Jacopo Bassano che andò a Enego per dipingere il silenzio di Dio

FRANCO MIRACCO
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Recenti fatti di cronaca hanno acceso in molti il desiderio di andare a Enego, che se conosci qualcosa del cimbro invece di Enego diresti Ghenebe. Per saperne di più, meglio lasciar perdere una volta tanto le rosse guide Touring e rivolgersi piuttosto a un vecchio libro del 1810 intitolato Stato generale delle poste e dei viaggi d’Italia, e questo perché, pur non essendoci notizie su Enego, quel portatile volumetto dice quanto sufficiente per dar la spinta al nostro gusto di raggiungere finalmente Ghenebe. L’antico viaggiatore, durante il cambio di cavalli in una stazione di posta, giunto a pagina 202 avrebbe potuto leggere di Bassano “città situata all’ingresso di un’amena valle presso la Brenta che vi passa in mezzo”. Ma qualche riga più avanti ecco la notizia che avrebbe attratto a Bassano un insolito ma giusto antenato e di conseguenza, non meno di 210 anni dopo, il mio proseguire per Enego:

Nelle case e nelle chiese si vedono di buoni quadri, principalmente di Jacopo da Ponte detto il Bassano, e dei suoi figli, che hanno arricchita la loro patria con un gran numero di opere insigni.

Lasciata Bassano, è una di queste opere insigni l’oggetto del nostro desiderio e che ci porterà al più presto a Enego. Peccato che, ancor prima di quel puntuale e un po’ sorprendente sussurro (di certo all’altezza della civiltà europea del Grand Tour), “nelle case e nelle chiese si vedono di buoni quadri, principalmente di Jacopo da Ponte detto il Bassano”, ci sia una non dimenticata promessa da me non ancora mantenuta.

Molti anni fa, sarà stato nei pressi del 2005, ebbi l’emozione di parlare in più di un’occasione con Mario Rigoni Stern, il “compaesano” di Jacopo Bassano. E mentre lo ascoltavo nella sua verde casa di Asiago, il grande scrittore mi chiese se fossi mai stato a Enego, se non altro per vedere un quadro molto importante di Jacopo. Dissi che ci sarei andato di lì a pochi giorni, e ancora non l’ho fatto. Il pittore che tanto mi aveva impressionato da ragazzo, quadro dopo quadro, in Palazzo Ducale a Venezia per merito di Pietro Zampetti, che nel curare quella splendida mostra chissà quanta passione e tenacia vi avrà dedicato. Sì, perché nel secondo dopoguerra non pochi gli storici dell’arte che non andavano oltre giudizi del genere: “La sua maniera, alquanto incerta, deriva da maestri di second’ordine”. Un racconto di memoria che più rigonsterniano non si può è l’ispiratissima Lettera a Jacopo, e fin dalle prime righe è subito Bassano e con lui Rigoni Stern (1921-2008):

Caro Jacopo, ancora una volta sono sceso dalla montagna per rivedere i tuoi capolavori. Sono ritornato a guardarli con attenzione e la scorsa notte non ho dormito perché dentro avevo quelle tue pitture che mi davano da pensare. Cercavo ad occhi chiusi di selezionare le immagini che non erano di personaggi ma di uomini, donne, ragazzi, bambini, animali, alberi, casupole, montagne, cieli della nostra terra. Mi pareva, in quei pastori, contadini, artigiani, osti, di riconoscere volti ai quali poter dare un nome di stirpe famigliare.

Se si prova a rileggere, senza fretta dal caro Jacopo in giù, sembra di ascoltare una scrittura infinitamente ruscellante, che lo scrittore dell’Altipiano avrà respirato guardando e sentendo a lungo i torrenti, i fiumi di montagna che scendono sul balenìo di una trota, sul sasso più grande, su di un ramo traverso, sulla libellula nel colpo di luce che si alza dal fondo. Perché uno diventa scrittore? Ma cos’altro poteva diventare Mario Rigoni Stern?

Da tanto tempo, Jacopo, ti conosco, un tempo che non si può misurare, e ti sento fratello maggiore e grande. Avevo dodici anni quando, un giorno d’aprile, dopo che le strade si erano liberate dal ghiaccio, con Piero, un compagno di avventure che amava dipingere paesaggi come a me piaceva leggere Verne e fare pupazzetti con la creta, scendemmo a Bassano in bicicletta per vedere i tuoi quadri al museo.

