatoia o una deviazione… Per i libri di poesia, spesso un titolo è tante di queste cose insieme. Così intendo, per lo meno, i titoli che ho dato ai miei libri. Per quanto riguarda l’ultimo, è tratto dal titolo di un testo centrale della raccolta, “La grande nevicata del 1985”. Quella è una poesia in cui tornano quasi tutte le stringhe tematiche che legano le sezioni del libro, la neve, la meteorologia, la memoria, la storia, il gioco, gli anni Ottanta, lo spazio, il sovrapporsi di topografie, la sensualità degli oggetti, ecc. Insieme alla direttrice di collana, Elisa Donzelli, che ha seguito con dedizione il farsi del libro, ho ragionato a lungo sul titolo e alla fine ci siamo decisi per questo: La grande nevicata. Togliendo l’anno, la grande nevicata diventa qualcosa di più generale e compenetrante, al di là del singolo evento e della singola memoria, qualcosa oltre l’occasione. Non so se siano le mie poesie a contenere miracoli o la poesia stessa a crearne. In ogni caso, mi piace pensare che ogni poesia sia lo spazio di un miracolo, lo spazio in cui avviene qualcosa di mirabolante e salvifico, qualcosa di cui non riusciremo mai a capirne fino in fondo la natura.

Immagine della grande nevicata del 1985

La tua poesia di respiro ampio, europeo, molto vicina alla poesia anglosassone si nutre di un linguaggio semplice e al contempo di uno stile ricercato, di parole preziose ma si apre al quotidiano, al dettaglio e lì vi scopre il meraviglioso, è una poesia lontana da un lirismo soggettivo di stati d’animo. Questo ti rende in un certo senso singolare nel panorama della attuale poesia italiana. Come ti vedi tu, guardandoti da lontano, nel contesto attuale poetico italiano?
Quando si scrive non si è mai veramente soli, ci sono fantasmi dappertutto. La scrittura è sempre una reazione a quanto hanno scritto altri prima di noi. Ciò vale naturalmente per ogni testo letterario, ma ancor di più per la poesia. Per questo le “letture” dei poeti sono così decisive. E le mie si sono orientate fin da subito oltre le Alpi e il Mediterraneo, sviluppando un particolare feeling proprio con la poesia di lingua inglese. Tuttavia, sebbene io abbia amato e continui ad amare poeti come Seamus Heaney, Ted Hughes, Philip Larkin, Elizabeth Bishop, Mark Strand, W. S. Merwin e Paul Muldoon, per citarne alcuni, è anche vero che la mia poesia è debitrice in molti sensi dell’opera di Giovanni Pascoli, Guido Gozzano, Eugenio Montale, Umberto Saba, Giorgio Caproni e Vittorio Sereni, per citarne altri. La mia cultura poetica, inoltre, è profondamente intrisa di poesia in lingua tedesca, da Hölderlin a Paul Celan, passando per Rilke e Trakl. E anche se questi autori si notano meno sulla superficie dei miei testi, i loro fantasmi aleggiano potenti nel mio laboratorio poetico. Lo stesso si può dire anche di certi poeti italiani che amo molto, sebbene stilisticamente sembrino lontani dalla mia opera, come Andrea Porta o Andrea Zanzotto.

Dall’Hotel Libreville a Tangeri, a Vilnius e in Mitteleuropa, dallo Yeti alla Barbabietola sono questi gli incipit di alcune tue poesie, viaggi veri o viaggi autour de ma chambre?
Il viaggio è sempre al confine tra realtà e immaginazione. I luoghi veri, del resto – come diceva Melville riferendosi all’isola natale di Queequeg –, non sono mai riportati nelle mappe. Sono stato a Vilnius? Certo. Odio le barbabietole? Sì, il trauma gastronomico di cui parlo in “Barbabietola” è purtroppo verissimo. Ho visitato Tangeri centinaia di volte – con la mente. Esiste l’Hotel Libreville? Non ve lo dirò mai, così come non rivelerò mai il titolo del romanzo cui si allude in quel quasi-sonetto. Sono stato a Erevan? No, ma neanche l’io lirico della poesia che porta quel titolo c’è mai andato; la sogna soltanto, dopo essersi addormentato dentro l’hangar svuotato di un aeroporto abbandonato – e sogna anche Ulan Bator. Lo Yeti della poesia omonima? Lo cercai davvero da bambino, sovrapponendo la topografia dell’Himalaya alle scale, alle camere e ai corridoi di casa mia, la casa della mia infanzia a Romentino, in provincia di Novara.

