Per chi conosce gli scritti di Nico Stringa di lui apprezza il suo saper prendere le misure a fil di corrente dei “pesci” che hanno popolato e popolano il grande mare della storia dell’arte, e così, nell’averlo seguito, ci si accorge che ci siamo immersi vantaggiosamente accanto ad Arturo Martini, Gino Rossi, Bepi Santomaso, Antonio Canova, Lee Babel, Alessio Tasca, e naturalmente a Boccioni e a Vedova. Questo dunque è lo Stringa che conosciamo, almeno fino ad oggi, solo che da ora in avanti ci sarà dell’altro. Infatti, il nostro esperto nuotatore in acque pericolose e mai immuni da stupori, quali sono quelle della storia dell’arte, è stato portato via da una corrente sottomarina sconosciuta, che di Nico Stringa ci ha restituito un suo doppio, abilissimo nel conseguire il proprio scopo. Un doppio che si manifesta nei momenti in cui lo stesso Stringa non potrebbe “giustificarsi” se non con il dire o scrivere : “quando arrivo davanti al foglio scopro che chi scrive, o descrive, lo fa senza che sia successo nulla prima di allora, non c’è proprio nessuna teoria”. Una confessione questa scritta da Claude Simon( 1913-2005) di cui si dirà più avanti, ma che significa? Semplicemente questo: il doppio, che nonostante tutto si firma Nico Stringa, ha messo assieme una novantina di fogli editati con il titolo Scrivere, una parola gravida, già nelle prime quattro righe, di possibili sortilegi magari nascosti o del tutto ignorati o subito accettati sulla via di sorprendenti affermazioni (riuscite?) e alle loro immediate negazioni (sincere?), il cui risultato potrebbe essere un’ossessione naturalmente bugiarda, scrivere. Comunque, più che sincero in apparenza, il doppio si presenta:
No, non sono uno scrittore, ma scrivo da tanto tempo. Sono uno scrivente, ecco. Mi si chiede: se scrivi e non pubblichi, che senso ha? Di fronte a questa obiezione ammutolisco, non so rispondere.
Come è noto, lo Stringa, non il suo doppio, ha scritto molto, ovvero, ha pubblicato numerosi saggi e libri, ha curato cataloghi, ed altri scritti ancora pubblicherà, essendo storico dell’arte veggente e ottimamente installato nei domini dell’arte moderna e contemporanea. Ma allora di cosa scrive o non scrive e in che modo scrive il doppio che si dichiara un semplice scrivente (“scrivo da tanto tempo”) cui poco importa pubblicare? Ciò nonostante il doppio scrive, anzi, si lascia portar via da una sorta di ossessione naturalmente bugiarda, cioè lo scrivere, e da lui spiegata perfettamente, anche perché, altrimenti, non sarebbe la sua ossessione bugiarda. Solo che avvicinarsi ad un doppio non è facile, né semplice. Più conveniente lasciarlo parlare, e se il caso lo consente, meglio leggerne parole, frasi, pensieri:
Mi guardo nel pensiero e quindi, prima ancora di iniziare a prender penna, mi osservo (tra) scrivere quei pensieri che conosco prima ancora di aver voglia di fissare sulla carta.
Nell’evitare di sporgersi sull’abisso del senso e non senso dello scrivere, preferibile, eccome, citare che cosa accade dopo la “voglia di fissare sulla carta”:
Ogni tanto provo però a mettere in atto il processo inverso, mi piace scrivere quello che non ho ancora pensato. Così mi trovo ad aver scritto pagine e pagine che sembrano pensate da un altro; eppure le ho scritte io, non le ho copiate come qualcuno potrebbe ipotizzare (a dire il vero, questo è un dubbio che viene anche a me, talvolta). Di solito si pensa senza scrivere, prov(av)o invece a scrivere senza pensare, per liberarmi da quella consecutio che a volte diventa insopportabile… Se scrivere vuol dire scriversi, cioè essere scritto (venire scritto) e quindi essere stato scritto, allora ci sto.