Scendemmo scrive, allo stesso modo di un fiume verso il mare, che per i due, poco più che bambini, era il museo:

E tu eri là ad aspettarci come in primavera e in autunno aspettavi i ragazzi dei compaesani pastori durante le transumanze. Camminando sulla punta delle nostre scarpe chiodate e intimoriti dal rumore di queste, parlando sottovoce, guardammo le tue grandi opere e poi i bozzetti in creta del Canova.

Nella Lettera c’è molto, o meglio c’è tutto quel che ti occorre per conoscere Jacopo Bassano. Se poi lo scrittore ha dell’artista, vede e sa quanto gli basta per scrivere di un altro artista. Lo si capisce da brani come questo:

Tuo nonno, Jacomo de Galio, lo sapevi? abitava poco lontano da questa mia casa. Era sceso in pianura perché nel 1447 Sigismondo era venuto quassù con il suo esercito a portare rovina. L’arciduca pensava di scendere nella pianura vicentina dai Sette Comuni(…). All’ostilità della nostra gente aveva risposto con saccheggi e incendi. Anche la vostra casa in riva al Ghelpach subì oltraggio e un brutto giorno capitò una squadra di Lanz-Kenetten a rubare tutte le pelli conciate che erano stese al sole (…). Quando eri ragazzo tuo nonno ti avrà raccontato anche questa storia ma tu, nelle pitture, hai voluto solo ricordare le pelli al sole davanti alle casupole. Ti avrà anche detto come siete scesi in pianura… i pastori che scendevano verso i pascoli invernali avevano caricato sui loro asini anche le vostre masserizie e le borse con il tannino per la concia, ricavato dagli abeti dei nostri boschi. Anche questo viaggio tu hai ricordato nei tuoi dipinti.

Jacopo Bassano (Jacopo da Ponte, Bassano del Grappa 1510 circa – 1592), Santa Giustina in trono e i santi Sebastiano, Antonio Abate e Rocco, (1560 circa), Chiesa di Santa Giustina, Enego

A uno sguardo superficiale, quello del Bassano sembra un mondo abitato solo da pastori, da donne che allattano o che mungono capre e pecore, da cani e bambini: gente raccolta in uno slargo al limite di un bosco cui partecipano a volte, però non sempre, santi, profeti, adorazioni pastorali. Ma non c’è alcun dubbio, il “romanzo” di Jacopo va osservato con attenzione, va cercato nei dettagli, e nel farlo non vanno mai ignorati certi impasti fatti in punta di pennello quasi ai margini della tela. In ogni suo dipinto può esserci dell’altro da rimediare in profondità, soprattutto lì dove l’arte riesce a immaginarlo il più lontano possibile, e che il pittore ottiene col mescolare, muovendo appena la mano, un’impercettibile sensazione di segni e di colori per significare il prodigio verso cui nessuno volge il viso. Come accade nel Sacrificio di Noè con il divino patriarca scostato in lontananza, una figurina inginocchiata ai piedi di un altare, isolato nel ringraziare Dio per la fine del diluvio. Al contrario, in primo piano si differenziano bene uomini e animali già ritornati al mondo di ieri, con i gesti, i lavori, le stesse cose di sempre, di nuovo la vita con tutto quello che ha da essere, ci dice Jacopo, se vuoi che dopo la fine del mondo continui la storia. Tanto più che si vede, appartata sulla sinistra, una donna che controlla se i panni del suo corredo siano tutti al loro posto, dopo che il diluvio la costrinse ad abbandonarli nel prezioso cassone decorato e con sopra lo stemma del nobile committente del Sacrificio: esibizione di vanità che sembra accogliere nel profano il fortunato matrimonio della sposa discesa dall’Arca.

