Se per la terza vota consecutiva in cinque anni, dopo Baku, Fuzhou e Riyadh, la riunione dei ventuno membri del comitato per il patrimonio mondiale Unesco (WHC) decide di smentire e capovolgere i pareri emessi dagli organismi tecnici sullo stato del sito di “Venezia e la sua laguna”, significa che il problema non è la qualità dell’istruttoria ma la natura dell’Unesco stesso.
Rispetto alla sua missione originaria l’Unesco si è ormai trasformato in uno strumento di marketing turistico che agli occhi dell’industria turistica mondiale e delle amministrazioni locali direttamente interessate diventa fonte di redditi assai più che di tutele.
E ancora una volta Venezia assume il ruolo di simbolo e vittima di questa palese eterogenesi dei fini.
Alle burocrazie “culturali” delle delegazioni nazionali, cui è biennalmente affidato il ruolo di giudici delle riunioni Unesco, vengono imposti gli input della politica commerciale del turismo col suo mercato internazionale dei favori, una specialità tipicamente politica. In sostanza il baratto tra incassi e tutele.

Accade così che a Riyadh 2023 i reiterati rilievi su Venezia, nella fattispecie del totale laissez faire della politica turistica, l’esponente giapponese del comitato si è incaricato di proporre all’intera assemblea il rigetto in toto dell’istruttoria tecnica dell’Unesco bloccando qualsiasi contradditorio presente. L’assemblea ha così approvato all’unanimità a ridosso del pranzo. Per poi sciogliersi senza contradditorio. Una tecnica da consumati professionisti della politica! E qui sta il vulnus di procedura.
Ma non è finita. A sole ventiquattr’ore di distanza dal voto assembleare di Riyadh ha preso forma un inedito documento che, con linguaggio istruttorio Unesco, formalizza riassume e divulga le ragioni di tanta fretta, facendo direttamente propri gli argomenti che l’amministrazione veneziana adduce a proprio favore trasformandoli in prescrizioni. In pratica un esame di riparazione autoassegnato con scadenza al primo dicembre 2024. Esattamente a conclusione del periodo di sperimentazione turistica adottato in fretta e furia dal Consiglio comunale veneziano appena due giorni prima di Riyadh. Un provvedimento concepito ben sei anni dopo l’annuncio di quella sperimentazione. Al vulnus si è aggiunta la farsa.

Quelle misure sul contenimento turistico che dal 2017 che giacevano inutilizzate verranno così sperimentate nel 2024 a conclusione delle quali è prevista sin d’ora la autocertificazione del loro successo.
In pratica una regia di emergenza locale messa in atto e trasferita sui tavoli nazionali impegnati a garantire il successo dell’annuncio di una semplice intenzione. Un argomento che, in città e fuori, aveva raccolto una vasta e circostanziata area di dissenso politico, culturale, tecnico e amministrativo, a partire dall’idea stessa di disporre tutt’attorno a Venezia una cinta daziaria turistica. Una novità europea e mondiale. Nei fatti ingestibile.
L’euforia da stadio con cui la Giunta comunale veneziana accoglieva la decisione di Riyadh è spiegabile infatti solo col timore che una sede internazionale potesse intromettersi nelle vicende veneziane in vista di possibili ricadute sul consenso locale. Una sorta di “padroni a casa nostra”.
La narrazione in voga fa perno sul trionfalismo della crescita turistica senza limiti di tutte le quattro forme che alimentano il business turistico veneziano.
Quella dell’offerta alberghiera di Venezia e Mestre e dei fitti brevi airbnb che dispongono complessivamente di ottantamila letti in tutta la città, a seguire il crescente turismo giornaliero mordi e fuggi e infine quello serale e notturno dei tour alcolici metropolitani che allietano le notti veneziane.
Trenta milioni di presenze annuali, pari a una media di ottantamila al giorno che si possono suddividere tra picchi di centomila e morbide di sessanta, per un totale di oltre seicento presenze all’anno per ogni residuo abitante della città storica, che perde i suoi abitanti in proporzione con la crescita turistica.
Il blocco sociale che attorno al turismo si è consolidato rappresenta infatti il target che l’amministrazione intende rassicurare nell’altalena di promesse tra vivibilità urbana e redistribuzione garantita di bassi salari e rendite elevate.

Resta il fatto che al di là di alcuni giudizi sferzanti comparsi in città sull’utilità dell’Unesco, e sul suo modus operandi, l’impatto di Unesco in città è comunque un evento biennale con cui ci si deve misurare perché è uno degli indicatori dell’immagine ufficiale che la città proietta nel mondo, dalla quale la città non può esimersi.
Se le questioni Mose e Grandi navi possono in sostanza essere assunte dagli osservatori esterni come “compiti assolti”, non così è per il turismo che costituisce un processo in divenire, diretta espressione del mercato che la parte di città che ne trae benefici considera auspicabile come fonte unica dell’economia locale. Così come in parallelo la parte politica che trae consenso e legittimazione dall’esercizio dell’assoluto liberismo turistico dominante è determinata a sottrarsi dal considerarne tutte le ricadute della sua gestione della città..
Ma non c’è alcun dubbio che la comunità veneziana sia tenuta a misurarsi a breve col sovraccarico turistico che l’opprime, a prescindere da tutte le alchimie daziarie e tributarie finora escogitate dalla giunta in carica e dei “compiti per casa” che ha dichiarato di assolvere per il dicembre 2024.
Questo turismo deve assolutamente essere regolato dal momento che esistono gli strumenti, le idee e la volontà per farlo. La sfida è lanciata e riguarda tutta la città. La proposta appena votata dall’attuale maggioranza contiene in tutta evidenza l’intento dilatorio per giungere alla prossima scadenza elettorale col compiacente lassismo di un intero decennio di overturismo alla spalle da cui attingere ancora consensi.
I danni così prodotti non saranno comunque più circoscrivibili né occultabili agli occhi dei veneziani e del mondo e non basteranno più le astuzie procedurali o le trame politiche a mascherarli.

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