Archeologia della conoscenza, archeologia del clamore

Si torna a discutere di via dei Fori Imperiali, la larga strada romana nata per unire piazza Venezia al Colosseo, che  spacca in due un insieme prezioso, quello dei Fori e nasconde buona parte del Foro di Augusto con i suoi probabili tesori. Carlo Pavolini, archeologo e docente universitario, è la persona più adatta a parlare dell’argomento che non riguarda solo Roma.
IDALBERTO FEI
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Nel numero di Ferragosto di Artribune, Thomas Villa torna a parlare di via dei Fori Imperiali sposando decisamente la tesi di chi vorrebbe raderla al suolo: creata per celebrare i fasti dell’impero fascista, la larga strada romana nata per unire piazza Venezia al Colosseo,  spacca in due un insieme prezioso, quello dei Fori e nasconde buona parte del Foro di Augusto con i suoi probabili tesori.

Carlo Pavolini*, archeologo e docente universitario, autore del recente Che fare dei Fori? (Robin edizioni 2022) è la persona più adatta a parlare dell’argomento che riguarda non solo Roma ma anche il modo di vedere oggi l’archeologia.

Nella cultura archeologica, urbanistica e architettonica oggi prevalente a Roma è maggioritaria l’ipotesi di non cancellare la Via dei Fori Imperiali (ex dell’Impero), bensì di conservarne la quota e l’asse visuale, in quanto elemento ormai consolidato del panorama cittadino. Naturalmente non si pensa di lasciare le cose come stanno: ci si orienta, al contrario, nel senso di ridurre l’ampiezza della carreggiata stradale (progettata nel pieno dello sviluppo novecentesco della motorizzazione, mentre oggi non viene quasi più utilizzata per il traffico automobilistico privato), di rimodellarne i bordi, con il loro arredo a verde attrezzato, di prevedere passerelle leggere di collegamento fra le parti circostanti di città – oggi artificialmente separate  – e anche di scavare, ai lati, ulteriori settori del sedime archeologico sottostante. La fermata di Piazza Venezia della Metro C – se finalmente venisse realizzata – permetterebbe poi la definitiva pedonalizzazione della strada, fatti salvi, naturalmente, i taxi, i bus elettrici, forse i tram leggeri, le biciclette, i mezzi di servizio e di soccorso. Tornando però alle varie opzioni di fondo oggi sul tappeto, altri esperti e commentatori (come evidentemente Thomas Villa) continuano invece a preferire l’idea – sorta fra la fine del decennio 1970 e l’inizio del successivo – di un’asportazione totale di Via dei Fori, così da riunificare le piazze romane sottostanti.        

La storia di questa strada non comincia però con Mussolini, ma molto prima, addirittura con Napoleone.
Nel periodo della dominazione napoleonica a Roma, in effetti, si pensò già a una qualche forma di collegamento fra l’area dei Fori e il primo tratto della Via Appia, all’esterno delle Mura Aureliane. In età napoleonica si fece però in tempo a mettere in luce solo un settore limitato del Foro di Traiano, adiacente la Colonna. Dopo l’Unità d’Italia si progettarono, senza però attuarli, collegamenti viari fra la terminazione di Via Cavour (aperta attorno al 1880) e Piazza Venezia; nel contempo, fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, si realizzò – per impulso di Rodolfo Lanciani, Guido Baccelli, Giacomo Boni e altri – la Zona Monumentale Riservata o “Passeggiata Archeologica”, tuttora esistente fra Porta San Sebastiano, le Terme di Caracalla, le pendici occidentali del Celio e il Colosseo. Una zonizzazione del genere, del resto, era stata prevista già nei Piani Regolatori dei decenni 1870 e 1880. Più tardi, negli anni Venti, Corrado Ricci promosse – con le prime demolizioni degli edifici moderni – un consistente ampliamento degli scavi dei settori settentrionali dei Fori di Traiano e di Augusto, mettendo  così in luce anche la fronte curvilinea dei Mercati Traianei.      

Il centro di Roma prima delle demolizioni per la costruzione di via dell’Impero.