Jacopo Bassano, Cena in Emmaus (1537, Duomo di Cittadella)

Ma se diluvio è stato, c’è moltissimo da rifare, da ricostruire, che è quello che stanno facendo nel gruppo a destra, ormai al lavoro nella normalità di dover alzare una scala, usare una scure, una sega, portare delle tavole di legno per inchiodarle su, in alto, e farci il tetto se si ha da avere una casa. Jacopo Bassano non è mai indifferente a ciò che osserva e che dipinge, non lo è perché suo è il differire, che è gioco severo della mente nel rappresentare una “cosa che non appare in nulla preferibile ad altra”, qui la poetica profonda di Jacopo. Differisce con Noè e differisce con Mosè, quasi ignorato nel momento “che riceve le tavole della Legge”, adattato com’è in un angolo minuto tra il monte, le nuvole, il mistero di un bagliore. Chi guarda può non accorgersi di quel poco o niente di pittura, ma se ci arriva sopra non è detto che capisca, anche se da quel “punto” la Storia prese un senso incommensurabile; chi guarda quella tela, conosciuta più realisticamente come Autunno, assiste a una sorta di genesi che si sparge facendosi “mondo”, questa sì la sacralità in cui crede Jacopo. Un mondo con cui nessun altro è stato più consonante di Rigoni Stern.

Dalla Lettera a Jacopo:

Tu, intanto, crescevi e giocavi lungo la Brenta: osservavi i pesci nei canestri dei pescatori, le anatre sull’acqua, le transumanze dei nostri pastori che ogni primavera risalivano verso i pascoli alti e ogni autunno scendevano verso i pascoli invernali, sempre seguiti lungo la “strada della lana” dalle loro donne e dai bambini; con migliaia di pecore e agnelli, e i montoni robusti, e le capre per il latte, e i cani per la custodia, e gli asini per il trasporto a soma delle pentole di rame, le mastelle, e gli agnelli appena nati dentro le borse.

Il Bassano differisce perché vuole dipingere il Regno di Dio per quello che è, per quello che è il vissuto di ogni uomo, e se gli è stato chiesto di dipingere un’Estate dappertutto, lo fa, ma immaginando di nuovo un frammento pittato, che, per quanto in lontananza, è pur sempre la stagione di Dio se c’è da raccogliere legna secca per il Sacrificio di Isacco. Intanto, più in basso, contano ma allo stesso modo dell’Angelo mentre salva il figlio di Abramo, il vecchio che insegna a un bambino come si tosano le pecore di razza “foza” o i contadini che si fanno aiutare nel lavoro dei campi dalle vacche “burline”. Nomi di razze animali che avrei continuato a ignorare se non li avessi letti nella Lettera; al contrario, mi sarei sentito molto in colpa se non fossi stato già a conoscenza di quello che opportunamente ha evidenziato lo scrittore compaesano nel soffermarsi sul padre di Jacopo, che era voluto andare pittore:

Forse dentro di sé sentiva l’influsso dei movimenti riformatori tedeschi che a Vicenza, in quel tempo, erano stati fiorenti, e con i quali continuò ad avere rapporti anche a Bassano dove si erano rifugiati molti ribelli tirolesi che avevano aderito alla rivolta contadina del 1525. Con questi, sia tuo nonno che tuo padre riuscivano a comunicare nella nostra lingua e parlavano di Martinus Lutherus, il capo della rivolta religiosa e di Michael Gaismayr, il capo della rivolta contadina.

Parole attribuite, qualche scritto, qualche lettera, e invece niente, non è restato niente che ci aiuti a capire cosa pensasse Jacopo di quelle rivolte e dei loro capi. A parlare dei suoi pensieri sono rimaste le opere, il solo modo che ha un pittore di esprimersi, se ne vale la pena, e Jacopo dipingeva perché ne valesse davvero la pena. Il fatto è che gli piaceva leggere o ascoltare chi aveva letto più libri di lui e, comunque, c’era un libro, la Bibbia, che di tanto in tanto leggeva e rileggeva in solitudine, e gli piaceva passare da una pagina all’altra, da un libro all’altro, a caso. Lo faceva da quando aveva capito che così, a volte, gli venivano i pensieri da dipingere e di questo suo modo di lavorare ne parlava con pochi, più volentieri con qualche prete, meglio se questi poteva aiutarlo con il latino.