Del doppio scrivente ignoriamo come d’obbligo l’età, sia quando dice di essere un novantenne oppure quando, quasi per vezzo, si presenta col dire “sono vecchio ma non così vecchio come pensate voi e comunque anche se lo fossi mi piace ancora scrivere e descrivere” e, tuttavia, il gioco si complica ancor di più se il doppio sembra conoscere benissimo la Venezia degli anni Quaranta del secolo scorso e i librai antiquari di quell’epoca e assieme a loro alcuni misteriosi garbugli letterari attorno ai documenti Aspern evocati dai “fantasmi di Henry James”, in transito assieme all’immaginario ladro del carteggio e allo stregamento di una Mary Curtiz romanzesca proprietaria di Palazzo Barbaro (Curtiz, la zeta al posto della s degli autentici Curtis del fatale Palazzo), con “un’ultima domanda: che fine hanno fatto le lettere di Jeffrey Aspern ?”. La domanda è a chiusura di un p.s. dovuto a n.s. (Nico Stringa?), che per un istante si sostituisce al suo doppio, in questo modo ribadendo la sua ossessione bugiarda, lo scrivere, che per il doppio scrivente significa
mi piace scrivere quello che non ho ancora pensato… così mi trovo ad aver scritto pagine e pagine che sembrano pensate da un altro; eppure le ho scritte io, non le ho copiate come qualcuno potrebbe ipotizzare…di solito si pensa senza scrivere, prov(av)o invece a scrivere senza pensare.
Esattamente sette le pagine di “Un tè a Palazzo Barbaro” scritte senza pensare o con pagine che sembrano pensate da un altro? Come che sia, questa sezione o capitoletto ha una sua speciale leggerezza (qualità che ritrovi in ogni altra pagina di Scrivere), e che Italo Calvino avrebbe lodato con l’attribuirla alla felice libertà provata dal doppio scrivente: “basta mettergli in mano un testo scritto qualsiasi e lui si mette a giocarci finché non salta fuori un racconto”. E il doppio ha giocato alla calviniana in appena sette pagine, con un testo universalmente “qualsiasi” scritto dal “qualunque” scrittore Henry James, un testo assunto tra i maggiori capolavori letterari da più di un secolo in qua e che, alternativamente, viene ritenuto o un romanzo breve o un racconto lungo, per intendersi: Il carteggio Aspern. Chi ritiene di vivere tra i suoi ottanta compiuti e i cento anni ricorda di aver provato a più riprese, ben oltre mezzo secolo fa, una certa ebbrezza da pensieri ambiziosi, cioè confusi, dovuta a suggestive fascinazioni percepite sulle pagine di scrittori e scrittrici allora protagonisti di quel che si chiamò il nouveau roman o fors’anche, equivocando, “la scuola dello sguardo”, alla francese École du regard. D’altra parte, in Scrivere c’è una pagina che inizia con “tra poche settimane avrò raggiunto i cento anni di vita”; di qui, in attesa di ritrovarci con il doppio, potrebbe essere d’aiuto leggere alcune frasi di una lezione di Michel Butor, che, stando alle facilitazioni on line, come scrittore fu “associato d’ufficio” al nouveau roman.
Dunque, Butor:
In un passo di “Jean Santeuil” dove parla di Monet, Proust ci dice che è meraviglioso dipingere quello che vediamo, ma che è più interessante ancora dipingere quello che non vediamo, ma anche dipingere ciò che credevamo di vedere , e che di fatto non vedevamo, dipingere, ‘che non vediamo ciò che vediamo’. È proprio questa necessità della descrizione che è all’origine di quello che è stato chiamato il nouveau roman. La prima “invenzione”, che sconcertò i critici nelle opere di parecchi scrittori composte fra il 1950 e il 1960, fu la presenza di lunghe descrizioni di oggetti quotidiani: la maniglia di una porta, uno spago, una scarpa. Ma queste cose non le conosciamo forse tutte? Esclamavano. Perché farlo? E invece dovevano essere oggetti abbastanza conosciuti e abbastanza accessibili perché la dimostrazione potesse riuscire… Per questo abbiamo cercato di risanare il linguaggio… Per questo abbiamo ancorato il linguaggio a ciò che si poteva vedere, toccare, verificare. Per questo era tanto importante parlare di tavoli e di sedie. Se avessimo iniziato dalla parola ‘libertà’, saremmo finiti in malintesi sempre più gravi, mentre prendendo avvio dai tavoli potevamo sperare di farci capire, e una volta fissata la parola ‘tavolo’, potevamo immaginare situazioni dove la parola libertà avrebbe avuto un senso chiaro.

