La poesia delle radici

Nei versi in dialetto di Maurizio Noris
GABRIO VITALI
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«A cüre socane», scrive nel verso di apertura di una sua poesia Maurizio Noris e così risponde quando gli si chiede ragione della scelta del suo dialetto per i testi che scrive. In effetti, c’è una relazione non solo metaforica fra il lavoro di estrarre e ripulire le socane (le ceppaie), quel grumo originario, intrecciato e duro delle radici del ceppo di un albero abbattuto, poi rimasto nella terra o trascinato in una pietraia di fiume, e il lavoro poetico di scavo e di tornitura della lingua altrettanto originaria, intrecciata e dura del suo dialetto materno, ancora vivo e parlato in quel di Comenduno di Albino, il suo paese: «Le parole del dialetto stanno ad acciottolato sul fondo impietrito della mia anima».

A cüre socane
amìs de cunfidansa
tüso a slogaga vià
i brise
grise
del sò cél de dimenticansa
a i cüre
e ga sirche ’l nèt
e ga tènde l’ànema
in chèl i-spècc
e spòie de sömeansa
ch’i fàghe bèl vèd.

Quàt a ga ölel
a caàga fò
la binchetina ùcia
de chèl dé
che’n del bósch
a l’s’è copàt ol vènt
che la desfanta sfàcia
n’del finìt
marsìt
de miserère e fósch
e büse del serpènt?

E alura
la cüra la ’mbisògna de öcc
de òs e carne
e sangh al cör
sostansa
creansa
ö ciarùr de lègn desnöènt
éna
e us che canta
e la gh’à ol sò önguènt.

L’è ö suspir de aria,
caro té,
öna sguarsègna de la memòria
ol bèl sul de ö momènt
e arda té:
i tò parole
i sa fà sö fine e d’arzènt.

«Curo ceppaie/ amico di confidenza/ come a spossagli via/ le briciole/ grigie/ del loro cielo di dimenticanza/ le curo/ e gli cerco il pulito/ e gli guato l’anima/ in quello specchio/ e schegge di somiglianza/ che facciano bel vedere.
Quanto ci vuole/ a spogliarle/ la giacchetta unta/ di quel giorno/ che nel bosco /si è ammazzato il vento/ che si dilegua sfatta/ nel finito /marcito/ di miserere e fosco/ e buche del serpente?
E allora/ la cura abbisogna di occhi/ di ossa e carne/ e sangue al cuore/ sostanza/ creanza/ un chiarore di legno rinnovato/ vena/ e voce che canta/ e ha il suo unguento.
È un sospiro di aria/ caro mio, / una smorfia della memoria/ il bel sole di un momento/ e tu guarda:/ le tue parole/ si fan su fini/ e d’argento».

È la bella metafora di una dichiarazione di poetica, poiché la cultura del bosco, che Maurizio mantiene e coltiva, insegna a guardarlo in due modi: uno, dall’alto, lo vede come un variegato e molteplice insieme vivente, composto da infinite forme vegetali, diverse fra loro per specie, per dimensione, per variazione di colore e per modulazione di suono provocato dal vento che ne attraversa fronde, rami e cespugli; un altro, invece, da sotto, lo percepisce come un solo e unitario organismo dall’immensa e intrecciata distesa di radici sotterranee, che si allacciano e si abbracciano fra loro e con i sassi e i grumi di terra, scambiandosi alimento e sostegno, e che butta all’esterno i più diversi tronchi e fusti arborei, come un’unica grande socana dai mille ceppi.

Maurizio Noris

Ecco, Maurizio Noris, fa della complementarità di questi due modi di guardare il bosco (il suo bosco) il presupposto laboratoriale del suo lavoro poetico sulla lingua; e la sua poesia nasce così nella parola del dialetto bergamasco, assunta come il suono originario e matriciale dei nomi delle cose della vita e, con essi, dei modi per dirne il sentimento e il pensiero. Infatti, le parole del dialetto, come affermava il mai troppo rimpianto Luigi Meneghello, non sono soltanto modi per dire le cose, ma sono le cose stesse, così come sono state percepite e vissute all’origine, quando abbiamo imparato a parlare, senza ancora conoscere la differenza fra il linguaggio e la realtà, fra la vita e la sua rappresentazione linguistica. In tal modo, scavare e riportare alla luce le socane dure, compatte, ramificate e resistenti del suo dialetto, diventa per Maurizio Noris un lavoro poetico sulla materia matriciale della lingua prima e, perciò, del proprio originario pensare e sentire la realtà del modo e degli uomini; e, anche, una possibilità di dare voce a una comunità solidale di appartenenza, nel passato come nel presente, con la quale si è condiviso e si condivide un modo di fare esperienza della vita e, insieme, una lingua per raccontarne e raccontarla. La lingua originaria delle socane della sua poesia.

