Il punto di vista del boia

MARCO CINQUE
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Nella storia delle esecuzioni capitali la figura del boia è stata sempre malvista: un sanguinario privo di sentimenti che uccide a sangue freddo, un bieco maniaco che fa il suo sporco lavoro senza batter ciglio e in nome di una società che si auto-considera ben più civile di lui. Si usa dare del boia a qualcuno solo in segno di assoluto disprezzo. Insomma, appellare una persona col sinonimo di “boia” equivale a una spregevole offesa. Eppure gran parte delle persone che disprezzano disgustate i carnefici di stato, sono sovente le stesse che si dichiarano favorevoli alla pena di morte. Ma sporcarsi le mani di delitti legalizzati non è altrettanto grave che consentirli e, talvolta, plaudirli? E’ quantomeno singolare considerare morale l’omicidio legale e immorale chi lo esegue.

© Marco Cinque

Charles Duff, nel suo grottesco e a tratti esilarante “Manuale del boia”, affermava che un boia degno di portare questo nome deve possedere dei requisiti superiori alla norma: avere una vasta cultura generale, essere umanamente sensibile, coltivare con serietà la propria evoluzione professionale, avere buone capacità dialettiche e altre amenità. Neanche un’eventuale fede religiosa deve, secondo Duff, mettere in dubbio l’onestà spirituale del buon dispensatore di morte. Così un boia può essere anche un cristiano praticante o un fervente di qualsiasi altra religione, coniugando fede e professione in un connubio dalle stridenti dissonanze. Infine, Duff arriva a paragonare il supremo supplizio al “più grande spettacolo del mondo”, e non sembra che abbia tutti i torti, vista l’imponente voglia di forca che ha attraversato, arrivando fino ai giorni nostri, la storia dell’umanità.

Nella Roma papale dei secoli XV-XIX, sia governanti che governati erano accomunati da una scarsa considerazione per la vita altrui e il boia ricopriva una figura rilevante nei costumi sociali di quell’epoca. Per i condannati non esisteva né comprensione né pietà, ma anche allora le sentenze capitali venivano condizionate, esattamente come oggi, dalla discriminazione razziale, economica e sociale. Su zingari, ebrei, omosessuali, schiavi moreschi, ecc., pesava invariabilmente la condizione di “diversi” e le già probabili sentenze di condanna venivano ulteriormente aggravate. I luoghi più consueti per i patiboli capitolini erano Piazza Navona, Campo de’ Fiori, Piazza del Campidoglio, Ponte Sant’Angelo, ma non ci fu piazza, slargo o altro luogo della città che rimase immune dal trasformarsi in teatro di morte, con tanto di pubblico acclamante. L’opera dei boia romani influenzò anche la toponomastica cittadina, tanto che persino la chiesa di San Nicola degli Incoronati venne denominata “de furca”.

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I metodi di esecuzione capitale più diffusi erano l’impiccagione e la decapitazione, ma non era infrequente l’utilizzo di sistemi ancor più crudeli e cruenti. Nel ventennio che intercorse tra il regno di Sisto V e quello di Clemente VIII ci furono cinquemila giustiziati, per una media di 250 esecuzioni annue; ma, a quell’epoca, l’alto numero di esecuzioni capitali non era solo un’esclusiva di Roma. Anche a Parigi venivano consegnate nelle mani del boia non meno di sessanta persone l’anno. Le esecuzioni sui patiboli romani erano diventate talmente consuete e “naturali” che nel XVII secolo si pensò bene di trasformarle addirittura in uno spettacolo carnevalesco (nel vero senso del termine). Si dice che lo stesso Papa Sisto V presenziasse le esecuzioni facendosi portare spuntini e merende, visto che quegli indegni spettacoli sembravano stimolargli l’appetito. L’ignobile costume popolare di riservare al Carnevale le esecuzioni più clamorose, si protrasse fino al termine del XVIII secolo.

