Il caso Prigožin

ENRICO CARONE
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Non credo che Evgenij Viktorovič Prigožin, il capo della milizia russa Wagner, abbia mai assistito alla rappresentazione della trilogia di Friederich Schiller su Wallenstein, uno dei più grandi condottieri militari della storia europea. Sarebbe stato, per lui e la sua carriera di capo militare di un esercito “privato”, di grande utilità e, forse, gli avrebbe evitato una fine cruenta. 

Albrecht von Wallenstein, di famiglia nobile ma povera, si era formato all’Università di Altdorf, e aveva proseguito i suoi studi negli atenei di Bologna e Padova. Iniziò la sua carriera militare nell’esercito dell’imperatore Rodolfo II, combattendo sotto gli ordini del generale mercenario Giorgio Basta. Convertitosi al cattolicesimo, entrò nei circoli esclusivi della nobiltà asburgica.

Un matrimonio fortunato con una ricca vedova gli diede i mezzi per formare il suo primo esercito privato. Ma l’ascesa folgorante del nobile boemo avvenne nella Guerra dei Trent’Anni, che lo vide al servizio del Sacro Romano Impero nella persona dell’Imperatore Ferdinando II d’Asburgo. Le vittorie sulle forze armate della Danimarca e della Svezia lo portarono ad un livello di prestigio, fama e potere personale straordinario. I destini dell’Europa sembrarono dipendere dalla sua volontà e dalla sua forza militare.

Albrecht Eusebius Wenzel von Wallenstein in un ritratto di Jiulius Schnorr von Crolsfeld, 1629m Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Monaco di Baviera.

Come dice Schiller:

Wallenstein è un audace creatore di valorosi eserciti, idolo dei suoi soldati, flagello del paese, sostegno e minaccia per l’imperatore, figlio avventuroso della fortuna…In breve salì ai più alti onori, ma mai sazio, agognando di salire ancora, cadde vittima delle sue sfrenate ambizioni.

Il sospetto che Wallenstein volesse o potesse iniziare negoziati politici autonomi con la Svezia, scavalcando la volontà del sovrano, determinò la sua fine violenta. “Posso agire come voglio, ormai per loro sono e rimango un traditore”. Uomo coltissimo, nobile, convinto e nevrotico seguace della dottrina astrologica, rappresenta quasi l’antitesi umana del nostro “imprenditore” russo.

Prigožin, nato a Leningrado nel 1961 da famiglia ebraica, ha ottenuto un semplice diploma in Atletica Leggera nel 1977. Due anni dopo, ha subito una condanna per furto (esecuzione sospesa) e nel 1981 una condanna penale molto più pesante, dodici anni (scontandone nove), per rapina, frode e induzione alla prostituzione di minori.

Uscito dal carcere, si trova nella Russia di Eltsin, nel pieno fervore della liquidazione delle strutture sovietiche, delle iniziative imprenditoriali e delle privatizzazioni guidate dai “maghi” dell’economia di formazione liberale Anatolij Čubajs e Egor Gajdar, strettamente controllati e indirizzati dai consulenti statunitensi e da USAID, che portarono al collasso epocale dell’economia e della società russa del 1998. Una tragedia sociale di dimensioni inaudite. 

Il trentenne Prigožin sembra trovarsi a suo agio nella San Pietroburgo popolata dagli ex agenti del KGB, dai dirigenti industriali affamati di potere, dalla mafia e dalla malavita più violenta che si maschera da imprenditoria; si impegna nel campo della ristorazione, mentre la moglie sceglie di fondare case di moda, e in breve tempo diventa un caso di straordinario successo. 

Evgenij Viktorovič Prigožin

Conosce Vladimir Putin, e accoglie nel suo ristorante esclusivo i capi di Stato in visita (Chirac e Bush); Putin in breve tempo procura all’ex detenuto contratti straordinari per la ristorazione collettiva delle scuole, di dipendenti pubblici e militari. Prigožin fonda due società, la Concord Catering e la Concord Management, iniziando presto una vivace diversificazione degli investimenti. Da una parte la comunicazione (Internet Research Agency), dall’altra, con la strettissima collaborazione del suo capo della sicurezza e dirigente della Concord, Dmitrij Utkin, nelle attività militari private. Ed è proprio Utkin la chiave della nascita e della crescita della ČVK «Vagner», ovvero PMC Wagner (Private Military Company Wagner). Fino al 2013 Utkin è un tenente colonnello nelle forze speciali del GRU, il servizio di intelligence delle Forze Armate russe, fondato da Lenin nel 1918 e del tutto indipendente dal vecchio KGB e dopo il suo scioglimento, dai suoi eredi, il FSB e l’ SVR. 