Maurizio Noris

Forte della vasta conoscenza della poesia neodialettale italiana del Novecento e della frequentazione assidua, spesso anche in termini di affettuosa amicizia, dei grandi maestri del verso in dialetto, come Franco Loi, Achille Serrao, Raffaello Baldini e la più giovane Franca Grisoni (nonché la lettura dei contemporanei di varie regioni, come Grignola, Basso, Marelli, Consonni, Franzin, Granatiero, Panetta, Crico, Vit, Bertolino, Pennisi, Vallerugo, Faraggi, Favaron, Zuccato, Mastropirro e molti altri ancora), in poesia, Maurizio Noris è nello stesso tempo un epigone della tradizione dialettale e, insieme, uno sperimentatore neofita di rinnovate possibilità compositive. Così, il suo dialetto conserva lo spessore semantico dell’antica sua tradizione, consacrata dall’uso di generazioni e da alcuni secoli di letteratura locale e insieme libera, improvvisa, la vivacità straniante di una lingua ancora parlata e che pare di ascoltare or ora. «Ci sono cose che sono accadute e continuano ad accadere solo in dialetto», soleva dire il grande poeta romagnolo Baldini ed è proprio questa sensazione di cose cioè che avvengano davvero che si produce in noi, quando leggiamo il verso bergamasco delle poesie di Maurizio. Meglio, quando ascoltiamo il verso respirare nella sua voce che isola, proprio come nei testi sulla pagina, singole parole o piccoli grumi espressivi, quasi a esaltarne e la sonorità e la forza semantica: non a caso, dl resto, le pubblicazioni più recenti di Noris, riportano dei QRcode con la registrazione vocale di alcuni testi poetici, che si possono così ascoltare durante la lettura silenziosa.

Assolutamente estraneo alla vocazione bozzettistica, passatista, comica e soltanto residuale di tanta, purtroppo, persistente poesia dialettale, Maurizio rivendica la qualità poetica universale del suo dialetto che è sì lo sfondo linguistico di un’appartenenza a un luogo, a una gente, a una storia e a una memoria, ma che è anche portatore, proprio per questo, di un’altra appartenenza in cui chiunque si può ritrovare. Cioè quella a un punto di vista diverso sul mondo e sulle cose, a un modo più autentico di pensare e di vivere la vicenda umana quotidiana e le sue situazioni di relazione solidale con gli altri e con la natura, oggi così svuotate e omologate proprio dai linguaggi semplificati e ripetitivi da cui siamo circondati, che diventano portatori di imput comportamentali serializzati e che sgretolano le facoltà autonome di pensiero contenute nella lingua: «Duro è il lavoro di sublimazione del linguaggio, affaticata la traduzione in lingua di ciò che nel mio dialetto ascolto e scrivo, ma vuoi mettere: lo sforzo che faccio è la ricerca di una espressività linguistica che anela alla universalità, aperta e unica nel suo percorso, perché unico e proprio è il dialetto dei poeti neodialettali che conosco e apprezzo».

I sa ’mbreàga i paròle
’n del mé öcc,
balurdù de chèi
che i sculta de schièss
ol tormènt vècc
del piöcc.

Se no l’födèss
che ’n del’ispetà
che ‘n del vöd
di fiöi de portà vià
a l’pascùle spilórs ol tép
e ö bór de cà
sènsa permèss.
’N del rosare
de ’sta nòcc
a gh’à zónte la mé càpera 
’n zenöcc.

Quat a mànchel
a la sbréga di décc?
A che l’sées ö südùr, só sigür,
ma quat a mànchel
al saì mia se ès contécc,
a che l’sées ö dulùr
ma, brötabèstia,
che l’faghe sènsa scür!

La rierà la dé
e la gh’avrà öna us de pàder
che la ’mbrassa ’l mür,
öna us franca sènsa angöstia
e co i cheèi spetenécc.
Ògne parola 
la gh’avrà ö sò ciarùr,
can de l’òstia,
ö sò tài
d’arzènt
de sgür.