Jacopo Bassano, Autoritratto in tarda età, olio su tela, ViennaKunsthistorisches Museum

Era nato, sembra, nel 1510 per morire nel 1592, dunque dentro a un secolo dove la storia andava avanti e indietro di continuo, con la Terra che non era più quella che c’era al tempo dei suoi nonni e questo per via di capovolgimenti che facevano prillare mari e oceani mai raggiunti prima. Nei cieli ruotavano stelle di cui la Bibbia taceva i nomi, anche se di notte al di sotto di quel nero cosmico, dall’infinito spolverio luminoso, si diceva che dormissero, con lo stesso respiro della gente dell’Altipiano, uomini di razze diverse. In viaggi per scoprire ed esplorare, da tempo si avventuravano navi per caricare di tutto: mirabili oggetti, merci preziose, brancate di spezie mai così tante, droghe “sceltissime” e uomini di razze diverse catturati come se fossero bestie cui venivano strappate anche le pelli se nascondevano l’oro, perché quell’oro serviva ai re d’Europa o per far risplendere le chiese di Roma. Pace e misericordia non c’erano più tra le religioni al di là delle montagne, su a Nord, per via di un odio che aveva incendiato paesi, altari, quadri e spinto a carneficine senza pietà, mentre l’altra, la religione di sempre, quella in cui Jacopo era cresciuto, voleva dimenticare dubbi, pene, e che cessassero stragi d’innocenti, e che si spegnesse magari sui roghi ogni allarme, ogni infezione della mente, ma in che modo? Quand’era bambino un caos spaventoso e violentissimo di guerre e controguerre a causa della lega di Cambrai, con certe voci che giravano in casa dei Dal Ponte che Venezia era ormai finita; e poi invece, quand’era vecchio, impossibile dimenticare lo straordinario Trionfo con feste e cortei e carri e fuochi artificiali e il portare in strada i quadri di Giovanni Bellini, Giorgione, Raffaello, Pordenone , Sebastianello, Tiziano e del Bassanese che era lui, con il nome che gli avevano dato a Venezia. Il Bassanese assieme a tutti gli altri eccellentissimi pittori, con i loro quadri che adornavano la Ruga degli Orefici, mentre una folla immensa andava e veniva giù da Rialto lungo le Mercerie per accendersi con musiche e danze in piazza San Marco. “Tre giorni e tre notti continue” di allegrezze nell’autunno del 1571 per la vittoria contro il Turco a Lepanto, che così la raccontarono i signori veneziani, i loro scrittori, i loro pittori, i mercanti tedeschi e i reduci di guerre interminabili.

Ma gli anni che fecero di Jacopo un pittore certamente non “tedesco” e nemmeno troppo pendente su Venezia, furono quelli alla metà del XVI secolo e su cui si dilungò in un ampio saggio W. R. Rearick (1930-2004):

Idee ed ideali protestanti circolavano in tutto il Veneto da oltre un quarto di secolo quando Jacopo dal Ponte si ritirò dalla sua città e dalla sua impresa andando a lavorare per un periodo abbastanza lungo nel villaggio di Enego, sull’altipiano dei Sette Comuni. Bassano e i villaggi limitrofi, specialmente Rosà che si trova appena a sud, avevano visto divampare durante gli anni Trenta del Cinquecento il violento conflitto tra le autorità ecclesiastiche e quanti diffondevano i principi protestanti.

Jacopo Bassano, Autunno, 1576-77, Galleria Borghese (non esposta)

Il credito manierista di Jacopo da Ponte, detto il Bassanese, ritenuto tra i maggiori esponenti di quella corrente, valse allora più come un accettabile e conveniente espediente artistico (il manierismo) che come reale lettura critica di un fare arte inquietante su cui potevano arricchirsi i pensieri. Credito ed espediente dovuti alle sue trattenute stravaganze compositive e cromatiche, che lo assegnavano direttamente al michelangiolismo, al manierismo emiliano oppure nordico e fiammingo, e poi soprattutto perché in quelle opere dai toni “antiretorici, dimessi, famigliari” nessuno vi vedeva o sospettava qualcosa di più o di altro, e a Jacopo andava bene così. E chi se non il compaesano Rigoni Stern, scrittore sull’Altipiano dalla libertà illimitata, poteva capire quali fossero i perché e i percome spinsero Jacopo a salire lassù, a Enego?

