Accadde nel 1993 durante un “appropriarsi” di Emilio Vedova, fu allora che insospettato si pose in essere fra noi Arturo Martini. Sì, Vedova (quello di parole e opere come emergenza, scontro, aggressività, compresenza, frammento, lacerazione, temerarietà di addentramento, sondaggi, domande di un pittore astratto o informale o né l’uno né l’altro), che d’improvviso, in una sorta di contraccolpo di pudore, dice Venezia:
L’acqua… l’imprendibilità dell’acqua… mi piacerebbe fare scultura nell’acqua. Ho questo sentimento dell’acqua. Ho fatto scultura… sai, faccio collezioni di pali, legni, pezzi di briccole persi in acqua.
Più avanti, un altro contraccolpo nella sua casa-studio a Punta della Salute, che prima di Vedova era stata di Arturo Martini:
Da ragazzo venivo qua sotto, mi sedevo per terra sul ponte e lui mi guardava da qui, dall’alto, dall’altana… rideva… smorfie… qualche volta me lo trovavo vicino e diceva, guardando quello che stavo disegnando, troppa roba, troppa roba. Sì, il primo premio che ho avuto me lo ha dato Arturo Martini alla Colomba. Lui si trovava là assieme a critici, ad altri pittori. Martini gridava che ero bravo. Quando sono uscito dal ristorante mi sono messo a correre come un pazzo… sempre di corsa fino a Castello, il cuore mi scoppiava.
Il maestro celebre e il ragazzo che corre come un matto: la perfetta leggenda dell’artista, che però, nel caso di Martini, non sempre favorì il maestro. Ebbe a scriverlo, per la mostra trevigiana “Il giovane Arturo Martini”( 1990), Nico Stringa:
Di famiglia povera, semianalfabeta, eccentrico, incostante, Martini sommava in sé il tipo ideale dell’artista “leggendario”, secondo uno schema che si ripeteva, con poche varianti, dall’antichità (…). È molto significativo che nel XX secolo questo schema venga riproposto a più riprese da Carrà, da Savinio, da Comisso, addirittura durante la vita dell’artista.Così una notevole massa di informazioni, a volte decisive per la valutazione corretta della biografia e dell’arte di Martini giovane, si sono depositate sul fondo e hanno procrastinato una obiettiva ricostruzione.
Che è quanto si è fatto invece con la martinianissima mostra Arturo Martini, i capolavori, dove una ricostruzione per davvero obiettiva ha consentito di vedere esposte non meno di venti opere inedite, cose mai prima “mostrate” in pubblico, dando in abbondanza alla nuova impresa espositiva trevigiana un pieno di capolavori con più di cento opere, pitture comprese. Ma su quel fondo procrastinante durarono a lungo dubbi e imbarazzi critici, quelli elencati in occasione della retrospettiva che la Biennale di Venezia volle nel 1948 per lo scultore scomparso il 22 marzo del 1947. Dalla presentazione di Umbro Apollonio:
L’opera di Arturo Martini registrò sempre una risorsa incalzante, un’origine viva, anche quando inscenava spettacoli plastici e riduzioni generiche o, nel violento fervore della sua immaginazione, si costringeva alla funzione di ”regista“ (Francesco Arcangeli) oppure si fermava all’episodio di una “trovata” (C. L. Ragghianti).

In breve, inscenava spettacoli plastici e riduzioni generiche, si costringeva a far da regista proponendo trovate, né temette “le avventure più rischiose” magari seguendo un “itinerario di riflessioni ansiose e instancabili attraverso l’alessandrino, l’etrusco, il medievale…”. Eppure, nella Biennale successiva, quella del 1950, nella scheda per gli “scultori d’oggi”, a iniziare da Jean Arp, si legge che si “ravviserà in queste ricerche i primi segni di un vivo linguaggio plastico, che rinasce dalle ceneri fredde di quella che il maggiore dei nostri scultori, Arturo Martini, negli ultimi anni della sua vita amaramente chiamava la lingua morta della statuaria”. A rinascere però saranno altri, quelli capaci di un vivo linguaggio plastico, non Arturo Martini e le ceneri fredde di un’arte, la scultura, ormai lingua morta. Resta quindi difficile capire il perché Martini, a metà del secolo scorso, fosse ritenuto “il maggiore dei nostri scultori”, e questo nonostante la colpa di aver trascurato la ricerca metodica per volgersi a brillanti invenzioni, a felici improvvisazioni plastiche. Insomma, facendo “della scultura un linguaggio aperto, ma disponibile per tutte le occasioni, e, talvolta, più vivace che vitale”.