Mussolini urbanista. Come lo giudichiamo adesso, al di là delle ideologie?
L’ideologia, nascosta o implicita, rimane una componente non eliminabile di ogni agire politico. Nel 1932-34 Mussolini decise e fece rapidamente attuare il tracciamento di Via dell’Impero, che, perfettamente rettilinea (a differenza dei piani parziali formulati nei decenni 1890-1910), avrebbe permesso la visuale del Colosseo da Palazzo Venezia, dove il duce si era installato fin dal 1929. Il giudizio sull’operazione mussoliniana rimane oggi fermamente e totalmente negativo, tanto che io scriverei “Mussolini urbanista” fra virgolette (è questo il titolo di un notissimo libro di Antonio Cederna). Si trattò in realtà, come nel caso degli altri sventramenti operati dal fascismo a Roma, di un disastro urbanistico e sociale, che comportò la polverizzazione di un intero quartiere tardo-cinquecentesco (quello detto Alessandrino), intensamente abitato e fitto di memorie storiche, e la conseguente deportazione dei residenti dei ceti popolari che vi risiedevano, spediti a migliaia nelle degradate borgate di periferia. Comportò inoltre la trasformazione traumatica di parte dell’orografia del centro di Roma, con il taglio della collina Velia, frapposta fra il Colosseo e l’attuale Largo Corrado Ricci. Oggi il punto non è cambiare la nostra valutazione degli eventi di allora, ma scommettere – puntando sulla categoria dell’”eterogenesi dei fini” – sulla possibilità di mutarne il segno e la percezione urbanistica: dagli scopi meramente propagandistici sottesi al progetto di Mussolini (i monumenti antichi come recupero mistificato di una “romanità” imperiale, oltre che come sfondo per le parate di regime) all’utilità civile che la strada può continuare ad avere oggi, anche come vettore di conoscenza storico-archeologica per i turisti e per tutti i cittadini. A patto che, ai due lati, i resti dei grandi e importanti scavi stratigrafici svolti dal Comune di Roma, a partire dal 1995 e fino ad oggi, siano resi comprensibili mediante adeguati interventi di restauro e di arredo didattico e divulgativo.

San Lorenzolo ai Monti e veduta del quartiere alessandrino prima delle demolizioni. Incisione di Giuseppe Vasi, 1747

               

Le Corbousier e il ponte trasparente. A un certo punto fra le pagine del libro luccica questa ipotesi surreale di sistemazione dei Fori.
Le Corbusier, a quanto sembra, visitò la Via dell’Impero (appena realizzata) una sola volta, nel 1935, e ne trasse alcuni schizzi. L’anno dopo tornò a Roma e fu intervistato da Antonio Muñoz, direttore delle antichità e belle arti del Governatorato – com’era allora denominato il Comune di Roma – e principale braccio destro del duce in tutta la vicenda di Via dell’Impero. Muñoz e Bottai avrebbero voluto ottenere dall’architetto svizzero un assenso alla sistemazione che si era inteso dare all’intera area, il che sostanzialmente non avvenne. In tale contesto, i grandi ponti trasparenti e sospesi che egli avrebbe ideato come soluzione del problema del collegamento fra comparti urbani e monumentali separati dalla nuova strada vanno visti come un’affascinante e provocatoria metafora, un’indicazione progettuale che, in fondo, si cerca a tutt’oggi di riprendere, più modestamente, mediante l’ipotesi delle passerelle alle quali ho accennato poco sopra.      

Da decenni si discute il problema della sistemazione dei Fori. Perché non si riesce a trovare una soluzione?
Nel libro dico a un certo punto, fra il serio e il faceto: forse perché è un problema talmente grande che fa tremare le vene e i polsi, per cui ogni volta ci si arresta al momento di scendere realmente in campo. Attorno al 1981-83, però (per l’impulso di persone come Adriano La Regina, allora Soprintendente Archeologico di Roma, di Cederna, Insolera, Carandini, di sindaci come Argan e Vetere e di tanti altri), ci eravamo andati molto vicino: ma l’allora governo a guida democristiana bloccò tutto. Se però risaliamo indietro nel tempo, ci rendiamo conto che la difficoltà del tema aveva fermato la mano degli stessi intellettuali e tecnici cui il regime fascista aveva affidato il compito di colmare i vuoti che gli sventramenti si erano lasciati alle spalle. È forse anche così che si spiega come mai il concorso del ‘33, bandito al fine di progettare il Palazzo del Littorio (futura sede del partito), da incastonare dove prima c’era la collina Velia su citata, cioè di fronte alla Basilica di Massenzio, non diede luogo ad alcuna decisione pratica: e sì che alcuni dei progetti allora presentati, dei quali rimangono disegni, plastici, ecc., avevano rispecchiato il meglio delle tendenze razionaliste allora propugnate dagli architetti italiani più aggiornati. Il che induce, per inciso, a un’altra riflessione: negli anni Trenta si fecero a Roma cose che oggi giustamente condanniamo sul piano politico e civile, ma che sottendevano pur sempre un’idea di città.