In rapporto percentuale, calcolando che la Roma di quei tempi contava più o meno 250mila abitanti, ogni anno veniva condannata a morte e consegnata nelle mani del boia almeno una persona per ogni seicento cittadini. Oggi, per fortuna, non esiste un paese al mondo che riesca ad avvicinare, anche lontanamente, queste stesse proporzioni.

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Anche nei giorni nostri i boia continuano a svolgere il loro nefasto lavoro, sia in contesti nascosti e sia in pubblico, sia con esperienza e competenza nel campo e sia, come avviene nella lapidazione, improvvisandosi assassini legalizzati. La lapidazione, presente in paesi come Nigeria, Arabia Saudita, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Pakistan, Afghanistan e Yemen, è infatti l’unica forma di esecuzione capitale istituzionalizzata dove partecipa direttamente la folla, alla quale vengono consegnate pietre abbastanza grandi per uccidere, ma anche abbastanza piccole per infliggere una più lunga sofferenza alla sventurata o sventurato di turno.

Sempre in Arabia Saudita, definita vergognosamente come la culla del “Rinascimento arabo”, i boia locali uccidono i condannati con una grossa spada e il corpo dei decapitati viene appeso per giorni in luoghi pubblici. Ma il metodo più gettonato dal regime saudita è l’impiccagione. Proprio a questo paese spetta infatti il record della più grande esecuzione di massa della storia moderna: il 13 marzo 2022 sono state appese per il collo, in un sol colpo, ben 81 persone, nel silenzio complice dei governi amici, compresi quelli cosiddetti democratici, tra cui anche l’Italia.

In Cina, le pallottole usate dal boia in divisa o dai plotoni di esecuzione vengono messe sul conto delle famiglie dei condannati e la Cina è anche il paese dove i carnefici di stato uccidono più condannati (in rapporto percentuale alla popolazione sono però preceduti da molti altri), seguiti dall’Iran che, nel 2022, ha messo a morte 576 persone. Tuttavia, nei regimi dove prospera la pena di morte, i boia di Stato svolgono la loro truculenta professione senza ipocrisie e senza nascondere, agli altri e a se stessi, la cruda realtà di ciò che fanno. Diverso è invece il profilo del boia negli Stati Uniti, l’unico paese occidentale democratico a prevedere ancora la pena di morte nel proprio sistema giudiziario.

Negli Usa i boia non hanno cappucci neri o divise militari, ma sono vestiti da impiegati statali e persino da medici e infermieri. I protocolli utilizzati nei bracci della morte sono tesi a mistificare o a nascondere ciò che in realtà succede. Nei plotoni d’esecuzione, uno dei cinque cecchini ha il fucile caricato a salve, mentre nell’iniezione letale vengono azionati contemporaneamente due pulsanti, dei quali solo uno è quello che innesca il congegno che inietta il cocktail velenoso. Il patibolo viene allestito in una stanza a vetri, chiusa da un sipario, proprio come fosse un palcoscenico teatrale e il pubblico che assiste è diviso tra parenti e congiunti di Caino e quelli di Abele, con una parte che piange e l’altra che plaude. Così Caino diventa a sua volta Abele, mentre il Caino di Stato che gli toglie la vita, nel modo più premeditato che esista, non dovrà render conto a nessuno di ciò che ha fatto.

Purtroppo oggi, anche nei Paesi dove la pena capitale non è prevista, il tessuto sociale inizia, con sempre maggior frequenza, più o meno esplicitamente e da ogni latitudine politica, a invocare il ritorno del boia ogni volta che sale alle cronache un delitto efferato: uno stupro di gruppo, un omicidio per un parcheggio, l’uccisione di un orso o un incendio doloso, diventano motivi per esternare la propria voglia di patibolo, come se questo potesse davvero cancellare l’ingiustizia e il crimine dalla faccia della Terra. In mancanza della pena di morte, c’è comunque un’altra privazione della vita come l’ergastolo a rientrare nei desiderata dell’immarcescibile boia che ci abita, pur se nei fatti poi si demanda allo Stato il ferale compito.

Il punto di vista del boia ultima modifica: 2023-09-06T19:32:06+02:00 da MARCO CINQUE
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