Questo è un punto di una certa importanza. Con la caduta della Unione Sovietica, il gruppo dirigente di Eltsin si preoccupò di smantellare il KGB, licenziando e spostando ad altri incarichi tutti i funzionari detentori di qualche potere e soprattutto dividendo dipartimenti e separando funzioni. La debolezza (relativa) delle organizzazioni eredi del KGB, il FSB e l’SVR è misurabile dall’episodio, trasmesso in TV, della pubblica umiliazione alla quale Putin ha sottoposto Sergej Evgen’evič Naryškin, suo fedelissimo ex-presidente della Duma e direttore delle agenzie di spionaggio.

Probabilmente un atto di tale livello di brutalità non sarebbe stato concepibile rivolto a un dirigente del GRU. È peraltro ovvio che la creazione di un corpo militare formalmente “privato” non sia stato possibile senza il consenso dei dirigenti del servizio segreto militare, formalmente dipendenti dal ministero della Difesa, ma assai meno dipendenti dalle variabilità della politica. Il semaforo verde concesso a Prigožin e Utkin per la creazione del loro esercito privato, con il sostegno del presidente Vladimir Putin, è stato certamente acceso dai dirigenti del GRU.

Da una parte, è del tutto chiaro che il modello di milizia privata al quale il nuovo potere della Federazione Russa si ispira è il modello statunitense, dove la Blackwater (ora Academi) e altre centinaia di società private militari assorbono una quota rilevante dello smisurato bilancio militare USA, soprattutto a partire dal conflitto in Irak e in Afghanistan, dove sostituiscono largamente le forze regolari. Dall’altra, nella Federazione Russa, gli eserciti privati sono vietati dalla Costituzione, costringendo la politica e gli imprenditori a sotterfugi (sedi all’estero, ecc.) per non incorrere nei rigori della legge. Sullo sfondo, la crisi profonda dell’Armata Rossa, una volta unica istituzione dello Stato ritenuto degna di fiducia da una opinione pubblica diffidente e ostile ai partiti, ai governi e alle strutture statali. Ora largamente travolta dalla furia della corruzione dilagante.

Quando Vladimir Putin compie l’azzardo estremo dell’intervento militare in Ucraina e autorizza (insieme al ministero della Difesa e del GRU) l’impiego della Wagner, fino ad allora attiva solo in teatri “laterali” (Siria, Libia, ecc.) compie un errore grave. Tutto è permesso in un conflitto armato, tranne l’imposizione di una “duplicità di comando” sullo stesso teatro di guerra. 

Il pianto irrefrenabile di un membro della Wagner per la scomparsa di Prigožin.

La caduta di Evgenij Viktorovič Prigožin inizia quando il suo esercito interviene nel conflitto ucraino insieme all’esercito regolare russo. Forse convinto di detenere un potere quasi assoluto, una copertura totale da parte del GRU e della Presidenza, Prigožin si lascia andare a dichiarazioni sempre più violente contro il ministro della Difesa, Sergej Kužugetovič Šoigu, in carica dal 2012, e contro le autorità militari. Arriva a mostrare in TV i cadaveri dei suoi soldati uccisi nella lunga battaglia di Bachmut, imputando le perdite all’incapacità e al tradimento dei vertici militari russi. Attacca Putin, dichiarando che la NATO non aveva alcuna intenzione offensiva con il progetto di allargamento. Fino a giungere all’abbozzo di assalto, o golpe, il 23 giugno 2023, partito dalla città di Rostov e terminato a pochi chilometri da Mosca, con lo scontro sanguinoso con le forze regolari russe. È un tradimento vero? Rispecchia un accordo con il nemico? Non lo sapremo forse mai; la sola cosa certa è che, a sentire quelle dichiarazioni e ad assistere alla marcia di Rostov, al Dipartimento di Stato, al Quartier generale di Kiev avranno fatto salti di gioia.