Oggi, in democrazia, noi non possiamo rischiare di consegnare ai posteri, invece, un’area d’importanza storica, urbanistica e simbolica vitale – qual è il cuore archeologico della capitale – mantenendole l’aspetto di una sorta di “lacuna urbana”, disconnessa, oltre tutto, dai quartieri edificati circostanti. Per cui, nell’attuale dibattito su ciò che sarebbe meglio fare in vista del Giubileo del 2025 e anni successivi, è fra l’altro da tenere fermo – a mio avviso – l’orientamento del bando di un nuovo concorso internazionale di idee, che preveda non solo la sistemazione della via e dei Fori Imperiali ai suoi lati, ma anche le modalità dei collegamenti di tutto questo insieme con il Foro/Palatino, il Colosseo, il Circo Massimo e l’intera città storica. Per questo è preoccupante che il programma scaturito dall’incarico affidato dalla giunta Gualtieri a Walter Tocci – programma del quale, peraltro, ai romani non è stato finora mostrato gran che – sembri segnare attualmente il passo, evidentemente a causa di resistenze miopi e immotivate di parte governativa (partner del progetto è infatti il Ministero della Cultura, rappresentato nell’area dai responsabili del Parco Archeologico del Colosseo).  

Quando chiesero a Fellini se il suo ultimo film sarebbe piaciuto ai giovani rispose che non ne aveva idea, era come domandargli se avrebbe incontrato i gusti dei ciclisti o dei vegetariani. Ma con lei voglio provarci lo stesso: i giovani e l’archeologia, si fermano a Indiana Jones?
Fortunatamente, oggi, la maggioranza delle persone giovani che si accostano all’archeologia non ne hanno più quell’idea avventurosa e “romantica” che trasmettono i film di Indiana Jones (i quali, beninteso, sono molto divertenti, e la stessa archeologia, seria quanto si vuole, può benissimo continuare ad affascinare, anzi deve farlo!). Da decenni, anche in Italia, l’archeologia “sul campo” – soprattutto se parliamo di archeologia urbana, ma non solo – ha assunto quelle connotazioni stratigrafiche, diacroniche e contestuali che sole le permettono di presentarsi come una disciplina scientifica, come uno dei vari modi di “fare storia”, per dirla in breve. Altro è il problema di quanto i giovani, che tuttora si iscrivono in numero notevole ai dipartimenti universitari di studi archeologici e antichistici (ed è la miglior riprova di quanto essi continuino a suscitare attenzione e curiosità fra le nuove generazioni), trovino poi – in tempi non biblici – un lavoro davvero rispondente ai titoli che hanno acquisito con la laurea, e magari anche mediante i dottorati e i master: competenze, quindi, altamente specializzate, e per le quali le famiglie hanno speso e l’intera collettività ha stanziato fondi, creato strutture didattiche complesse, ecc. Per cui è molto grave (in questo come in altri campi, e non solo del lavoro intellettuale) la piaga del precariato o degli impieghi “demansionati”, tali che si assiste, ad esempio, al fenomeno di persone che, plurilaureate da anni, vengono addette alle biglietterie dei musei o delle aree monumentali, o simili.   

La basilica di Massenzio.

Scavando per la costruzione di una palestra e di un supermercato ecco comparire i resti del tempio di Giove.  successo di recente in Romagna, a Sarsina, la città di Plauto. Sembra che per il momento i progetti restino immutati: costruire comunque palestra e supermercato, limitarsi a una ricostruzione in 3D del tempio. Qual è oggi l’orientamento dell’archeologia in questi casi che si presentano di frequente?
Conosco il caso di Sarsina solo da sommarie informazioni giornalistiche, quindi non nei dettagli, ma in realtà una risposta generale si può dare, e la questione è forse meno “drammatica” di ciò che talvolta si pensa. Esiste ormai una diffusa cultura archeologica che, su solide basi metodologiche e tecniche, è in grado di armonizzare la salvaguardia delle conoscenze storiche e le esigenze dell’economia e dello sviluppo territoriale, naturalmente quando si dimostra che non vi sono soluzioni alternative alla trasformazione di un sito nel quale si riscontrino significative presenze antiche. Dipende da chi hai di fronte, ma anche da questo punto di vista possiamo dirci un po’ più ottimisti rispetto a un passato recente nel quale gli archeologi, le Soprintendenze, ecc., erano visti come il “nemico”, come coloro che bloccavano pregiudizialmente tutto, impedivano ogni progresso e così via. Parlo di moderato ottimismo perché oggi gli amministratori centrali e locali, i responsabili dei progetti (architetti, ingegneri), perfino le ditte edili e i proprietari delle aree fabbricabili mostrano generalmente una sensibilità e una disponibilità al dialogo che prima non c’erano: con le dovute eccezioni, naturalmente!

