Premetto che non nutro alcuna simpatia per il primo ministro indiano Narendra Modi. Al contario, ritengo che il suo partito, il Bharatiya Janata Party (BJP) e la sua organizzazione madre, l’integralista hindu Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), rappresentino la parte peggiore dell’hinduismo. Il BJP, la RSS e le loro organizzazioni fiancheggiatrici si sono resi responsabili di innumerevoli violenze verso le minoranze religiose e di veri e propri atti di terrorismo, a partire dall’assassinio nel 1948 del mahatma Gandhi.
Detto questo, penso che il summit dei capi di stato e di governo del G20 (del quale fanno parte Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Corea del Sud, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Turchia, Regno Unito, Stati Uniti ed Unione Europea) organizzato dall’India, presidente di turno del potente ragggruppamento, abbia rappresentato un grosso successo.
Lasciamo da parte anche il fatto che il summit sia stato l’occasione per una massiccia promozione di se stesso da parte di Modi: la faccia sorridente del primo ministro appare in manifesti e cartelloni di tutte le dimensioni sparsi per la capitale dell’India, le tv e i “social” sono pieni delle immagini dei suoi incontri con i leader di altri paesi, a partire da quello col presidente americano Joe Biden.
Questo non toglie che il vertice ha fatto fare un ulteriore passo in avanti all’immagine dell’India a livello internazionale. L’India ha tutte le carte in regola per farlo e si presenta come un nuovo attore sullo scacchiere internazionale le cui armi sono la moderazione e il rispetto per tutti gli interlocutori.

Del G20 fanno parte sia paesi del “nord” che del “sud” del pianeta e New Delhi riesce a dialogare con tutti.
Bisogna anche sottolineare che non si tratta di un’esclusiva di Modi e del BJP. Al contrario, si tratta di un modo di gestire la politica estera che appartiene a tutto il mondo politico indiano, a partire dai primi anni dell’indipendenza, quando il primo ministro ed eroe della lotta anticolonialista Jawaharlal Nehru fu uno dei fondatori del Movimento dei non allineati. Non per niente l’ultimo capo del governo espresso dal Partito del Congresso, l’oggi novantenne Mammohan Singh, ha recentemente espresso il proprio apprezzamento per la politica estera di Modi. Il “Congress” è il partito della famiglia Nehru-Gandhi e l’unico rivale del BJP a livello nazionale.
Paragoniamo questo modo di agire a quello della vicina e rivale Cina del presidente Xi Jinping, che si presenta al resto del mondo come l’alternativa al potere degli USA e detentrice di un modello di società e di organizzazione politica alternativo e superiore a quello del “corrotto” occidente.
Xi ha nelle scorse settimane provato senza successo a porsi come leader dei cosidetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), iniziativa fallita proprio per l’opposizione dell’India (e per la vicinanza di fatto agli USA di paesi come il Brasile e il Sudafrica). Il leader cinese ha sdegnosamente rifiutato di partecipare al summit di New Delhi, inviando invece il suo “numero due”, il primo ministro Li Qiang. Questa decisione ne ha fatto l’unico assente oltre al “paria” Vladimir Putin, tenuto ai margini della comunità internazionale a causa dell’aggressione all’Ucraina.

La salita al potere di Xi, nel 2012, è stata il momento culminante di un processo iniziato qualche anno prima, vale a dire il passaggio del testimone dalla terza generazione di leader del Partito comunista cinese (Pcc), quella guidata da Jiang Zemin, a quella successiva. A causa della struttura monolitica e autoritaria del Pcc, che ha guidato la prepotente crescita economica del paese dopo lo shock del 1989 con il massacro di piazza Tiananmen, a emergere sono stati i cosiddetti “principini”, vale a dire i figli e generi dei dirigenti più anziani. Lo stesso Xi, figlio dell’importante dirigente Xi Zhongxun, è un “principino”, così come quello che è stato un suo accanito rivale, Bo Xilai, che è figlio di un altro “grande” del passato, Bo Yibo. Da qualche anno, Bo Xilai sta scontando un ergastolo dopo una romanzesca storia di sesso e di sangue della quale è stato protagonista con la moglie, Gu Kailai.

Mentre si combattevano tra di loro in una spietata lotta per il potere, i “principini” sono stati uniti nel rilanciare l’ideologia del comunismo maoista, l’unica che poteva giustificare la loro occupazione del governo, dell’esercito, dell’economia. I figli dei dirigenti che erano stati vicini ai “grandi” Mao Zedong e Deng Xiaoping sono stati uniti anche nel commettere un grave errore, quello di aver interpretato la crisi finanziaria che ha scosso nel 2008 gli USA come la “crisi finale” del capitalismo prevista da Karl Marx. Questo li ha portati a presentarsi al mondo come l’alternativa allo strapotere americano: siamo ricchi, siamo potenti, abbiamo un modello di organizzazione della società e della crescita economica che funziona, è il nostro momento.
Le cose non sono andate così. La Cina ha meno amici di qualche anno fa e la separazione dalle economie occidentali le è costata cara. La feroce politica di contenimento della pandemia di Covid ha fatto il resto e oggi l’economia cinese cresce più lentamente di quella indiana.
Sembra che col suo passo lento e sicuro l’elefante indiano abbia superato la tigre cinese, che si è rinchiusa da sola in una gabbia dalla quale continua a ringhiare ai fantasmi.

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