Marocco

BARBARA MARENGO
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Sale a 2.681 il bilancio delle vittime del devastante sisma di magnitudo 6.8 che ha colpito il Marocco centrale all’alba del 9 settembre. Una vasta area devastata. Colpita in parte Marrakesh e soprattutto la dorsale della montagna che sovrasta la pianura e che raggiunge oltre duemila metri di altitudine prima di discendere verso sud, verso il grande Sahara. La montagna dell’Atlante è costellata da centinaia di villaggi rurali abbarbicati alle rocce, dove una popolazione poverissima vive isolata tra case di fango e legno, lontani dai fasti e dalla mondanità della pur fascinosa Marrakesh, distando da quest’ultima anche poche decine di chilometri. Villaggi di emigrazione, dove si arriva a dorso di mulo o attraverso impervie piste tra le rocce rosse. Oggi come ieri il sisma ha colpito sopratfutto lo strato più debole della popolazione del Paese, ricordando che nel 1960 la città di Agadir sulla costa atlantica fu distrutta da un terremoto che causò circa quindicimila vittime e per decisione del governo locale fu ricostruita dislocandolo più a sud con misure antisismiche innovative.
Molti villaggi di montagna, da sempre emarginati rispetto alla scintillante Marrakesh, oggi 11 settembre non sono stati ancora raggiunti da aiuti interni o internazionali che il Marocco stenta ad accettare.
Alcuni di quei villaggi, con paesaggi primordiali e meravigliosi tra colori indescrivibili e luce pulita e accecante, li ho visitati alcuni anni fa, quando ho abitato per quattro anni quel Paese ricchissimo di tradizioni e suggestioni, fiero della sua autonomia millenaria che neppure l’Impero Bizantino o l’Impero  ottomano sono riusciti a scalfire nei millenni.

RICORDI MAROCCHINI

Una lanterna sulla soglia della casa era l’unica luce, a parte quella delle stelle: l’antica pista della Parigi Dakar abbandonata restava a testimoniare uno sfregio che per anni aveva caratterizzato la catena montuosa dell’Atlante e oppresso i poveri villaggi che oggi sono distrutti dal terremoto. Villaggi al tempo della folle corsa tra montagne e deserto che si riempivano di polvere e rifiuti, rumore e luci, camper e giornalisti, luoghi inaccessibili resi accessibili per poche incongrue ore. Percorrendo la strada sterrata nella notte marocchina, alla luce dei fari le pietre, le montagne, i contorni dei rari alberi sembravano colorati di un blu intenso, che sfumava nel nero della sera. I villaggi rurali, dove il poco bestiame sotto il sole cocente riusciva a brucare qualche ciuffo di erba secca, non avevano energia elettrica, e il fango rappreso dopo le piogge creava gradini e barriere, ostruiva i sentieri e bloccava le soglie delle povere case. E di fango e legno erano costruite queste basse casupole, quasi senza finestre, lungo la pista ed a volte affacciate su uno spiazzo polveroso, dove al calare della sera un cantastorie si accucciava accanto all’albero contorto ed iniziava a raccontare le antiche leggende dei jiin, i folletti arcani. I bambini rapati a zero sciabattando le pantofole di plastica arrivavano a frotte, chi sfoggiava una maglietta di una squadra di calcio europea era fiero di avere zii, cugini, parenti lassù al nord, che rifornivano la famiglia di poco denaro e qualche oggetto, o viveri se potevano, nel viaggio annuale al Paese.


Le lanterne accese sulle soglie delle case erano l’unico segnale che indicava la pista: accanto alla luce, un uomo intabarrato e col capo coperto, immobile, godeva il fresco della sera ed osservava con sguardo indifferente il nostro fuoristrada. Nel silenzio assoluto avremmo voluto passare senza sollevare polvere o fare il minimo rumore,per questo andavamo al minimo, anche per cercare di guardare oltre quelle soglie, o forse non volevamo violare quelle povere intimità, così lontane dal concetto di modernità. 

I villaggi vivevano sospesi tra questa modernità che conoscevano attraverso racconti, immagini, oggetti che arrivavano con gli emigrati o attraverso la televisione, immagini distorte: fermandoci in un’oasi di montagna nella luce dorata del pomeriggio un gruppo di bambini si avvicinò e i miei figli tirano fuori dal bagagliaio un pallone, con il quale iniziarono sveltamente a giocare a calcio, con squadre organizzate in un battibaleno come se si conoscessero da sempre.


