È tranquilla la vita delle autorità monetarie in Occidente (ma non solo)? Sempre meno. Anzi si può lecitamente dire che sono lontani gli anni dell’epopea dell’autonomia e dell’indipendenza delle banche centrali che in Italia prese avvio nel 1981 con la lettera dell’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta a Carlo Azelio Ciampi al tempo governatore di Bankitalia. Erano i primi passi del divorzio tra entrambe.
In realtà questa “lettera” – anche conseguenza della precedente adesione allo SME (a differenza dell’euro fu un accordo di stabilità dei cambi) – segnò un evento simbolico senza che a lungo seguisse alcun atto normativo. Insomma, la fine voluta da Andreatta del “patto” che vincolava Palazzo Koch a comprare residualmente i titoli invenduti nelle aste di Stato. Fu la presa d’atto del Palazzo che l’inflazione poteva andare fuori controllo.
Così lo Stato almeno dichiarava di rinunciare all’imposta da inflazione (prelievo mascherato che agì come fiscal drag sul lavoro facilitato dagli scatti all’insù dei redditi via scala mobile). In realtà dopo la “lettera” poco successe fino al 1992 (DPR 18.7.1992, in modifica dell’art. 25 dello Statuto della Banca d’Italia) quando infine il Tesoro perse la prerogativa di fissare il tasso di sconto. Nondimeno il1981 è anno di svolta.
Perché allora l’aria stava cambiando ovunque. Di necessità, a partire dagli Stati Uniti, per il loro peso negli affari monetari. Suo protagonista prima scelto da Carter poi confermato da Reagan fu Paul Volcker come 12° Presidente della Federal Reserve (FED) dal 1979 al 1987. Questi impose una dura disinflazione sulla cui scia si attestarono altre Banche Centrali (BC). Favorita dal ridursi della “domanda d’inflazione” di politica e opinione pubblica.
La “lettera” di Andreatta annuncia un nuovo paradigma di politica economica. Gli effetti dello shock del petrolio del 1973, della forte conflittualità sociale nonché della fine dei tassi di cambio fissi di Bretton Woods (esiti del costo della guerra in Vietnam senza ricorrere alla finanza di guerra) spaventarono i governi. Ciò li portò ad accettare la separazione tra politica di bilancio e monetaria. Iniziava una fase di de-politicizzazione della moneta.
Che ora potrebbe essere al tramonto. Certo è che adesso le classi politiche hanno altri timori prioritari. Anzi dubitano che il rigorismo monetario li acuisca. Così sottovalutando ciò che il sociologo Luhmann (Niklas Luhmann, I diritti fondamentali come istituzione, Edizioni Dedalo, Bari, 2002) ci ricorda affermando che la stabilità della moneta ha una precisa funzione la cui alterazione può essere altamente disfunzionale.