Romentino (Novara)

Tanti animali, anche di specie rara, tanta natura e tanti territori (ti occupi di cartografie nella letteratura) nelle tue poesie, è un programma?
Forse solo il mio libro di esordio, Nella costanza, non è popolato da diversi animali. In quella raccolta, davvero giovanile, pubblicata esattamente vent’anni fa, ero totalmente preso da me stesso, dai primi amori, dal primo esplosivo contatto con il mondo tedesco, dall’urbanissima topografia monacense, dai miei studi filosofici, dai continui “traslochi”. D’altra parte, anche lì, degli animali, oltre all’uomo, fanno pur capolino in qualche poesia. Nel 2010 pubblico la mia seconda raccolta e il titolo, in effetti, è una sorta di programma, sebbene di non facile lettura: L’invasione dei granchi giganti. La penultima, Habitat, reca invece chiaro nel titolo il concetto alla base di ogni riflessione ecologica – habitat, appunto. In quella raccolta, dominano la flora e la fauna dell’Ovest Ticino, gli uccelli, gli anfibi e gli insetti che si trovano nelle risaie, il mondo d’acqua piemontese in cui sono cresciuto, dalle egrette garzette alle rane, dall’airone ai tafani, dalle libellule-elicottero alla nitticora in frak. Ma ci trovi anche insetti da cucina, come la drosofila, o la Guida agli uccelli della Foresta Nera, con il mio rapace preferito, l’astore, i cui occhi diventano rosso-ciliegia quando invecchia. La grande nevicata è un libro, credo, più meteorologico che zoologico, più topografico che eco-sistemico, ma anche qui non mancano gli animali, soprattutto, gli uccelli, penso in particolare a testi come “Mediterraneo” e “La pesca con i cormorani sul fiume Li”.

La grande nevicata è un originale incrocio di scambio culturale italo-tedesco: alcune poesie di questa raccolta sono uscite per la prima volta tradotte in tedesco da Jan Wagner nella raccolta Edition Lyrik Kabinett bei Hanser nel 2022 col titolo Sieben Arten von Weiß, tradotte da Jan Wagner e Raoul Schrott. Mi sembra piuttosto singolare questo fatto che rispecchia bene il tuo lavoro e la tua vita tra i due mondi, quello italiano e quello tedesco, ce lo vuoi descrivere?
Sono molto felice della mia raccolta “tedesca”. Innanzitutto perché la collana, in cui è uscita, mi lega inscindibilmente al Lyrik Kabinett, un luogo unico, che con le sue attività e la sua straordinaria biblioteca ha reso Monaco una delle capitali mondiali della poesia. E non c’è bisogno che lo dica a te, che ne sei stata direttrice per anni. Anzi, devo anche la nostra amicizia a quel luogo che ci ha fatto incontrare. Sono anche onorato di entrare a far parte, con questo libro, del cosmo letterario dell’editore Hanser, che ho sempre ammirato fin dai miei primi passi nelle librerie e nelle lettere tedesche. Ma, soprattutto, mi riempie di gioia e orgoglio essere stato tradotto da Raoul Schrott e Jan Wagner, che stimo moltissimo sia come poeti sia come persone.

Lyrik Kabinett München

È stato bello vederli all’opera, giostrarsi sugli interstizi della mia lingua con passione e cura, plasmando soluzioni imprevedibili e bellissime anche laddove sembrava impossibile trovare una traduzione soddisfacente. Il libro è una sorta di auto-antologia, un “selected poems” come direbbero gli anglosassoni. Metà dei testi è stata tradotta da Jan, l’altra metà da Raoul. Per buona parte, la scelta di chi traducesse cosa è stata mia, ma molte poesie pare si siano scelte da sole il loro traduttore, senza che io ci mettessi becco. Dei cinquanta testi circa che compongono la raccolta, una quarantina è tratta dalle mie raccolte precedenti e una decina da testi ancora inediti nel 2022, ora usciti in Italia ne La grande nevicata. Alcune mie poesie, quindi, hanno raggiunto il pubblico tedesco un anno prima di essere note anche in Italia.

Un esilio perfetto il tuo a Vienna e Monaco? Ha ancora senso usare la parola esilio?
Sì, se ci intendiamo sul termine esilio. La poesia, come mi è capitato già di dire altrove, è un’arte del trasloco, un’arte che impone lo spostarsi, il dislocarsi. Il poeta è, in questo senso, fuori di sé, non sta più in sé stesso, non sta nella pelle, per usare un’espressione idiomatica, non sta nella sua pelle. È sempre costretto a uscire da sé, a emigrare. Lo scrivere è emigrare. La poesia è dunque, di per sé, una forma di esilio, un luogo allo stesso tempo sconosciuto ma familiare, inquietante eppur profondamente nostro, così nostro da far paura. La perfezione di questo esilio è dunque l’inesorabile esilio di ogni scrittura poetica – perfetto perché pieno e compiuto a livello testuale. D’altra parte, nell’idea di compiutezza, si cela anche il fondamento utopico della poesia, il suo essere “giusta” o meglio ancora “vera” al di là di chi la scrive, vera come solo i luoghi che non esistono possono esser veri.

Ritorneresti in Italia?
In Italia ci torno spesso. Con la mente ci torno quasi ogni giorno. Di più non saprei dirti per ora.