Due i punti nell’autoriflessione dello scrittore Butor suscettibili di avvicinamento alla lingua dello scrivente Nico Stringa e/o del suo doppio, e quindi da tener presenti affinché sia recepibile l’intelligenza feconda dell’antilingua coltivata dal doppio e/o dal suo Nico Stringa. Questi, scegliete voi chi dei due, probabilmente è un altro Palomar che “non si perde d’animo” nel tener conto dell’ossessione naturalmente bugiarda di Italo Calvino, ma dentro cui si rifiuta ogni inesistente antilingua . Avanti che sia Butor, ripensare Calvino è per davvero corretto, se non altro sapendo che, non casualmente, potrebbe aver conosciuto chi, secondo Scrivere, sta per raggiungere i 100 anni di vita: “ Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua. Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei ‘il terrore semantico’, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se ‘fiasco’ ‘stufa’ ‘carbone’ fossero parole oscene, come se ‘andare’ ‘trovare’ ‘sapere’ indicassero azioni turpi”. Così Calvino a metà degli anni sessanta del secolo scorso che, come tutti i secoli non finiscono mai se giungono a proposito. Ed ecco il Calvino appollaiato sul primo punto butoriano: “ per questo abbiamo cercato di risanare il linguaggio…per questo abbiamo ancorato il linguaggio a ciò che si poteva vedere”, per cui le “lunghe descrizioni di oggetti quotidiani: la maniglia di una porta , uno spago, una scarpa”. Il secondo punto butoriano cade ancor meglio, in attesa di ritrovarci con il doppio: “ se avessimo iniziato dalla parola ‘libertà’, saremmo finiti in malintesi sempre più gravi, mentre prendendo avvio dai tavoli potevamo sperare di farci capire, e una volta fissata la parola ‘tavolo’, potevamo immaginare situazioni dove la parola ‘libertà’ avrebbe avuto un senso chiaro”. Se si tengono presenti, anche se si è liberi di non farlo, Butor e Calvino, non resta che leggere a pagina 71 il doppio che rumina per la sua strada mentre assolve al proprio compito:
Posso partire da una parola, una qualsiasi. Per un inizio, ognuna di esse è equivalente. Non mi riferisco a neologismi, intendo parole usate, già fatte dal tempo, consumate eppure ancora utili, parole eterne come casa, pane, acqua, sole. Consunte ma intatte. È il mio compito e cerco di assolverlo. Restituire valore a parole-cose o a cose-parole, restituire validità ad un antico patto, ad una alleanza primeva. Molto tempo è passato dalla Grande Disgiunzione, tempo immemorabile; a quella crisi non c’è più stato rimedio, nessuno è più riuscito a ricomporre lo strappo… Da allora, le cose sono solo cose, le parole solo parole.

E ad una sorta di incubo di parole è sottoposto il “vecchio ma non così vecchio” del capitoletto “Era bella?” in cui il doppio scrive: “Non ho mai visto com’era quella giovane che si è trasferita diciamo così sopra di me. Ma l’ho conosciuta eccome anche senza vederla …”. Non vede chi è convinto di conoscere , ma di “queste fantasie questi fantasmi” su di una donna che gli cammina sulla testa e di cui, pur non sapendo nulla di lei, il doppio s’immagina la vita, ne ricama la storia, immaginandosi ciò che gli va di immaginare, fino al giorno in cui non sente più i suoi tacchi e la sua ticchettante macchina da scrivere, di nuovo solo “in un silenzio totale”. E il doppio che fa? Sogna di riscrivere la storia:
Ero giovane e camminavo nel giardino di casa vecchia che chiamavamo campetto e mi fermavo a osservare i rami degli alberi da frutto che erano troppo pieni di foglie si alzò un vento terribile che proveniva dalla terra dall’erba allora tutte le foglie si alzarono in volo e cadendo presero forma di parole parole scritte su pezzetti di carta il vento cessò e i pezzetti di carta si poggiavano sul prato fu allora che si sentì una voce che mi intimava di mettere ordine di riscrivere quella storia andata in frantumi.
Come si può notare la scrittura è quella di un eccitato, chi scrive è vittima di un vento terribile di parole che lo turba, tanto più che le parole, nell’epoca della Grande Disgiunzione, sono solo parole disgiunte. Certo, ma questo non preoccupa affatto il doppio, risoluto com’è nel riscrivere la storia:
E poi non m’importa del vostro parere faccio quello che voglio in letteratura visto che nella vita ho sempre seguito le pressioni degli altri adesso faccio di testa mia ho voglia di fare così e lo farò.

