Ci furono l’ormai quasi leggendario Guido Pannain, poi Massimo Mila e Giorgio Pestelli, ci fu anche Matteo Marangoni, illustre critico di arti visive ma anche musicologo, esperto conoscitore della musica e delle invisibili figurazioni musicali, forse emotivamente più ‘contundenti’ proprio perché non passano attraverso il filtro della vista. Ci furono, e ci sono, il ‘brahmsiano’ critico e compositore Giovanni Bietti ed Enrico Fubini ed ancora Guido Zaccagnini. Me nessuno di questi grandi musicologi e critici sembra mai aver dedicato più di trenta righe (ad esser generosi) ad un musicista francese attivo tra l’Ottocento e il Novecento di cui, tuttavia, gran parte di noi conosce bene almeno due o tre dei suoi brani per pianoforte. Parliamo di Erik Satie (chiamato anche scherzosamente Erotik Satie per quell’indubbia coloritura sensuale che si nasconde tra le note dei suoi spartiti). Sembra quasi che si sia preferito sottolineare il suo aspetto fisico (“orrendo” e “nano”, lo definì Stravinski), il suo carattere bizzarro, eccentrico e stravagante, le sue manie, peraltro non nocive, come la sua passione per gli ombrelli (ne possedeva a centinaia ma non li usava per “il timore che si potessero bagnare”), la sua adesione alla massoneria e quindi la creazione di una Chiesa autonoma (l’Eglise Métropolitaine d’art et de Jesus conducteur, della quale peraltro era l’unico membro). Eppure…

Eppure Erik Satie, che si guadagnava da vivere suonando il pianoforte di sera nei cabaret di Montmartre, fu un elemento di rottura nel panorama musicale francese a cavallo del Novecento, che si guadagnò rispetto ed amicizia da parte di Claude Debussy (il quale ne orchestrò diverse opere scritte per piano solo) e l’ammirazione di Camille Saint-Saens. Ma anche, seppur solo in un primo tempo, del Gruppo dei sei (di cui facevano parte tra gli altri Francis Poulenc e Arthur Honegger) che si allontanarono anche dal simbolismo impressionista di Debussy per esplorare nuovi sentieri musicali soprattutto in seguito all’influenza che su di loro esercitò Igor Stravinsky. Il Gruppo dei sei, del quale Satie non fece mai parte, chiuse definitivamente con il post-romanticismo e il simbolismo-impressionista aprendo la strada alla rivoluzione musicale del Novecento e al surrealismo (les sur-realistes) anche nelle arti visive. Ai suoi musicisti si avvicinarono molti nomi, anche delle arti figurative, destinati ad un futuro glorioso, come Picasso, Picabia, Schönberg e Cocteau. In un primo tempo amico di Claude Debussy, Satie si allontanò da lui dedicandosi alla sua musica e alla polemica quotidiana contro il “perbenismo” e il “conformismo” della musica francese che navigava ancora sull’onda dei successi internazionali di Bizet e Ravel.

Il suo carattere così sgradevole, sempre in lotta con l’“universo mondo”, era in netta contrapposizione alla dolcezza sognante delle sue Gymnopédies, delle sue Gnossiennes (neologismi che alludono ad asserite feste e celebrazioni dell’antica Grecia). Era un uomo che potremmo definire, e ci si passi l’espressione, affetto da un “bipolarismo creativo e caratteriale”. E poi, sebbene quasi ignorato da molti critici di oggi, il suo è un esempio di come la musica classica possa inserirsi anche in un racconto cinematografico, come una parentesi, come un ponte musicale che unisca due parti dello stesso film.
Al riguardo, ci viene in mente Il velo dipinto (The painted veil) tratto dall’omonimo romanzo di Somerset Maugham. Il raffinato disincanto dello scrittore inglese si avverte in tutta la pellicola e si traduce musicalmente nella prima delle Trois Gymnopédies di Satie che nel film viene suonato dalla bella attrice Naomi Watts per poco più di due minuti. Nessuna musica, forse, era più adatta del brano di Satie per illustrare quel senso di malinconica nostalgia che pervade l’intera storia, nostalgia “delle cose che avrebbero potuto essere e non sono state”, come diceva il crepuscolare Guido Gozzano.

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