Jacopo Bassano, Estate, Tosatura delle Pecore, Museo Puškin

Lo scrittore:

Era il 1555 o il 1556, in primavera. Dentro i boschi c’era ancora la neve e i pastori risalivano lungo i fiumi della pianura. Ti accompagnava il tuo figlioletto Francesco e, a piedi, siete risaliti per il Canale del Brenta fino alle Seghe dove per la ‘Scaletta’, con i suoi quasi seimila scalini lastricati di pietre, siete giunti in Enego. Lì vi aspettava il prete Stefano da Romano, e da quell’altezza Bassano e Venezia, gli anabattisti e i seguaci di Francesco Negri, e il vescovo Priuli che era impegnato con le norme del Concilio di Trento erano cose lontane, di un altro mondo, perché il paesaggio che si apriva 

intorno con le grandi montagne di rocce e di neve contro il cielo, le valli profonde, i boschi odorosi per il disgelo della terra e i lavori della gente sui prati e negli orti appena liberati dall’inverno, e gli agnelli e i capretti che saltavano tra l’erba novella, e le donne intente a filare il lino e la lana davanti agli usci erano per te cose nuove. Ti sentivi dentro una spinta tale che con grande impegno desti mano a dipingere a fresco le pareti della chiesa di Santa Giustina, da poco tempo portata a termine: sul colmo del tetto era ancora in bella vista l’abete tradizionale.

Jacopo Bassano, Primavera, 1576-77, Galleria Borghese [Una versione di questo dipinto si conserva presso l’Ermitage di San Pietroburgo]

Non c’è alcun dubbio, con gli occhi della sua immaginazione, cioè della sua arte, Rigoni Stern ha “visto” il vasto ciclo di affreschi spaziati da Jacopo ovunque ci fosse da dipingere in quella chiesa, e che stramaledetti incendi accompagnati da incurie imperdonabili seguiti da stravolgimenti di governi e mutamento di gusti estetici ci hanno sottratto per sempre, ma non al suo compaesano. Lui li ha “visti” e ne ha lasciato memoria scritta per tutti noi, a ricordo di quella insidiosa e per questo ancor più affascinante malìa dell’impresa di Jacopo a Enego, per la quale non sarà stato sufficiente solo il mestiere del pittore o la sua narrante “maniera” di dipingere, visto che “ti sentivi dentro una spinta tale” che avresti soddisfatto quando e come ti fosse riuscito di portare dentro la Chiesa “i lavori della gente sui prati e negli orti appena liberati dall’inverno, e gli agnelli e i capretti che saltavano tra l’erba novella, e le donne intente a filare il lino e la lana davanti agli usci”.

Jacopo salì fino a Enego perché ad aspettarlo c’era Stefano, il suo amico prete con cui condivideva ragionamenti, dubbi, domande sulle nuove verità e libertà, sulle terribili violenze che spesso toglievano quiete e pace tra la Roma dei Papi e le Germanie dai tetti aguzzi attorno alle cose del sacro, e che non sono passatempo per nessuno, figurarsi per l’arte. Tra di loro non avevano bisogno di parlare di Francesco Negri (1500 – 1563), un benedettino che scrisse e pubblicò con successo La tragedia del libero arbitrio e che si appassionò, a Venezia, agli scritti di Martin Lutero per andarsene, da spretato, in Germania, ma dei cui pensieri eretici e del suo accostarsi totalmente ai testi biblici restarono tracce feconde a Bassano dov’era nato. E c’è da credere che né il prete di Enego, né il pittore bassanese andarono a Vicenza per l’ingresso “solenne e sfarzoso” del vescovo Matteo Priuli il 23 settembre 1565, quando a Porta Padova “fu eretto un arco trionfale disegnato da Andrea Palladio e ornato di pitture e tutto il percorso che di lì portava in vescovado era ornato di statue e colonne”(online). Per quei due, in ritiro nell’altezza dei monti, tra i boschi, sui pascoli, in mezzo alle pecore di razza “foza”, alle vacche “burline”, nel fitto di faggi e abeti dove si accende il furore delle parate dei galli cedroni, l’esaltazione mondana del vescovo e “le norme del Concilio di Trento erano cose lontane, di un altro mondo”, tanto più se di quel vescovo si diceva che fosse “un famigerato ed energico estirpatore dei simpatizzanti di Lutero” (Rearick).