È chiaro che il turbato scrivente( o scrittore?) non può che ricominciare nuovamente dalle parole se vuole “mettere ordine” nel ri-scrivere una storia appena “andata in frantumi”. O forse che lo scrivere può ottenersi senza dare ascolto alla “voce” che intima di riscrivere? In fondo, il ri-scrivere è dieci volte padre dello scrivere, che liberamente (c’è chi lo sa fare) si compone o ricompone cercando tra i frantumi, rovistando tra i frammenti. Qui quel senso profondo di scrivere in libertà quasi urlato col “non m’importa del vostro parere faccio quello che voglio in letteratura”, e che, pur sembrandoci un’ostinazione, ci riporta proprio a Butor, ma non solo, del quando con “la parola tavolo potevamo immaginare situazioni dove la parola libertà avrebbe avuto un senso chiaro”. Chi si trovò ad attendere gli anni Sessanta avendo vissuto i suoi primi vent’anni con tanti libri, giornali quotidiani, settimanali, mensili e fumetti a portata di maggior passione rispetto agli obbligati studi, avvertì nella sua più stordita astanza un soddisfatto piacere nel leggere alcuni romanzi ascrivibili tra quelli del nouveau roman. Soddisfatto piacere perché? Lo stordito e giovane lettore di scrittrici e lettori di quella scuola letteraria non capì allora il perché quelle pagine gli procurassero piacere, ma ormai vecchio, lo stesso ostinato lettore, ha finalmente raggiunto il meritato traguardo di essere riuscito in un altro secolo, il XXI, a comprendere la sua giovanile, inspiegabile passione semplicemente leggendo e rileggendo Scrivere di Nico Stringa e del suo doppio; e che, inaspettatamente (ma sì, proprio Stringa)nel giocare, per esempio con Henry James, si è preso la libertà di girare attorno al Carteggio Aspern quasi fosse, né più né meno, che un tavolo o una stufa o una scarpa. Se non si fosse capito quanto appena scritto, potrebbe darsi che, oimè, non si è capito nulla di nulla della insostituibile e migrante letteratura e delle sconfinate espressioni artistiche che hanno fatto del XX secolo un cosmocrate, con una tale forma di potere culturale in grado di “interpretare” miliardi di universi, di galassie, di misteri, di Hiroshima e Nagasaki, di esplosioni stellari nelle menti e tra i pianeti, prima che vi arrivassero i telescopi Hubble e James Webb. Se si è intrattenuto a modo suo con Henry James, il doppio, nel capitoletto “la morte è inutile”, si sostituisce con discrezione, due fogli e mezzo, a Marcel Proust, che non chiama per nome ma di cui si fa coinvolto simulatore:
Tra poche settimane avrò raggiunto i cento anni di vita… Da tanto non mi muovevo di casa, ma qualche tempo fa ho raccolto tutte le mie forze e sono… uscito. Ho approfittato dell’assenza di mia madre (lei è molto più giovane di me) e sono andato piano piano a camminare. Di sera, s’intende, e poi all’inizio della notte.
Il centenario però non riesce a ricongiungersi alla città, che infatti è diventata altra:
Faticavo a riconoscere perfino le vie principali. Figuratevi le viuzze, i vicoli, le strade piccole che c’erano attorno alla piazza: tutto sparito, demolito, sconvolto, irriconoscibile. Mi sono avventurato negli anfratti della parte vecchia, piano piano, alla ricerca del tempo perduto( capisco bene perché il grande scrittore francese si sia rinchiuso in una stanza…).Sono tornato all’alba, sfinito, ma non deluso.
Il doppio o il simulatore di Proust, che è il soggetto non soggetto di cui si narra, non è deluso perché
ogni pietra superstite mi ha suggerito qualcosa, una parola, una frase.
Di qui nasce Scrivere, che non è il libro dei ricordi di Stringa o del suo doppio, ma un libro di ricordi oggettivi:
I ricordi rappresi nelle pietre della mia città, in ciò che resta di lei, nei ferri battuti delle ringhiere, delle vecchie insegne, nei colori superstiti, nei visi notturni, nelle parole- invecchiate anch’esse, ma salve.
In tal modo diventano innumerevoli i ricordi e quindi le sensazioni, i pensieri, le macerie di chissà quali esistenze, le meraviglie sentite e scritte “nei colori superstiti”, nelle pietre, nelle parole, e lo scrivere si appropria di nomi, di racconti annotati da chi ? Dal doppio, dagli sguardi di sconosciuti, dagli assenti non del tutto perduti? O da personaggi come “Rabesco” che cammina all’indietro anche se ormai “manca da tanto tempo”? O dal calzolaio di nome Estroso, che vorrebbe scrivere un saggio sulla filosofia della scarpa, perché “è solo dalle scarpe che possiamo notare certi particolari suggestivi”? E la pericolosa ossessione dello scrivere, attutita da pagine di sapiente ironia, come la motiva il doppio e/o Stringa? Così: “Nel buio del preterito cerco e sempre cercherò l’inaspettato, che sia residuo o che sia anticipo bloccato da qualcuno o da qualcosa; quindi non al tempo guardo, ma piuttosto al contrattempo”. Ogni pagina di Scrivere è attraversata dall’inaspettato, che è spirito folletto del contrattempo. A conclusione, uno straordinario inaspettato ci viene, e non è un caso, da Marcel Proust e dal suo Jean Santeuil, un romanzo fallito secondo alcuni critici dalla scarsissima capacità critica, secondo altri deposito prezioso di materiale letterario che Proust saprà usare come sanno fare solo i più grandi scrittori.