Bisogna anche dire che la normativa stessa si è evoluta, in un rapporto dialettico con i passi avanti della disciplina archeologica: ad esempio il Codice degli Appalti – pur criticabile e migliorabile per tanti versi – garantisce che si svolgano, ovunque sia necessario, le indagini  di archeologia preventiva, affidate a esperti dal curriculum certificato (vedi sopra). In definitiva – e in tanti casi concreti lo si è fatto e lo si fa – si possono scavare e documentare stratigraficamente i resti, a spese dei promotori della trasformazione; dopo di che, acquisito il parere della Soprintendenza, si possono anche interrare o sacrificare, a ragion veduta, alcune parti di ciò che si è trovato e farci costruire sopra, eventualmente imponendo che il progetto iniziale venga variato e che vengano lasciati in vista e restaurati settori significativi delle preesistenze. Seguiranno le ricostruzioni grafiche e/o digitali (in 3D, ad esempio) utili alla didattica e alla divulgazione, ma ciò che vedo come essenziale è soprattutto che si pubblichino in sede scientifica e definitiva gli esiti della ricerca, ciò che tuttora, ahimé, avviene in Italia troppo raramente.

*CARLO PAVOLINI

Carlo Pavolini (Roma 1948) si è laureato nel 1971 in Etruscologia e Antichità Italiche a Roma. E’ stato ispettore archeologo presso le Soprintendenza Archeologiche di Ostia (1976-1982) e di Roma (1982-1999); per quest’ultima è stato responsabile, nei primi anni ’80, del coordinamento archeologico del Progetto Fori Imperiali. Fra il 1999 e il 2014 è stato professore associato di Archeologia Classica presso l’Università della Tuscia di Viterbo. Ha partecipato, con la direzione di Andrea Carandini, a scavi a Ostia, nell’Africa romana e a Settefinestre; come funzionario di soprintendenza ha diretto scavi e restauri a Ficana, Ostia e Roma, e come professore a Ferento e Civitavecchia. Ha al proprio attivo più di 150 pubblicazioni scientifiche, fra cui le monografie Ostia (Guide Archeologiche Laterza), 2006; La vita quotidiana a Ostia, 1986; Eredità storica e democrazia. In cerca di una politica per i beni culturali, 2017; Ostia Antica, 2022; Che fare dei Fori?, 2022.  

Archeologia della conoscenza, archeologia del clamore ultima modifica: 2023-09-04T09:56:25+02:00 da IDALBERTO FEI
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2 commenti

Claudia Gabrielli 4 Settembre 2023 a 17:19

Molto interessante l’intervista di Idalberto Fei al prof. Carlo Pavolini
Complimenti Idalberto per l’articolazione delle domande, grazie Prof. Pavolini per il suo punto di vista inerente l’argomento affrontato.

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Vitaliano Tiberia 6 Settembre 2023 a 11:43

Intervista utilissima. Il problema di via dei Fori Imperiali è annoso, ma ora si potrebbe affrontare di nuovo, anche perché, tramontate le ideologie, si potrebbero realizzare soluzioni senza pregiudizi, grazie anche allo sviluppo di nuove sensibilità ambientalistiche e culturali; l’importante è che ogni iniziativa sia presa con scienza e coscienza con il fine esclusivo di fare un grande servizio al progresso della civiltà. Probabilmente, potrebbe essere operativamente utile il ricordo del pensiero di Giovan Battista Vico, il quale guardava alla storia attraverso le lenti d’ingrandimento della filosofia e della filologia, per tentare di coniugare insieme le verità dello spirito umano e la coscienza delle verità di fatto.

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