Nel 1973 ero di sinistra e non ero socialista, se con questo termine ci si riferisce al relativo partito. La mia configurazione politica non era molto più definita di così. Cosicché quando si svolse a Venezia, dove lavoravo, la grande Festa (chiamato Festival) nazionale dell’Unità non la vissi tanto come significativo, anzi molto significativo evento politico, ma come una trasformazione o una rivelazione di Venezia città.
Il clima di quel periodo risentiva del vicino ’68, una ventata di cambiamento. In fabbrica a Porto Marghera, al Petrolchimico, si scioperava un giorno sì e uno no, finché non si giunse (motivata da gravi problemi di sicurezza) alla “serrata” della fabbrica. Dal movimento operaio era sorto Potere operaio. Nell’ottobre ‘69 esplose l’autunno caldo, che al Petrolchimico assunse i caratteri di una lotta rivoluzionaria per il controllo delle fabbriche. Nel dicembre dello stesso anno, la strage di piazza Fontana e altre bombe esplose e inesplose.
Venezia allora era un laboratorio politico. Poco dopo il Festival dell’Unità, nel 1974 si concluderà il primo mini-compromesso storico, ossia un voto congiunto delle forze del centro sinistra e del PCI per attuare i piani particolareggiati, un atto fondamentale per dare concretezza alla legge speciale per Venezia approvata l’anno prima. Un voto che suscita molto scalpore, guadagnando le prime pagine dei giornali nazionali, ma anche ampia attenzione di alcune testate come Le Monde (V. Giuseppe Saccà su questa rivista, ytali). Quel voto sarà poi svalutato come “meramente amministrativo” dal suo protagonista, il sindaco Giorgio Longo, democristiano.
Ma nel 1975, elezioni amministrative, il Pci raggiunge il 34 per cento. Al centro sinistra si sostituisce l’alleanza delle sinistre e si instaura il governo Rigo (socialista) – Pellicani (comunista).
Anche la Festa nazionale dell’Unità a Venezia è stata un atto politico. Una sfida politica, tesa a dimostrare che i Sestieri di Venezia possedevano una propria cultura e potevano ancora esprimerla, se messi nelle condizioni opportune; che i suoi strati popolari potevano appropriarsi della cultura borghese se questa veniva “esportata” nei modi adeguati; che il Pci poteva vincere anche a Venezia e allora forse in tutto il Veneto, tradizionalmente ostile. Enrico Berlinguer aveva capito – raccontano i compagni – che se non si vinceva nel Veneto non si sarebbe mai vinto in Italia. Valeva la pena sacrificare gli incassi della Festa dell’Unità (destinati a sostenere la stampa comunista), che si preannunciavano assai magri rispetto alle spese, per un’operazione politica che avrebbe dato i suoi frutti. Creando nuove ragioni di fiducia nel partito comunista e nei suoi ideali.


La fondamentale intuizione fu realizzare una Festa “dispersa”, distribuita nei vari campi della città, quelli che molti non veneziani che pur frequentano Venezia non hanno mai visto. Con il duplice effetto: la meraviglia, l’incanto di ritrovarsi all’improvviso all’Angelo Raffaele, con i suoi due campanili, e il coinvolgimento creato dalla vita che si svolgeva nei vari campi della città. Una scelta in parte voluta, in parte determinata dall’esigenza del sindaco Longo di allontanare quella manifestazione dai campi più importanti della città. Ma che si è rivelata particolarmente felice. Venezia non è piazza San Marco o il campo del Ghetto, ma neppure Santa Margherita. È molto di più, di più vario e diversificato.
Non meno rilevante, la scelta di nutrire la Festa di cultura, niente banalità. Niente di meno di Bertolt Brecht recitato dal Berliner Ensemble. Folklore sì, ma rumeno. In vendita, le cartelle dei maggiori pittori veneziani.
Quella Venezia piena di vita – di una vita in festa – ha determinato per un breve periodo un modo di vedere la città (e di viverla) del tutto nuovo. Luoghi monumentali che divenivano luoghi di accoglienza, di sosta, di ristoro. Un rapporto di amicizia con le pietre, una conoscenza più minuta della città.




Gli strumenti sono stati usati con intelligenza. Gli allestimenti, gli stands, non erano improvvisati ma calibrati in modo da non violare il particolare paesaggio urbano (non mancava chi era in grado di dare i consigli adatti); i diversi campi della città sono stati messi in contatto con altre realtà ricche di esperienza, italiane e straniere, attraverso i gemellaggi; il teatro è stato ampiamente usato, dai burattini per i piccoli al Berliner Ensemble per i grandi, ascoltato religiosamente come parlassero in dialetto veneziano. Un’esperienza particolarmente importante per Venezia, già allora avviata ad essere un museo all’aperto, ma che è istruttiva per molti altri centri storici italiani.


Che si sia trattato di un evento straordinario, che ha lasciato ricordi ed emozioni insostituibili, è dimostrato da questo filmato che lo rievoca, con le poche immagini di allora ma soprattutto con le parole di chi allora era attivo in quell’ambiente politico. Ed è confortante che quell’esperienza non resti soltanto negli animi di chi a quelle giornate ha partecipato, di chi è stato presente, ma abbia un più diffuso riconoscimento perché se ne possono trarre vari insegnamenti.
La passione politica di allora, le energie che erano in campo, la dedizione (il lavoro di preparazione è durato almeno un anno), non possono essere resuscitati. Molte cose sono cambiate. Ma credo che in ciascuno di noi, che quella Festa l’abbia vissuta o soltanto conosciuta ora con i pochi strumenti di allora, sorga la voglia, la speranza di essere ancora capaci di avere dei temi appassionanti e di saperli trattare, esprimere, comunicare con modalità simili, usando un’intera città, facendola diventare accogliente e partecipe. Lo so, pochi temi sono così coinvolgenti come la politica. Ma siamo certi che ora non ve ne siano altri, non immediatamente politici eppur capaci di mobilitare soprattutto le persone più giovani, ma anche gli anziani che hanno ora modo di riflettere?




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