Era il 29 agosto 1993, allo stadio Olimpico di Roma si disputava una sfida fra la Lazio di Zoff e il Foggia di Zeman e quella domenica sera il calcio cambiò per sempre. Quel Lazio – Foggia, infatti, fu il primo posticipo della storia del campionato italiano di Serie A, trasmesso da Tele+ 2 e preceduto, il giorno prima, dell’anticipo del campionato di Serie B fra Monza e Padova, trasmesso sempre dallo stesso canale e conclusosi con la vittoria dei veneti per 1 a 0. Niente di spettacolare, uno 0 a 0 senza infamia e senza lode, ma nulla, da quel momento in poi, sarebbe stato più come prima. Basti pensare alle discussioni e alle polemiche dei mesi precedenti, fra chi accoglieva con interesse e velato entusiasmo la novità e chi invece temeva che potesse essere messa in discussione la sacralità del sistema, che fino a quel momento prevedeva la disputa di tutte le partite alla stessa ora. Sono discussioni che oggi fanno quasi sorridere, specie se pensiamo che lo “spezzatino” è diventato tale che ormai è difficile trovare due partite giocate in contemporanea, al punto che più di un ossevatore, me compreso, comincia a scrivere a chiare lettere che si sia passati da un eccesso all’altro e che quest’esasperata frammentazione provochi disaffezione e disinteresse da parte del pubblico. Fatto sta che il discorso è di carattere filosofico e finanche geo-politico, prendendo in esame ciò che avviene in tutto il mondo e i precedenti della vicenda. Già alle Olimpiadi di Seoul del 1988, infatti, la NBC americana aveva costretto il CIO (Comitato Olimpico Internazionale), previo pagamento di tutto rispetto dei diritti televisivi, a organizzare le gare di nuoto e di atletica in orari ideali per il pubblico statunitense, così da poter vendere a prezzi esorbitanti la pubblicità. E allora la domanda è: deve prevalere lo sport o il business? Ma soprattutto: può essere ancora considerato sport un gioco in cui girano miliardi e miliardi e le televisioni a pagamento fanno il bello e il cattivo tempo, tenendo al guinzaglio società sempre più indebitate e affamate di denaro e imponendo orari e modalità della competizione? Possono delle piattaforme senza alcun principio etico imporre non solo ai singoli stati ma addirittura a significative organizzazioni internazionali come la FIFA e la UEFA le proprie regole? Può prevalere in maniera così smaccata la legge del più forte? E possiamo, noi spettatori, rimanere in silenzio di fronte a questo continuo sopruso?
Appartengo a coloro che sostengono, non da oggi, che per esistere l’Unione Europea dovrebbe avvicinarsi ai propri cittadini, tenendo presente che l’inno della Champions League ha fatto per la formazione di una cittadinanza europea consapevole e felice di esser tale più di quanto non abbia fatto l’euro e qualsiasi altra iniziativa politica. A tal proposito, ripeto da tempo che dovrebbe esistere un canale sportivo del Vecchio Continente, finanziato da una parte del canone dei vari servizi pubblici, trasmesso in tutte le lingue e in grado di offrire non solo i principali campionati e le competizioni calcistiche europee ma anche la Formula 1 e gli altri sport, proprio come avviene oggi grazie alle TV a pagamento, il tutto in chiaro e senza costringere nessuno a sborsare cifre che molte persone, travolte dalla crisi economica cui siamo chiamati a far fronte, non possono permettersi.

Qualcuno pensa che si tratti di un’utopia. Per me si tratta, al contrario, dell’unica, e forse dell’ultima, possibilità che ha quest’Europa tecnocratica per riavvicinarsi al suo popolo, per offrire un segno tangibile di discontinuità rispetto al passato e per lasciar intendere alle centinaia di milioni di cittadine e cittadini che il prossimo giugno saranno chiamati a votare per rinnovare il Parlamento europeo che ha capito la lezione derivante dal fallimento della globalizzazione dissennata. Certo che non può bastare questo, certo che bisognerebbe occuparsi anche di temi come l’immigrazione e il sostegno pubblico all’economia, scindendola finalmente dalla finanza, certo che c’è ben altro di cui parlare nella campagna elettorale che caratterizzerà tutto quest’anno, ma attenzione a non commettere l’errore di sottovalutare l’importanza del tema che ho appena posto. Il calcio, difatti, è un volano straordinario per introdurre innovazioni e cambiamenti e sarebbe folle sottovalutare il contributo che potrebbe fornire alla riaffermazione del concetto di bene comune, in contrapposizione alla dittatura del liberismo sfrenato e alla privatizzazione di ogni servizio e ambito della società.
Trent’anni fa, in Italia, si è affermata l’idea che il privato possa, anzi debba, prevalere sul pubblico. Fu l’inizio della deregulation, che andava di pari passo con la svendita del nostro patrimonio, a cominciare dai gioielli di famiglia, e con l’infatuazione della sinistra per lo strapotere del mercato, culminato con il disastro di Telecom e con l’abbraccio acritico della Terza via di Clinton e Blair, il cui risultato è stato il tracollo dei progressisti a livello mondiale, fino all’onta di dover vedere i socialisti francesi in fila ai seggi per sostenere Chirac, onde evitare l’affermazione di Jean-Marie Le Pen alle Presidenziali del 2002.
Come sostiene uno che di calcio ne capisce parecchio, ossia Arrigo Sacchi, “chi sa solo di calcio non sa niente di calcio”. E questo, con ogni evidenza, non è un articolo che si limiti al calcio e allo sport, investendo il costume nazionale, il nostro modo di essere e il declino morale, culturale e, purtroppo, anche sportivo cui siamo andati incontro.
Non penso che si debba tornare ad avere tutte le partite in contemporanea, ma la riduzione dello spezzatino è indispensabile affinché le nuove generazioni non si disamorino definitivamente di un gioco che non può trasformarsi unicamente in spettacolo, sul modello del Super Bowl americano, pena il venir meno della sua epica e della sua stessa ragione di esistere. Senza contare che non potremo difenderci dall’avanzata dei petrodollari arabi a colpi di Superlega e allargamenti dissennati della Champions League, in un crescendo rossiniano di partite che fanno sì che la maggior parte di esse non abbia alcun senso. Potremmo difenderci, all’opposto, se l’Unione Europea, per una volta, decidesse di esistere davvero, varasse un canale sportivo comune e lo rendesse fruibile a chiunque, mettendo sullo stesso piano il povero e il ricco e accogliendo anche i figliol prodighi inglesi, fornendo loro un ulteriore motivo per riflettere sulla sciocchezza che hanno compiuto con la Brexit. Se ciò non dovesse accadere, e temiamo fortemente che non accadrà, quest’Europa, priva di una politica estera comune, incapace di esercitare una funzione diplomatica, divisa su tutto al proprio interno e ridotta a fortezza dal populismo delle formazioni estremiste che vorrebbero distruggerla, diventrtà in breve tempo una patria senza popolo, una matrigna detestata da chi, invece, dovrebbe amarla e un insieme di staterelli declinati pronti a chiudersi alla modernità, sancendo di fatto la propria irrilevanza. Uno scenario in confronto al quale l'”espressione geografica” con cui Metternich definiva sprezzantemente l’Italia costituirebbe un miraggio.

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