Arrivò il cantastorie con il turbante blu e un ragazzo alto e magro ci accompagnò fieramente nell’intrico ombreggiato e fresco dell’oasi, dove tre tipi di colture danno di che vivere alla gente: orto a contatto della terra, alberi da frutta ad altezza media e datteri svettanti in cima alle palme, piante delle quali si utilizza fino all’ultima fibra per ogni uso domestico o agricolo.

Il laghetto che ogni oasi che Dio manda in Terra possiede era in quel momento vuoto, non era il turno del bagno delle donne e dei bambini e nemmeno degli uomini. Era in corso la distribuzione dell’acqua con il sistema delle piccole barriere che vengono aperte ad orari ed in quantità tale da annaffiare i metri quadri di terreno che possiede ogni famiglia.  Tra le case basse ed i giardini svettava una costruzione a due piani, cinta da mura rosse, e sormontata da una antenna parabolica, detta diabolica. Un generatore permetteva al notabile del villaggio di guardare la televisione europea, prima di internet questi erano i mezzi a disposizione.

Attraversando  di giorno un villaggio dell’Atlante dove da poco una pioggia torrenziale aveva semidistrutto  strada e casupole, ci fermammo in un bar, dove il fango era stato spazzato alla bellemeglio e il bancone era stato ripulito per servire gazzose e bibite, caffè e the profumato. Chiedemmo da bere e tirammo fuori i nostri panini per i ragazzi e per noi, era tardo pomeriggio e la sosta serviva per una rapida merenda/cena. Ci accolsero come sempre col sorriso, ma la affollata stanza del bar era silenziosa, come in attesa, con gli occhi puntati sulla piccola televisione, che in molti villaggi funzionava con un gruppo elettrogeno ed una antenna parabolica innalzata accanto al minareto, alta e incongrua.

A un certo punto ci spaventammo  per un rumore improvviso dovuto allo spostamento delle sedie verso il fondo della stanza, e rimanemmo isolati col tavolo pieno di bibite frutta e panini. Era  iniziato un telefilm trasmesso dalla tv, un poliziesco americano vecchio di vent’anni, parlato in italiano, che si svolgeva in larghi viali bordati di palme, su scintillanti lunghe automobili dondolanti, tra bionde ragazze in bikini e prestanti poliziotti spacconi. Il villaggio era costruito sulla dorsale della montagna, solo a dorso di mulo e a bordo di fuoristrada ci si poteva arrivare. Non posso pensare a quel villaggio oggi, e alle decine di borghi di legno e fango irraggiungibili che costellano le montagne dell’Atlante, con Marrakesh a pochi chilometri, una Medina estesa e bellissima, dove le antiche mura possenti, oggi in parte crollate, racchiudono la piazza più fantasiosa del mondo, quella Jemaa El Fna, che in arabo vorrebbe dire moschea dei morti, o del nulla, o qualche cosa legato alle esecuzioni nell’antichità, una piazza pazza, arcana, dove dal giocoliere alla chiromante, dal domatore di scimmie al banco delle erbe mediche, dall’Incantatore di serpenti all’affabulatore, tutti hanno qualche cosa da dire: o da dare, cibo e spremute, ma anche bar e bardelli,  mercato e consigli, musica e tutto il resto. La parola “bello” riferita a Marrakesh non basta a descrivere il posto, oggi ferito nella sua essenza.

Rispetto ai luoghi dove ho avuto la fortuna di vivere resta sempre un sentimento di affetto misto a gratitudine per quello che tali luoghi mi hanno dato. Come per la Turchia colpita dal sisma, oggi il Marocco, (quel Maghreb che in arabo significa Ovest, Occidente, con questa parola genericamente si definisce la fascia costiera del Mediterraneo ad occidente del Nilo) balza  in prima pagina per la catastrofe che lo ha colpito, e chissà quando quei villaggi di montagna riceveranno soccorso.

Marocco ultima modifica: 2023-09-11T23:07:46+02:00 da BARBARA MARENGO
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