Ma se le parole hanno senso, chi si mostra disponibile per tutte le occasioni non è forse un opportunista? E nel caso di Martini il suo, per l’appunto, non può che essere stato un insaziabile opportunismo, una risorsa che ha alimentato l’arte più innovativa e vitale del XX secolo, quella in grado di andare oltre la morte della scultura. Certo, Martini volle essere disponibile per tutte le occasioni: l’occasione di avvicinarsi al giovane Vedova per intravedere il domani della pittura, l’occasione per entrare nella classicità reinventata con Tobiolo, l’occasione di riprendersi Leoni e Chimere speculando attorno a un “autentico” immaginario etrusco, l’occasione per sillabare i fondamentali della terracotta e della maiolica, l’occasione per donarsi l’esperienza di un secessionismo fantastico e dove è già scultura la “bottiglia con il fauno”. Ed è il suo geniale opportunismo che lo ispira nel fondere spazio e senso manifestandoci, al di là del tempo, Athena, Tito Livio e Palinuro. Più correttamente: anche al di là del tempo che noi pensiamo essere stato il nostro tempo, oppure il tempo del Fascismo o della Resistenza. Sia chiaro, per opportunismo s’intende movimento, mutevolezza, saper approfittare di ciò che arricchisce o modifica o pone in crisi la ricerca e i risultati dell’artista. Tra i più indiscutibili opportunisti? Picasso. Gombrich lo spiegò da par suo:
Picasso non ebbe mai la pretesa che il cubismo potesse sostituire tutti gli altri mezzi di rappresentazione del mondo visibile. Anzi! Egli amò mutare i suoi metodi tornando, di quando in quando, dagli esperimenti più arditi a varie forme tradizionali… e da queste avventure spinte al limite dell’impossibile tornò a immagini salde, persuasive e commoventi (…). Nessun metodo o tecnica lo soddisfece a lungo. A volte abbandonò la pittura per la ceramica a mano. Pochi potrebbero indovinare a prima vista che quel piatto è opera di uno dei più celebri maestri del nostro tempo.
E di arditi esperimenti, di un continuo mutare materie, metodi, forme, sono testimonianze le opere di Martini: dai disegni pubblicitari alle terraglie dorate, dalle xilografie ai gessi patinati, dalla terra di nessuno delle “contemplazioni” al cubofuturismo del “ritratto di Omero Soppelsa”. Scrive in catalogo Fabrizio Malachin, preziosissimo nel valorizzare e musealizzare quanto attiene alla sua responsabilità per i Musei Civici di Treviso:
Questa mostra avrebbe fatto piacere a Martini ‘perché è unicamente meraviglia e io voglio imbalsamare una nuova generazione nello stupore’. Ritornano così quelle parole scritte a Giovanni Comisso: ‘debbo esporre un gruppo considerevole di opere da sbalordire quindi marmi, terracotte, bronzi da riempire due vagoni e più, insomma una cosa in grande o niente.

Comunque, c’è forse qualcosa di più in linea con lo spirito inflessibile delle espressioni più “drammatiche” e rigorose delle avanguardie di quanto ci ha dato lo scultore con il libro Contemplazioni? Un libro con dentro il silenzio dell’artista e dell’arte durante e dopo la prima guerra mondiale.
Nico Stringa:
In Martini regna un silenzio che sembra evocare un lutto indicibile, come se la rinuncia ad esprimersi in immagini e in parole fosse l’ultima possibilità di un artista per superare, attraverso l’afasia, la ricchezza apparente dell’avanguardia.
Un libro xilografico:
Trentanove fogli non numerati, nei quali non compaiono né figure né parole né frasi esplicative, ma sono presenti solo tacche nere rettangolari inserite in righi simili agli spartiti musicali, separati da spazi bianchi e ritmati da simboli di pausa a forma di piccoli rombi,
a scriverlo N. S. che da Stringa raggiunge il suo scopo di storico dell’arte contemporanea in due righe:
“Contemplazioni” può allora essere considerato proprio come un azzeramento del passato , come la constatazione di un grado zero di scrittura, pittura, scultura- per poter ripartire.

Dunque, è uno spartito con cui suonare la marginalità o l’irrilevanza dell’arte, uno spartito però in cui si nasconde il mistero dell’aura senza la quale, altrimenti, non potrebbe ripartire quella musica, chissà quando chissà dove. E Arturo Martini sapeva benissimo che sarebbe successo, lo sapeva quando sghignazzava sul ponte con Emilio Vedova che disegnava seduto per terra. Più sopra, a proposito di opportunismo, ci si è serviti della parola mutevolezza, adoperata in un suo famosissimo libro da Italo Calvino, ma che può venirci utile ora, si spera.
Calvino:
Per esempio, Giacomo Leopardi sosteneva che il linguaggio è tanto più poetico quanto più è vago, impreciso (…). La parola vago porta con con sé un’ idea di movimento e mutevolezza, che s’associa in italiano tanto all’incerto e all’indefinito quanto alla grazia, alla piacevolezza…