L’epilogo avviene nei cieli non lontani da Mosca, quando l’aereo con a bordo lo staff dirigenziale del gruppo Wagner precipita, non è ancora stato chiarito se colpito da un missile o per la esplosione di una bomba a bordo.

L’ultima lettera di Wallenstein in cui chiede aiuto al generale Pappenheim trovata sul cadavere di quest’ultimo dopo la battaglia di Lützen

Ma torniamo a Schiller. Non per tentare un raffronto con Wallenstein che risulta del tutto impossibile. Le battaglie vinte dalla Wagner nelle acciaierie di Azov e a Bachmut nulla hanno a che vedere con le battaglie vinte da Wallenstein durante la Guerra dei Trent’Anni, che hanno ridisegnato la geografia europea. Nulla accomuna i due uomini. Forse Wallenstein non fu nella realtà quello che Schiller (con l’aiuto di Goethe) ha voluto rappresentare. L’ansia e il desiderio della libertà, il senso incombente del destino, il potere degli astri. Ma certo non fu l’uomo rozzo assetato di danaro, spietato e cinico fino agli estremi, più somigliante a un personaggio della serie TV Gomorra (Ciro l’Immortale o un Savastano) al quale è possibile associare la figura di Prigožin.

Tuttavia due sono le considerazioni che troviamo nel terzo dramma di Schiller che possono efficacemente essere citate nella vicenda dell’imprenditore russo.

La prima riguarda il carattere relativo di ogni forza. Di fronte alla potenza oggettiva dell’autorità, consacrata dalle istituzioni, dalla storia, dai simboli, dal consenso (ristretto o esteso che sia), la potenza di un esercito privato soccombe. Di fronte a un esercito privato, se contrapposto a un esercito statale, non esiste solo la tecnicalità delle armi e della loro disposizione sul teatro di guerra.

La seconda riguarda il tradimento. “Se resta un progetto, è un volgare delitto, se si compie è un gesto immortale e, se riesce, è a un tempo perdonato, perché ogni riuscita è un giudizio di Dio” (Schiller).

Ma una volta che il tradimento o anche solo l’intenzione del tradimento venga alla luce, non esiste la via del ritorno. Non esiste mediazione possibile, nessun Lukashenka potrà fermare l’inesorabile meccanismo del destino. Wallenstein (nelle parole di Schiller) lo esprime compiutamente:

Agli occhi di tutti sono colpevole e, comunque agisca, non posso discolparmi, ché la doppiezza della vita mi condanna e il sospetto mi avvelenerà, male interpretando persino l’azione onesta nata da pia intenzione. Se fossi stato quel traditore per cui mi si ritiene, avrei salvato le apparenze, mi sarei cinto di un fitto velo e non avrei permesso al mio malanimo di rivelarsi. Cosciente invece della mia innocenza, della mia incorrotta volontà lasciai esalare il mio dispetto, la mia passione, e fui ribelle a parole quanto non ero nei fatti. Adesso ciò che è accaduto per caso essi me lo addebiteranno come azione premeditata e lungimirante e da ciò che nel traboccar del cuore e sdegno e ironia mi spinsero sulle labbra, essi ricaveranno un artificioso tessuto di tremenda accusa. Davanti alla quale dovrò ammutolire. Così mi sono rovinosamente impigliato nella mia stessa rete e solo con la violenza mi sarà dato strapparla.

Così la ragione della fine di Prigozin.

Per quante ricerche abbia fatto, non sono riuscito a trovare un legame parentale tra Evgenij Viktorovič e il grande Il’ja Romanovič Prigožin, fisico e chimico, premio Nobel per la chimica nel 1977 e premio Solvay per la fisica dei sistemi complessi ed i processi irreversibili. Una delle figure più luminose della scienza contemporanea.

Il caso Prigožin ultima modifica: 2023-09-22T13:03:21+02:00 da ENRICO CARONE
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