Infatti lo studioso scrive che
L’istituzione giuridica delle banche centrali autonome è correlata alla problematica del mantenimento di una separazione e di una fa da scudo significativa interdipendenza tra Stato ed economia, tra potere politico e denaro.
Logico perché la credibilità della moneta è tra i fulcri del funzionamento di un’economia di mercato. Nondimeno il XXI° secolo nasce con l’incrinarsi di questa “fede monetaria”.
Che è alla base della BCE, istituita il 1° giugno 1988 all’apogeo di questa “filosofia monetaria”.
Infatti normativamente la esprime al massimo. Tant’è che a fare da scudo ad autonomia e indipendenza dell’Eurotower c’è un Trattato internazionale. Significa che le condizioni per modificarne la posizione – la volontà di tutti gli Stati partecipanti – sono proibitive. Coerentemente le è precluso il finanziamento monetario diretto di questi.
Teoricamente un castello senza ponti levatoi per la politica. Una visione certo legata alla tradizione tedesca di lotta all’inflazione nonché influente nello scambio politico per portò alla nascita della BCE. Ma difficilmente l’assetto di questa sarebbe stato così rigoroso senza il già citato Volcker e la sconfitta culturale di un’illusione economica diffusa negli USA degli anni Sessanta del XX° secolo. Ovvero di poter scambiare più inflazione con più occupazione.
Il dosaggio tra le due grandezze fallì e la curva di Phillips, che teorizzava questa correlazione, finì in soffitta. Colpo mortale a essa lo portò la stagflazione (il perverso intreccio di inflazione e recessione). Tuttavia le tempeste del XXI° secolo in parte hanno riportato l’orologio della politica monetaria alla seconda metà del XX°. È tornato perciò il tempo di politiche monetarie ultra espansive a sostegno delle finanze pubbliche.
È la ri-politicizzazione di fatto della politiche monetarie significativamente chiamate “non convenzionali”. In Eurozona tali sono per la BCE l’APP (Asset Purchase Programme) che è un programma di acquisto di titoli pubblici e privati in via di riduzione e il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme) analogo al primo per operatività sui mercati che però dovrebbe continuare almeno per tutto il 2024.

A loro giustificazione, all’alba del nuovo secolo, emerse il timore di una spirale deflazionista (Angelo Baglioni, Le frontiere della politica monetaria, Hoepli, 2021, p. 43) nonostante la molta liquidità presente nei mercati. All’opposto sia il ripiegare della globalizzazione che la “deflazione demografica” (seppure come effetto di lungo periodo) hanno rotto l’incantesimo di poter avere assieme molta liquidità e prezzi bassi.
Ciò dovrebbe riportare le lancette dell’orologio della politica monetaria al “paradigma Volcker”. Il rischio è il ripetersi dell’illusione dell’albero delle monete d’oro del Gatto e la Volpe di Pinocchio: spesso illusioni da apprendisti stregoni. In ragione di ciò l’economista Bruni ci ricorda che un’espansione monetaria da tassi a 0 o meno logora la credibilità delle BC come garanti della moneta (Franco Bruni, Oltre le Colonne d’Ercole, Egea, 2023).

Da un punto di vista politologico si può parlare per le BC di “sovraccarico funzionale” (Luca Lanzalaco, Banche Centrali e politiche monetarie nell’era della finanza globale, in AAVV, Le Banche Centrali prima e dopo la crisi, ATI Editore, 2019). Nel senso che l’apparente loro centralità ora le espone alla domanda di stabilizzare con la moneta sia crisi economiche che conseguenze destabilizzanti di crisi geopolitiche.
Difatti crisi dei subprime, epidemia, guerra in Ucraina, ridefinizione “spaziale delle catene globali del valore hanno spinto gli Istituti centrali a supportare i governi comprandone i debiti facendo esplodere i bilanci delle BC. Ciò dà loro un potere apparente che di fatto crea dipendenza dai governi. Inoltre le indebolisce pure sovraesponendole a critica pubblica. Di fatto è la piena ripoliticizzazione delle autorità monetarie.

Tutto ciò richiama alla mente le considerazione di un importante Governatore di Bankitalia Carli (Guido Carli, Intervista sul capitalismo italiano, Bari, 1977). Che individuava ieri e vale oggi un limite politico all’indipendenza del Banchiere centrale nel suo obbligo a evitare di apparire “sovversivi“ rispetto all’equilibrio politico. La difficoltà è nel trovare un equilibrio specie oggi in mercati abituati a tassi 0 (origine di “bolle”).

