Nicola Pietrangeli. Il tennis prima del tennis

ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Vogliamo bene a Nicola Pietrangeli, che ha da poco compiuto novant’anni e costituisce un’icona non solo del tennis ma dello sport italiano. Certo, nella recente intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera si sarebbe potuto risparmiare alcune considerazioni inopportune sul Cile di Allende e sul disumano golpe di Pinochet, ma non è di questo che vogliamo occuparci. Pietrangeli, infatti, ha incarnato il tennis prima del tennis, la stagione magica e pionieristica degli anni in cui tutto sembrava possibile, la poesia allo stato puro, l’epica sulla terra rossa e la dolce vita dal sapore felliniano. È stato, insieme a Orlando Sirola, l’idolo del dopoguerra, il mito della generazione che voleva sognare, oltre ad aver amato a sua volta la vita e a essersi divertito alla grande.

Non a caso, non solo ha pubblicato di recente un’autobiografia intitolata Se piove, rimandiamo, ma, sempre a Cazzullo, ha raccontato le sue esperienze alla Capannina di Viareggio negli anni Sessanta, in compagnia dell’Avvocato e di un mondo che purtroppo non esiste più. Perché Agnelli era senz’altro un capitalista, sicuramente un viveur, ma non un predone: aveva a cuore i propri interessi ma anche quelli del Paese. E così l’intero jet-set di un’Italia assai diversa rispetto a quella attuale: volgare, egoista, disumana, incapace di assaporare qualsivoglia forma di felicità e di essere comunità almeno nei momenti più difficili.

Pietrangeli, al contrario, è stato l’uomo-squadra per eccellenza. Fu lui, per dire, il capitano-non giocatore che formò il quartetto che ci regalò la Coppa Davis in Cile nel ’76. Panatta, Barazzutti e Zugarelli sono figli suoi e delle sue intuizioni. E sua fu anche la battaglia per recarsi in quel Paese lontano e all’epoca martoriato dalla dittatura militare, in una stagione nella quale persino Modugno prese a cantare: “Non si giocano volée con il boia Pinochet”. Un sostegno inaspettato gli venne dal responsabile Sport del Pci, Ignazio Pirastu, un comunista sui generis, il quale comprese che si dovesse scindere lo sport dalla doverosa condanna politica nei confronti di una dittatura spregevole. Anche per questo ci ha lasciato l’amaro in bocca la recente riflessione di Pietrangeli in merito agli orrori cileni: non si può in alcun modo sminuire quello scempio, per rispetto nei confronti delle vittime e per amore verso un popolo che ha sofferto l’indicibile. E non ci è piaciuto neanche il riferimento alle magliette rosse: non si trattò di “rischi inutili in un’atmosfera già tesa” ma di un grande atto di coraggio, di una sacrosanta rivendicazione dei diritti umani e di una testimonianza politica che lo sport contemporaneo, infettato dal business, non sarebbe stato, probabilmente in grado di compiere ma che senz’altro ha contribuito a rendere immortale quel quartetto di campioni.

Pietrangeli, al di là di qualche dissenso, è stato tuttavia storia in atto, entusiasmo, lirica, follia, bellezza artistica e irriverenza, con il suo tennis elegante ed efficace, appassionante e capace di farci innamorare di uno sport per sua natura aristocratico.

Del resto, il nostro ha sempre coltivato anche uno straordinario interesse per il calcio, che ha praticato con discreto successo fin da ragazzo, arrivando addirittura ad allenarsi con la Lazio pistolera di Maestrelli e coltivando rapporti d’amicizia con una banda di scapestrati che, però, riuscì nell’impresa di conquistate uno scudetto in nulla e per nulla paragonabile al secondo. La Lazio di Cragnotti, infatti, era una multinazionale del gol, potentissima e composta da fuoriclasse. La Lazio di Lenzini, al contrario, aveva assemblato gli scarti altrui e si era affidata a un padre più che a un allenatore, riuscendo a creare un’amalgama fra due gruppi che si detestavano e a convincerli a collaborare in nome dell’obiettivo comune. 

Novanta, dunque, caro Nicola. Auguroni di cuore a te che non ti sei mai tirato indietro!

Nicola Pietrangeli. Il tennis prima del tennis ultima modifica: 2023-09-19T14:23:56+02:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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