L’articolo che segue apparve sul quotidiano Europa il 14 maggio 2009. Lo riproponiamo ai nostri lettori nel ricordo del presidente emerito.
Quando il presidente della Repubblica s’avvicina a quel passaggio del suo discorso che strapperà l’applauso dei presenti – per la visibile commozione che gl’incrina la voce – premette che “questo Giorno della memoria ci offre l’occasione per accomunare nel rispetto che è loro dovuto i familiari di tutte le vittime” di “una stagione di odio e di terrorismo”. Il verbo “accomunare” – pronunciato con enfasi – è l’unico possibile al cospetto delle vedove di Giuseppe Pinelli e di Luigi Calabresi. Ce n’è un altro che rispetti due vicende drammatiche, mettendone in risalto la peculiarità di ciascuna di esse e al tempo stesso connettendole tra loro?
Già, quell’intervento presidenziale merita di essere letto innanzitutto attraverso la semplice lente dell’uso della lingua italiana. Come peraltro tutti i discorsi dell’attuale capo dello Stato. Asciutti e sobri, aggettivati in modo preciso e calibrato, una punteggiatura impeccabile con il punto, la virgola, i due punti, il punto e virgola, ognuno al posto giusto, un uso studiato e mai casuale di ogni termine e locuzione, l’assenza di parole straniere o gergali o alla moda, l’impiego del sia sia e non del sia che: gli interventi del presidente della Repubblica – detti con la sua voce nitida e ferma, talvolta a braccio – sono una boccata d’ossigeno nel panorama politico e istituzionale attuale, dominato da pressapochismo linguistico e da un lessico terribilmente standardizzato, convenzionale e prevedibile, specchio evidente di una cultura e di un costume dei Palazzi condizionati dai media.

Sono testi che potrebbero magnificamente essere diffusi nelle scuole, come un esempio di ottimo italiano moderno, chiaro e incisivo, colto e accessibile. Insomma, democratico. Qualsiasi giornalista che abbia avuto l’occasione di intervistare Giorgio Napolitano – dirigente comunista e uomo delle istituzioni – conosce bene il livello maniacale con cui cura le sue esternazioni. Il Napolitano politico non parlava “dettava“ le sue frasi al giornalista e, non contento, poneva come condizione per la pubblicazione dell’intervista il controllo meticoloso del testo finale. I suoi articoli e i suoi discorsi nelle sedi di partito erano, se possibile, ancora più curati. Ai tempi del Pci, contavano le sfumature, le notizie le trovavi nelle pieghe di una frase, in un aggettivo, anche in un non detto. E se il linguaggio dei dorotei abbondava di frasi volutamente involute e fumose, e quello dei socialisti era venato di vigore e polemico e populista, la tradizione comunista imponeva un codice pedagogico non urlato e spersonalizzato e poi il partito di Antonio Gramsci curava molto la formazione culturale dei suoi quadri. Giorgio Napolitano è uno dei figli migliori di quella “scuola”.
All’epoca di Botteghe Oscure, poi, le “uscite” pubbliche dei dirigenti comunisti erano rare e ciascuna soppesata col bilancino. Dalle riunioni trapelava poco nulla. I dirigenti parlavano ognuno della materia loro affidata. Napolitano, anche quando il Pci era un colabrodo e si era omologato allo stile dominante del rubinetto delle dichiarazioni sempre aperto, continuava ad attenersi all’antico costume, con quel suo contegno britannico che gli valse soprannome, tra i bottegologi, di lord Carrington. Oggi che è presidente, ha un ritmo oratorio intenso. In certe fasi quotidiano. Non che le sue esternazioni siano irrittuali, non lo sono mai, ma indubbiamente egli non rinuncia a un’occasione per dire la sua, e le sue sono sempre parole di spessore politico: che parli leggendo un testo preparato – scritto da lui stesso, diversamente dai suoi predecessori – o intervenendo a braccio, cosa che fa con la stessa precisione di chi segue uno scritto.
Chi l’ha conosciuto come leader di partito stenta sovrapporre la figura dell’allora su quella attuale. La sua parsimonia verbale era nel costume politico di quei tempi ma, in lui, era anche considerata una riluttanza ad agire a viso aperto da capo di una corrente al Pci e poi del Pds, come di fatto egli era allora del gruppo dei ”miglioristi” (termine aborrito dagli interessati) successivamente catalogati come ”riformisti”. La destra comunista.
Ma, se la frequenza delle esternazioni si è moltiplicata, lo stile è sempre quello. Napolitano ha perfetta consapevolezza del valore e della forza delle parole e, pertanto, le usa congruamente. Nessun collega invidia al suo portavoce, l’ottimo Pasquale Cascella, che deve vedersela con l’esigentissimo presidente e garantire che le sue dichiarazioni, seppure pensate una per una, non siano fraintese o alterate. Cosa che, di nuovo, ai tempi del Pci e del Pds portava sovente Napolitano a lettere di smentita o di precisazione ai giornali che, secondo lui, distorcevano il suo pensiero o, nei pezzi di retroscena, gli attribuivano frasi in cui ovviamente non si riconosceva.