La politologa Moschella (Manuela Moschella. Inflazione, politica e Banche Centrali, il Mulino, 3/23) ci ricorda che al di là delle norme (persino le “forti” che proteggono la BCE) l’indipendenza delle Autorità monetarie dipende pure molto dal consenso (che è una risorse scarsa e logorabile) di politica e opinione pubblica. Indebolito dalla perdita di credibilità per la crisi dei subprime e l’iniziale sottovalutazione della “nuova” inflazione.
Il fatto è che le BC sono “suscettibili al contesto politico e sociale nel quale operano” (Moschella, ivi, p.87). Ora il “paradigma Volcker” egemone negli anni Ottanta del Novecento perde terreno. Significa che per quanto le BC possano essere indipendenti, a ogni modo, poi, le loro politiche monetarie convenzionali e le non-convenzionali devono tenerne conto. Specie ora che altri temi si antepongono all’inflazione.
L’approccio (molto stilizzato) dell’incoerenza temporale (sul suo rilievo Tommaso Monacelli, Le sirene della Teoria monetaria moderna, Lavoce.info, 4,01, 2021) postula che l’unità di governo e autorità Monetaria rende poco credibili gli annunci antinflattivi difatti poi negati nell’azione. Di qui la proposta di una loro separazione per avere la BC autonoma e con credibile delega antinflattiva. Ma è proprio questa credibilità ora in dubbio.
Da un punto di vista teorico appare la rivincita dell’approccio del Public Choice “scettico” sul Banchiere centrale. Una burocrazia che nasce “dalle esigenze degli Stati a procurarsi moneta alternativamente al ricorrere alla fonte del prelievo fiscale, con emissioni destinate a creare inflazione“ (Giacomo Bosi, Diritto monetario, il Mulino, 2023).

È una lettura che postula una forte avversione al rischio – una sorta di reinterpretazione di Hobbes come avversione al Rischio (Geoffrey Brennan, James M. Buchanan, La ragione delle regole, Franco Angeli, 1985) – che spinge nelle difficoltà le burocrazie monetarie e la politica ad autotutelarsi colludendo. Infatti il Public Choice ha forti preferenze per il free banking.
È anche una spiegazione “politica” del protrarsi forse troppo a lungo dei vari Quantitative Easing. Ciò fa emergere un problema di democrazia. Uno ulteriore, date le molte difficoltà che tali sistemi politici hanno. Perché esiste una interrelazione negativa tra valori democratici e inflazione lasciata libera di correre. Questo perché la corsa dei prezzi maschera i costi di decisioni pubbliche e i suoi effetti redistributivi.
Infatti l’inflazione dà al Governo la possibilità di acquisire risorse senza ricorrere al fisco (a costo di consenso nullo) alterando i rapporti tra organi dello Stato (Esecutivo e Legislativo) e coi cittadini votanti/contribuenti. Però le imposte ci sono mascherate come accadeva nell’Italia inflazionata degli anni Settanta del Novecento. Come detto fiscal drag sul lavoro e prelievo sui titolo del debito pubblico (differenza tra inflazione e interessi ricevuti).

Non a caso un libro che approfondisce queste tematiche (Giovanni Pittaluga, Giampiero Cama, Banche Centrali e democrazia, Hoepli, 2004) pone come incipit le parole di un grande governatore di Bankitalia (Paolo Baffi). Pronunciate in occasione delle Considerazioni del 31 maggio 1976 àncora l’azione del Banchiere centrale ad un fondamentale principio democratico.
Così dunque Baffi:
Esso si compendia nella massima: No taxation without representation. Il principio è violato dall’inflazione, che pone in atto nella nostra società un meccanismo redistributivo gigantesco e interamente arbitrario. In una visione di legittimità democratica quel principio investe l’Istituto di emissione del diritto-dovere di farsi assertore della difesa monetaria.

Impossibile dire meglio sulle sfide che il Banchiere centrale deve reggere. Compreso il necessario saper mediare tra opposte esigenze talvolta brutalmente contrapposte quali governo della liquidità e stabilità finanziaria e dunque politica. Evidenziata dalla filosofia del “whatever it takes” di Mario Draghi. In ragione di ciò quella del Banchiere centrale è arte in senso alto. Ancor più in questo difficile inizio di XXI° secolo.

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