«Si ubriacano le parole/ nel mio occhio, / vertigine di quelli/ che ascoltano sghimbescio/ il tormento vecchio/ del pidocchio.
Se non fosse/ che nell’attesa/ che nel vuoto/ dei figli da portare via/ pascoli spilorcio il tempo/ e un abbaiar di cani/ senza permesso. / Nel rosario/ di questa notte/ ci aggiungo la mia caparra/ in ginocchio.
Quanto manca/ al lacero dei denti? / Che sia un sudore, sono sicuro, / ma quanto manca/ al non saper/ se esser contenti, / a che sia un dolore/ ma, brutta bestia, / che faccia senza scuro!
Arriverà l’alba/ e avrà una voce di padre/ che abbraccia il muro, / una voce franca senza angustia/ e coi capelli spettinati. / Ogni parola/ avrà un suo chiarore, / can de l’ostia, / un suo taglio/ d’argento /di scure».

(Questa poesia e la precedente sono tratte dal catalogo dell’installazione organico poetica A cüre socane, con socane e poesie di Maurizio Noris, Teramata edizioni, 2022)

«Ci vivo del mio nella relazione con la parola scritta del dialetto, mantenendo la fedeltà di fondo alla lingua che normalmente parlo. Non ci vedo trattamenti particolari se non una cura al disvelarsi delle parole, cioè al lasciar che esse ri-dicano il fondo impietrito. Ciò che sento nel pensare e scrivere in dialetto è parola irruente e lavorabile come un codice sonoro. Nel dialetto c’è tutto lo spazio per re-inventare le parole. La poesia si fa immagine che si racconta con la forza del suono dialettale e gusto per la delicatezza espressiva che è capace di sollecitare. Mi piace misurarmi a scrivere così; penso che non mi riuscirebbe diversamente».

L’uso assolutamente naturale del dialetto proposto da Noris senza la mediazione, neppure occultata, di altri registri linguistici non è, dunque, l’impiego spontaneo di una lingua di comunicazione sociale sic et simpliciter, ma quello di una lingua ricostruita e impostata come lingua di poesia, proprio perché viene normalmente da lui praticata e sperimentata nella conversazione quotidiana. È infatti la poesia la cifra linguistica del dialetto reinventato (guarda caso in versi e mai in prosa) da Maurizio. Come in ogni poeta, la poesia di Noris è prima di tutto un “fatto linguistico”, qualcosa, cioè che non veicola, non raccoglie, non interpreta la realtà, ma la produce. Perché è una lingua costruita, plasmata, rielaborata. Intonata e accordata alla sua particolare poesia. Per questo la sua poesia, seppure in un dialetto ostico come il bergamasco, diventa opera di restituzione originale e unica: il verso in dialetto riconsegna al lettore un modo di guardare e di percepire la vita, l’atmosfera e persino la musica di un mondo ch’egli capisce possa essere anche suo e al quale avverte in qualche modo di poter appartenere, non solo se è bergamasco e se ha attraversato ambienti dialettofoni. La lettura continua della poesia contemporanea in italiano e la passione per la poesia in dialetto delle più varie regioni, che Maurizio coltiva, si fondono nel crogiolo di un dialetto che acquisisce densità espressiva, senza perdere vivacità, freschezza e immediatezza tipici di una lingua solo parlata. Il dialetto si fa così lingua della mente e dell’anima insieme, cioè lingua poetica.

Socana
Socana
Socana

La qualità di questo processo di invenzione linguistica risulta evidente già dai titoli delle principali raccolte di Noris, ciascuno dei quali può essere assunto come metafora del suo accurato lavoro sulla lingua poetica: Santì (Teramata, 2000) dove i santini, cioè le immaginette sacre della devozione popolare, diventano la raffigurazione di situazioni di vita, di personaggi, di aspetti della natura e del paesaggio che, nel dialetto che la costruisce, acquista nuova significanza e rinnovato valore esperienziale; Us de ruch (Lieto Colle, 2010), dove le voci del ronco, l’appezzamento di terreno montano in pendio faticosamente ripulito da radici, fusti e pietre per essere messo a coltura, sono le parole ripulite del dialetto che raccontano immagini e situazioni di una vita, passata e presente, dura, ma autentica; Resistènse (Interlinea, 2016), dove le resistenze sono le forme di poesia in cui si mantiene e si condensa la memoria e, insieme, la riproposizione di modi del pensare e del sentire (cioè dello sperimentare) i fatti e le cose della vita, che alle parole del dialetto sono rimasti abbarbicati e che, in quella lingua, possono essere di nuovo comunicati.