Movimento e mutevolezza, che sono qualità della poesia cui ricorre l’opportunista nell’acciuffare pensieri ed esperienze che divengono, di volta in volta, la sua possibilità di creare invenzioni, metamorfosi, imprevedibilità, anche passi all’indietro, e che lo rendono opportunisticamente libero. D’altra parte è impossibile restare nei territori specifici della critica d’arte di fronte all’indefinito su cui si affaccia chi osserva La Nena. Da quale lontananza viene quel volto al contempo antico e contemporaneo? La scultura, per esercitare allora la sostanza esistenziale di una donna che cerca o è in attesa di conoscere le ragioni del suo vivere… ed è subito letteratura, ma verso cui però non ci spinge l’opportunista. E sono assolutamente fatali quei confini spaziali e temporali, proprio per questo memorabili nel loro negare estraneità a chi li osserva, e dentro cui non possono venir meno quelle “tracce di memorie” concepite per La moglie del marinaio, per la Donna alla finestra, per La veglia: tracce che valgono per chiunque vi si trovi accanto. Arturo Martini, che da sensibilissimo opportunista ha contemplato e compreso il mondo delle donne con queste e con altre sue opere, ha espresso anche così la quintessenza di ogni essere umano. Torniamo per un istante ancora alla mutevolezza di alcuni capolavori martiniani di cui cui scrisse Cesare Brandi, sacrosantamente citato da Nico Stringa on potendo dimenticare Tobiolo:
La statua non ha un punto di vista obbligato, o meglio ne ha uno continuo: il luogo dei punti distanti dal centro; e poiché deve essere il centro di una fontana, sembra, questa, la spiegazione naturale. Ma c’è qualcosa di più profondo. La faccia del giovane rimane quasi invisibile; ed è un terribile abbozzo, una maschera selvatica: in realtà questo corpo si polarizza in infiniti luoghi: si scompone in infiniti particolari, pur conservando una salda unità.
Sarebbe ingratitudine culturale o cecità penosa verso Martini se non concludessimo con un’immancabile perfidia, quella non mancata da Brandi:
Con il Pescatore (Tobiolo) Martini ci appare nella sua piena maturità, e come tale, lasciati i suoi poncifs ai numerosi imitatori che popolano i giardini e il Padiglione della Biennale, lo vediamo senza seguito e senza battistrada nel panorama dell’arte europea.

Poncifs, banali imitatori. Ma restiamo pure in terre di salutari perfidie, quelle frequentate nel nostro caso da Giuseppe Pavanello. Per la colossale statua di Athena nel piazzale della Sapienza a Roma:
Una icona del suo tempo…in grado , come poche altre opere, di esprimere desideri e aspirazioni estetiche, venendo a confermare lo scultore come l’esponente di maggior spicco nell’intero panorama europeo.
Pochi righe che bastano a Pavanello per ripulire dall’accusa, mortificante per l’arte del nostro, di essere l’Athena un monumento al fascismo. Di opportunità in opportunità: dopo la statua barbaramente non romana, Athena, una seconda opportunità per l’imperdibile opportunista cui viene commissionato il Tito Livio patavino, essendoci da celebrare, nel 1941, il bimillenario della nascita dello storico. Fuoriuscendo, da straordinario opportunista qual è, dal “monumentalismo retorico in voga” che fa Martini? Ce lo dice Pavanello, secondo cui quel marmo,
più astratto di quel che appare a un primo sguardo (…) viene ad acquisire inedita, inaspettata, verità, nel solco del celebre ritratto medievale del grande scrittore murato presso la Porta delle Debite.
È noto che un trasparente opportunista s’illumina con il saper essere beffardo, un segno diverso dunque e di cui si accorsero i committenti del Liviano. Di nuovo Padova con la terza oimè dolorosissima opportunità, il Palinuro per il Palazzo del Bo:
Il marmo è dedicato al partigiano Primo Visentin, detto Masaccio, caduto a Loria il 29 aprile 1945 (…). Come esprimere che il giovane Visentin era sul limite dell’evento della Liberazione dal nazifascismo, dove non gli fu concesso di approdare?.
Continua Giuseppe Pavanello:
Ecco venire in soccorso la figura di Palinuro, il nocchiere troiano di Enea che, tradito dal sonno, cadde in mare e giunto a riva fu assassinato dagli indigeni (…) . È un’opera dove prevale ‘il concetto’, come di continuo si sforzava di fare Antonio Canova: il monumento celebrativo non deve essere incentrato su un’apoteosi del personaggio da commemorare, ma dall’evidenziare, appunto, un concetto che gli fosse connesso.

Ricorda infine Pavanello questa frase di Martini:
“Ho fatto l’ultima statua che la pietà e la preghiera del dolore mi hanno piegato ad accettare“, lo scrive in una lettera che è come un’epigrafe finale.
Tra i grandissimi meriti della mostra, che chiude domani, anche quello testimoniato dalla munificenza della signora Fantoni Rocchetto per aver donato il capolavoro della Sposa felice ai Musei Civici di Treviso.


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