Marcel da giovane si tormentava chiedendosi “ma io, sono un scrittore?”, tanto più che dopo aver portato a termine quel “romanzo fallito” decide di non pubblicarlo e lo decide con queste parole che già dicono moltissimo sullo scrivere in generale e sullo scrivere di Proust ancor di più:
Mi è lecito chiamare romanzo questo libro? È forse qualcosa di meno e molto di più: l’essenza medesima della mia vita distillata, senza nulla aggiungervi , quale cola dalle fessure delle ore. Questo libro non è mai stato composto; è stato raccolto.
In un bel saggio sulla difficoltà proustiana in questione, Marco Fontana ha scritto che lo scrittore, inappagato, “lasciò a uno stato frammentario centinaia di pagine ricche di episodi e personaggi che, fortunatamente, non caddero nel vuoto. Infatti, dopo un lungo lavoro di perfezionamento formale, molti elementi vennero riesumati e trasposti nella Recherche. E Gianfranco Contini, tra i maggiori critici letterari del secolo scorso, scrisse una volta per sempre : “Jean Santeuil ossia l’infanzia della Recherche, volendo sottolineare “la fecondità di questo materiale per i romanzi futuri”.
E se Proust “raccoglie” dall’infanzia del suo scrivere e riscrivere l’inaspettato, che pur c’è in Jean Santeuil, così da colarne l’essenza nella Recherche, impossibile non approvare allora la felicità avvertita da Nico Stringa e dal suo doppio nel “ricominciare nuovamente dalle parole se vuole mettere ordine nel ri-scrivere una storia appena andata in frantumi… In fondo il ri-scrivere è dieci volte padre dello scrivere, che liberamente eccetera, eccetera , come si è scritto più sopra. O c’è chi non ha mai sentito dire del “piacere di scrivere”? Secondo alcuni l’altra faccia della stessa medaglia, quando ti accorgi del piacere di leggere le novanta pagine di Scrivere. Avremmo voluto dire di più su Claude Simon o su Nathalie Sarraute, ma dovrebbe bastare a sufficienza Marguerite Duras (1914-1996) e questo perché l’invidiabile scrittrice, di casa nel nouveau roman, ebbe a pubblicare Scrivere, appunto. E scrivere che cos’è? Duras, in un foglio del suo capolavoro:
Quel giorno. Quel giorno esatto dell’appuntamento con la mia amica Michelle Porte, quel giorno senza tempo, vista soltanto da me, era morta una mosca. Nel momento in cui la guardavo, a un tratto, erano circa le tre e venti del pomeriggio, il rumore delle elitre è cessato. La mosca era morta. Quella regina, nera e azzurra. Proprio quella, quella che avevo visto io , era morta.
Si capisce che cosa dovesse essere scrivere per la Duras della morte della mosca ? Felicemente c’è chi l’ha capito, e chiunque può farlo, nouveau roman a parte, leggendo lo Scrivere di Nico Stringa.


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1 commento
Bene. In questo momento, cioè in attesa che il giorno 4 Ottobre prossimo possa uscire dallo studio del medico oculista (in modalità PRIVATA) che visiterà i miei poveri occhi; non ho potuto far altro che scorrere a spizzichi e mozzichi col mouse sullo scritto di Franco Miracco che scrive su SCRIVERE di Nico Stringa. Poi ho inviato un breve sms a Santa Lucia per chiedere alla protettrice di ciechi, monocoli diplopici, miopi e presbiopici, ipermetropici di farmi provvisoriamente un piccolo Miracco-lo per poter leggere sullo schermo del computer tutto il testo di Miracco. La Santa mi ha risposto con un sms in cui leggo: “Al momento sono sospese tutte richieste di miracoli grandi, medi o piccoli del S.S.O.N. (Servizio Sanitario Oculistico Nazionale) e di rivolgersi a Santi che operano nel settore Privato. Attendo il giorno 4 e spero nel miracolo di poter leggere il tuo SCRIVERE in modalità integrale e sfogliando pagine di carta.