Ma la qualità e l’ulteriore maturazione del suo lavoro poetico sulla lingua diventano evidenti nelle traduzioni dallo spagnolo al bergamasco, nelle quali Maurizio Noris si è impegnato nel prezioso volumetto Santì d’Andalöséa (Santini d’Andalusia). Omaggio a Federico Garcia Lorca, apparso da Teramata in questo 2023. L’esperienza della traduzione della poesia di un grande classico in un’altra lingua è esperienza che solo un poeta bravo è in condizione di fare perché, al di là dei referenti di significato, il problema è quello di rendere il lavoro poetico sul significante (cioè sul lessico, sulle associazioni di significato, sulle sonorità della parola, sulle armonie e le discrasie fonetiche, sulle cadenze ritmiche nella prosodia e nella metrica del verso, sulla composizione strofica…) in altri e diversi registri linguistici. Ѐ come impaginare e interpretare un’esecuzione musicale secondo un altro spartito.

«L’idea è nata dopo l’urto e la caduta di un vecchio libro di Lorca dai miei scaffali. L’ho raccolto aperto e l’ho letto (subito, istintivamente?) in dialetto bergamasco. Sensazione straniante ad alta intensità», così dice Maurizio per spiegare l’abbrivio di questo lavoro, nel quale impiega tutte le risorse della sua lingua poetica per dar corpo a una musicalità diversa, quella del suo bergamasco, nella quale tuttavia cantino e risuonino le stesse costruzioni poetiche di Lorca, si tratti di paesaggi lunari, di canzoni d’amore, di ninne nanne, di rappresentazioni del dolore… Ѐ così, come nota Vincenzo Guercio in postfazione, che «la sua poesia, anche foneticamente, armonicamente cesellata, accuratamente ritmata, sensibilissima ai giochi/successione di suoni, accenti, riprese (in senso metrico), dimostra […], per acta, una insospettata, ormai, e altrove perlopiù insospettabile, musicalità, eleganza, ‘poeticità’ del bergamasco». Non solo, ma persino nella costruzione strofica Noris traduce le scelte compositive di Lorca nella strofa originale che è propria della sua poesia e che l’autore descrive così: «Un verso al centro che è risucchio di una riga. È anche una questione di spazio tra le parole; il lento sonoro definirsi di un paesaggio di significati tra parole sufficientemente distanti tra loro per potersi inchiodare a scandire riconoscimenti della parola stessa che si dice. Il suono evoca, il ritmo racconta una storia di poche e ben potate parole. Mi piace desiderarlo così lo stilema della poesia che scrivo».

Basti un esempio:

CARACOLA

Me han traído una caracola.
Dentro le canta
un mar de mapa.
Mi corazón
se llena de agua
con pececillos
de sombra y plata.
Me han traído una caracola.

A Natalita Jiménez

CONCHIGLIA. M’hanno portato una conchiglia. // Dentro le canta / un mar di mappa. / Il cuore / si riempie d’acqua / con pesciolini / d’ombra e d’argento. // M’hanno portato una conchiglia.

ARSÉLA

I m’à portàt ön’arsèla.
Dét de lé l’ga canta
ö mar de mapa.
Ol mé cör
a l’se ’mpienéss de aqua
co i sanguanì
d’ ömbréa e d’arzént.
I m’à portàt ön’arsèla.

Nel libro, infine, sono stampati alcuni QRcode, tramite i quali si può accedere a registrazioni-video delle poesie di Lorca, recitate dalla cantante Lucìa Diaz secondo i ritmi del canto tradizionale spagnolo, e delle traduzioni di Maurizio Noris, proposte nei ritmi e nel respiro della sua voce poetica dialettale:

CASIDA DEL LLANTO
PUEBLO
SORPRESA
EL NIÑO MUDO
CADA CANCIÓN

Santì d’Andalöséa. (Santini d’Andalusia)
omaggio a Federico Garcia Lorca
di Maurizio Noris
presentazione di Lorenzo Spurio
e postfazione di Vincenzo Guercio
Teramata edizioni, 2023
Prezzo: euro 18,00

A cüre socane. (Mi prendo cura delle ceppaie)
Catalogo dell’installazione organico poetica
con socane e poesie di Maurizio Noris
Sala Giulia, Villa Regina Pacis, Comenduno di Albino
Teramata edizioni, 20222

La poesia delle radici ultima modifica: 2023-09-17T18:08:31+02:00 da GABRIO VITALI
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