Non c’ è intellettuale che non parli oggi dell’intelligenza artificiale. Ti preoccupa? Le nuove tecnologie mettono in discussione le creatività di artisti e scrittori? O aprono a nuove possibilità? Se sì, quali conseguenze può avere questo?
In primo luogo, non so quanto l’intelligenza artificiale rimarrà “artificiale”. Di questo passo, primo o poi raggiungerà una coscienza propria e non potremo più parlare semplicemente di IA, ma dovremo accettare, o meglio, dovremo purtroppo sottometterci a un’intelligenza non-biologica infinitamente superiore alla nostra e potenzialmente eterna, giacché in grado di rinnovarsi e migliorarsi infinitamente, emancipandosi anche dalla manutenzione umana per ora ancora imprescindibile. Quando – e se – questo effettivamente accadrà, non lo so. Non ho le competenze informatiche per determinare con esattezza lo status quo e quindi subodorare il futuro. Ma mi sembra abbastanza plausibile che possa accadere. In quel caso, la poesia – e non lo dico solo per portare acqua al mio mulino – sarà uno degli ultimi baluardi di resistenza umana, perché è un’attività creatrice meno raziocinante, meno lineare, vocata all’incanto (per come la vedo io, almeno) e strutturalmente più associativa della prosa narrativa (intendo soprattutto quella che fa del plot, della trama, l’essenza del suo essere). Anche rispetto a qualsiasi forma di arte plastica e musicale la poesia rimane l’espressione umana più libera perché non ha bisogno di alcun supporto materiale e non deve dunque gareggiare ad armi impari con la suddetta intelligenza. Penso alle poesie di Mandel’štam che sono sopravvissute alla censura sovietica perché sua moglie, Nadežda, le ha imparate a memoria. In un certo senso, la poesia ha i presupposti per sopravvivere in una battaglia tra uomo e macchina. Tuttavia, dovessi ancora vivere il giorno in cui una super-intelligenza informatica, cosciente, senziente e quasi onnipotente, sarà in grado di scrivere in due secondi una poesia impeccabile, perfetta anche nella sua imperfezione, nella sua fragilità musicale e ambiguità semantica… Beh, in quel caso, direi “chapeau” al collega computer, chiedendogli se ha qualche altro testo da farmi leggere.

Sul NYT si apprende che il regista Werner Herzog è la voce di un audiolibro di poesie scritte dall’intelligenza artificiale. 

Tu sei ricercatore scientifico e insegni letteratura comparata, pensi che oggi più che mai la disciplina umanistica e la poesia siano importanti per ridefinire cosa significhi umano e umanistico?
Studiare e praticare Letterature comparate rimane il modo migliore, a mio vedere, per comprendere i processi, le tecniche, i contesti e le teorie che determinano l’immenso e variegato mondo della parola, specie quando utilizzata in “funzione poetica” ma non solo. Come comparatista, mi piace attraversare vari mondi testuali, dal sonetto di un poeta petrarchesco di lingua spagnola al giornale di bordo di un capitano inglese del Settecento, dalla legenda di una carta geografica alle memorie di un romanziere del secolo scorso, dal saggio di un geologo di fine Ottocento alla strofa saffica di un poeta contemporaneo. I quesiti che mi pongo sono però sempre gli stessi: Cosa fanno le parole quando le scriviamo, quando le fissiamo sulla carta, congedandole e affidandole ai posteri? In cosa consiste effettivamente il loro potere? Fin dove arriva la loro capacità di plasmare il mondo in cui viviamo?

E la poesia?
Per quanto riguarda la poesia, nella risposta volutamente un po’ distopica alla tua domanda precedente sulla IA, trovi già in nuce la risposta a questa domanda. Non solo possiamo definire la poesia quale prima arte propriamente umana ma sarà con tutta probabilità anche l’ultima che abbandoneremo, l’ultimo baluardo di resistenza contro la disumanizzazione dell’uomo. Questo non tanto perché sia più raffinata, complessa o perturbante rispetto ad altri generi e altre arti. Piuttosto perché la poesia, soprattutto quella lirica, vive delle sue stesse intrinseche contraddizioni, essa ti sfugge dalle mani il momento esatto in cui credi di averla capita, ti ammalia e poi sparisce per vent’anni, lasciandoti per terra chiedendo di più, finché la ritrovi un giorno completamente diversa completamente uguale su uno scaffale. Per alcuni poeti è un embrione oscuro, per altri, una ferita scoperta. Sia come sia, la poesia non è mai passiva, non sospende il giudizio come un buon fenomenologo, ma giudica, la poesia giudica eccome, ma a differenza di un giudice o di chissà quale altra istanza giudicante, essa non impone pene, non imprigiona, non condanna. Essa fornisce invece solo ricompense, raddrizza situazioni storte e corregge ingiustizie. La poesia ha bisogno del mondo per espandersi ed essere, ma è auto-sufficiente perché si nutre di sé stessa, come una resina che sgocciola – per parafrasare Shakespeare – nel punto stesso in cui si nutre.

Italiano cosmopolita ultima modifica: 2023-09-01T12:18:33+02:00 da MARIA GAZZETTI
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