Oggi che può permetterselo più di quando era dirigente politico, sfoggia anche un insospettabile vezzo estetico, nel decorare – ovvio: sempre con grande misura – certi passaggi dei suoi discorsi. Salutando papa Benedetto, in occasione del concerto offerto al pontefice, il 30 aprile scorso, dice che “anche questa sera ci unisce il filo della musica”. E quindi ringrazia l’orchestra e il coro che “nella gentile persona del direttore” “ci fanno sentire come il vasto mondo in cui viviamo si riconosca in un comune retaggio di valori e di espressioni creative“.
Ama, Napolitano, usare termini che possono anche apparire desueti o obsoleti, ma solo perché il vocabolario corrente, quello della politica in particolare, si è ristretto e impoverito. All’epoca del Pci usava spesso termini come “assillo” e “impaccio”, parole che danno l’idea di come i processi politici siano sempre complessi e sofferti. Senza scorciatoie. Oppure l’aggettivo “limpido”, per stigmatizzare l’esigenza di una logica politica. E oggi che è il presidente di tutti gli italiani, “esorta a ricomporre in spirito di verità la storia della nazione, la storia della Repubblica, per giungere finalmente a un comune sentire storico”. Senza che questo significhi rinunciare a “ricordare e lumeggiare“ gli aspetti della storia recente “spesso caduti in ombra“. Esigenza tanto più sentita in una fase in cui – a proposito della nostra democrazia e della Costituzione – si constata “la leggerezza con cui si assumono oggi atteggiamenti dissacranti”.
Il rigore noioso della serietà? Al contrario. Il suo italiano è ricco e attinge a tutti i serbatoi della nostra lingua, il che scongiura di cadere nel politichese, quello sì noioso e irritante. La linearità e la chiarezza dei discorsi di Napolitano li rendono di gradevole ascolto, anche quando entra in territori istituzionali non certo eccitanti, come capita, e capita spesso, a chi ricopre quel ruolo. E poi il presidente, sempre con il suo stile, è capace di levità ironica, come quando saluta la gente dello spettacolo per la cerimonia del Donatello e si rivolge a “un vigoroso rappresentante di una generazione non lontana dalla mia – se non sbaglio i conti – come Paolo Villaggio“ e a Christian De Sica “anche se non siamo sotto Natale ma è un uomo di molte stagioni“.

Immagine di apertura: Il presidente Giorgio Napolitano osserva la nuova edizione digitale del quotidiano Europa, presentata dal direttore Stefano Menichini. Sullo sfondo una rappresentanza della redazione di Europa. Palazzo del Quirinale, 21 febbraio 2013 (USPR)

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