Jacopo Bassano, L’ingresso degli animali nell’arca di Noè, Kroměříž

Erano tempi quelli in cui delle cose della fede, della religione, riusciva quasi impossibile menar vanto: giungevano di continuo voci che massacri e mostruosità in nome di Dio annientavano la vita e le anime della gente nei paesi del Nord. Così per quegli affreschi nella Chiesa, Stefano e Jacopo parlarono a lungo tra di loro, allungati all’ombra dei faggi, lassù ai margini dei pascoli, anche per starsene lontani da tutti ma non dalle storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, perché per Jacopo la Bibbia è senza tempo e quindi le sue pagine valgono in ogni tempo, e in misura ancora maggiore lì a Enego, dove per il prete e per il pittore viveva il popolo di Dio. Come aveva capito il compaesano Rigoni Stern, che gli affreschi perduti di Jacopo con la sua verissima immaginazione aveva saputo vedere:

Ti era sufficiente il mondo che vedevi attorno, questa vita, questi uomini e questi paesaggi per raccontare la nascita, il lavoro, la morte. La Bibbia e il Vangelo diventano la vita di tutti i giorni…

E c’era una pagina del primo libro dei Re che spingeva Jacopo verso il mistero, su di un turbine strano di pensieri, forse dei “muti moniti” che nemmeno Elia nel deserto del suo abbandono avrebbe saputo spiegare:

L’Eterno gli disse ‘esci fuori e fermati sul monte, dinanzi l’Eterno’. Ed ecco passava l’Eterno. Un vento forte, impetuoso, schiantava i monti e spezzava le rocce dinanzi all’Eterno, ma l’Eterno non era nel vento. E, dopo il vento, un terremoto; ma l’Eterno non era nel terremoto. E, dopo il terremoto, un fuoco; ma l’Eterno non era nel fuoco. E, dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna; ed ecco che una voce giunse fino a lui, e disse ‘che fai qui, Elia?’.

Jacopo Bassano, Il buon samaritano, Hampton Court, The Royal Collection, Londra

Jacopo a Enego ci andò per ascoltare il silenzio di Dio, quel soffio uscito dalla caverna, e per rispondere al Signore che aveva chiesto all’Elia che c’è in ciascuno di noi, che fai qui? Ci andò a dipingere il silenzio di Dio, quello che c’è sul bordo del bosco dove Il buon samaritano assiste e cura la vittima aggredita e abbandonata per terra, tra un fico che non è secco e un cavallo che non abbassa la testa, mentre il Levita finge di leggere un libro per allontanarsi nel più crudele disinteresse di quanto è accaduto. Il silenzio di Dio è l’impassibilità dei carnefici nella Decollazione del Battista, o nella muta accoglienza dell’oste, ricco e controllato dopo aver portato in tavola uova, ciliegie e vino che così divengono, a sua insaputa, la pasqua di resurrezione nel disincanto di un miracolo, Cristo è di nuovo tra loro, anche per quei due discepoli in fuga e confusi nella Cena in Emmaus. E c’è l’estasi dell’infinito silenzio posto dalla divina alleanza in quel sapiente e fiducioso sovrapporsi di immagini a immagini di animali, donne, uomini, pentole e paioli in rame, bisacce e schiene di chi sembra inginocchiato e di chi invece no, ma tutti lungo l’erta che porta nella santa intimità dell’Arca di Noè. Ma c’è ancora un altro silenzio, quello di Jacopo che scrive in alto, sulla destra di un disegno per una Visitazione, una sorta di sfogo in latino: nihil mihi placet, non mi piace niente. È il silenzio dell’artista quando si chiede “ma che ci faccio qui?”. E chissà se non avrà avuto dubbi spietati da togliergli giudizi e parole, lasciandolo in silenzio, scontento per una Adorazione dei pastori con i soliti templi in rovina dietro al ricovero invaso da corpi e cappelli, su cui tuttavia si accalcano, fino addosso al figlio di Dio, con i loro piedi scalzi e gambe sbracate i pastori spinti fin là, ma da chi? Comunque si sarà pentito del suo scontento, perché anche in quelle tele, a saperle guardare, si capisce che Jacopo non è mai indifferente a ciò che osserva e che dipinge, non lo è perché suo è il differire, che è gioco severo della mente nel rappresentare una “cosa che non appare in nulla preferibile ad altra”. Giulio Carlo Argan parlò dell’acutezza del Bassanese per “il gusto dei minimi valori, che solo una mente alacre e una curiosità ben desta arrivano a cogliere”. E che sarebbe il differire di cui sopra, credo, perché secondo Argan quella di Jacopo è:

un’attenzione irrequieta, mobilissima, che non si concentra sul nucleo del fatto, ma trapassa da cosa a cosa, di ciascuna cogliendo la nota particolare, per distaccarsene e passare ad altro.

O forse manca di un mobilissimo differire il San Rocco che guarda in alto verso Santa Giustina in trono con la luce della gamba nuda del santo della peste che scala i cubi di una geometria senza sfarzo per sollevare chi è lì ma che non vuole pregare invano? E l’irrequieto fuoco acceso dal male ai piedi di Sant’Antonio Abate forse che non attende salute e vita nell’essere ripreso dal potente spigolo rosso, che dalle pagine del Libro si conforta dentro al raso purpureo che nel silenzio del volto della santa martire è segno e colore di salvezza? La salvezza dalla peste e dal terrificante Fuoco di Sant’Antonio, che colpiva atrocemente le carni e le menti dei più poveri tra i “peccatori”, quelli che si ammalavano perché costretti a mangiare l’infetto pane di segala. E sarebbe stato assurdo che non ci fosse stato San Sebastiano nella tela di Enego, che invece c’è nel suo accorrere come di corsa sul margine della tela, a sinistra, quasi un angelo giovane portato per soccorrere con santa impertinenza chiunque avesse avuto bisogno di lui tra il popolo di Dio sull’Altipiano. Che poi per Jacopo era la sua gente, a dirlo di nuovo Rigoni Stern:

Ormai era passata l’estate, quei mesi trascorsi lassù ti avevano portato serenità e il tuo grande affresco riusciva bene: venivano i paesani a guardarti lavorare sulle alte impalcature e con la testa in su facevano cenni di assenso. Qualcuno portava per te un agnello, altri un formaggio o una ricotta, le donne verdura fresca dei loro orti; per loro tu eri Jacomo del Cesco.

Pieter Bruegel il Vecchio, Caduta di Icaro, 1558 ca., Musées Royaux del Beaux-Arts, Bruxelles

Si è detto più volte dell’arte del differire, cioè di pittori che volevano dipingere cose che non apparissero in nulla preferibili ad altre. Tra questi Pieter Bruegel (1525-1569 circa), che in tanti suoi capolavori differì in modi così prossimi a quelli di Jacopo Bassano che i due, se si fossero conosciuti, sarebbero diventati diversamente molto amici tra loro. Per intendersi, c’è una poesia di Auden che dice tutto sull’arte somma del differire del genio a modo suo fiammingo:

Nell’Icaro di Bruegel, per esempio: come ogni cosa ignora serena il disastro! L’aratore può aver udito il tonfo, il grido desolato, ma per lui non era una perdita grave; il sole splendeva come doveva sulle bianche gambe inghiottite dalle verdi acque; e la ricca ed elegante nave che doveva aver visto una cosa incredibile, un ragazzo cadere dal cielo, aveva una meta e via passava placida.

E così il trapassare da cosa a cosa nella tela di Enego cosa dice sulla muta sorpresa di Santa Giustina che, pur accogliendo con lo sguardo quel giovane ignudo, ne accentua l’inattesa apparizione col volgersi proprio sull’adolescenziale irruenza di Sebastiano? Evidentemente, anche Sebastiano “aveva una meta” e niente e nessuno poteva impedirgli di raggiungerla, la stessa determinazione della nave di Bruegel.

Jacopo Bassano che andò a Enego per dipingere il silenzio di Dio ultima modifica: 2023-09-15T19:45:24+02:00 da FRANCO MIRACCO
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