Giorgio Napolitano. Solo alla meta

Emerge come un politico vincente. Ma la sua è una vittoria tragicamente solitaria. Dietro di sé non c’è più quasi nulla. Certamente non esiste un luminoso partito socialdemocratico capace di moderare, pur nell'accettazione della sudditanza al dominus statunitense, le asprezze e le ineguaglianze proprie del capitalismo globalista.
ENRICO CARONE
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Personalità complessa quella di Giorgio Napolitano. Da ogni punto di vista. Sotto il profilo umano, quello politico. Al centro della sua personalità si pone il “controllo”, quella qualità che Curzio Malaparte volle chiamare “atarassia”. Espressione e risultato di una volontà definita di padronanza razionale degli eventi e delle emozioni, un’attenzione estrema per ogni particolare, una memoria fuori dell’ordinario.

Non sono certo qualità innate, ma il risultato di un’educazione e di uno sforzo costante, faticoso, come si può ben capire dalle numerose occasioni nelle quali Napolitano in tarda età, con le forze mancanti, ha ceduto alla commozione.

L’adesione al Partito comunista avviene in giovane età, appena ventenne, in contrasto con la volontà paterna, prima della laurea in Giurisprudenza.

È molto probabile che l’imposizione di una forma molto spinta di autocontrollo sia stata indotta dalla durezza delle condizioni di vita e di relazioni sociali esistenti nella realtà comunista del dopoguerra. È certo il partito di Giorgio Amendola, di Massimo Caprara, di Maurizio Valenzi, ma è soprattutto la realtà di duri e sospettosi stalinisti usciti dalle persecuzioni fasciste, che avranno in Salvatore Cacciapuoti un emblematico rappresentante.

Le vicende del partito napoletano sono contrassegnate da intolleranze, imposizioni, tradimenti. Ne fanno le spese i giovani dissidenti del “Gruppo Gramsci”, brillanti giornalisti come Renzo Lapiccirella, come Francesca Spada (che morirà suicida, come il giovane Guido Piegani).

Il giovane Napolitano viene scelto da Amendola (e da Togliatti) per far parte della nuova generazione di dirigenti del Partito Nuovo. Dopo una “rituale” esperienza di direzione in una struttura di base a Caserta, a soli 28 anni entra in Parlamento. Rimarrà sempre fedele al legame politico con Amendola, al suo riformismo, senza peraltro partecipare direttamente agli scontri frontali ingaggiati dal suo padre politico.

È dalla data del XX Congresso del PCUS, con la rivelazione dei crimini dello stalinismo, e con la repressione armata della rivolta ungherese che il gruppo di Amendola, Napolitano, Chiaromonte e Macaluso iniziano a sviluppare una linea politica che solo in parte si può riconoscere nella via italiana al socialismo di Togliatti. 

Si tratta, nella sostanza, di un radicale rovesciamento di fronte e di convinzioni. Anche se non tutto è reso esplicito. La prospettiva, ora, per i riformisti diviene l’Occidente e la componente socialdemocratica che in esso agisce. 

I punti cardinali sono redatti dalla svolta di Bad Godesberg della socialdemocrazia tedesca. Abbandono del marxismo, accettazione della Nato, sì al capitalismo magari con meccanismi di moderazione, no alla conquista del potere attraverso un processo rivoluzionario, rappresentazione di tutti i ceti sociali e non della classe operaia e contadina.

La componente riformista del Pci si trova tuttavia di fronte a un muro che appare invalicabile: cosa fare per convincere un milione e mezzo di uomini e donne che hanno dato il loro consenso a un partito che si era formato e sviluppato su una piattaforma quasi esattamente opposta. La soluzione fu semplice: nulla. Nessuno di fatto propose una Bad Godesberg italiana. Il dibattito venne confinato, opportunamente cifrato, all’interno del ristretto circolo dei gruppi dirigenti.

Giorgio Napolitano con il leader rumeno Nicolae Ceausescu nel 1974, durante gli anni della sua attività di responsabile esteri del Pci.

Allo stesso tempo, si iniziò, e Napolitano ebbe un ruolo fondamentale in questo, a tessere una tela che portasse a dei fatti compiuti. In primo luogo gli Stati Uniti. Come per tutti i partiti socialdemocratici europei, il riconoscimento della sudditanza politica, militare, economica e culturale costituiva una premessa per l’accesso alla direzione dei rispettivi paesi. Questo in primo luogo per i paesi, come la Germania e l’Italia usciti dalla sconfitta militare della Guerra. In forma più sfumata per gli altri.

Napolitano pazientemente tesse una tela che lo porterà a essere di fatto il punto di riferimento obbligato per ogni dialogo dell’amministrazione USA con i comunisti italiani. Ben noti i suoi cicli di conferenze nelle università statunitensi, la traduzione (più tardi) della sua intervista con Eric Hobsbawm.

Il secondo teatro di attività è l’Europa, dove la forza egemone delle organizzazioni socialiste e socialdemocratiche può costituire un polo di attrazione per trascinare il più grande partito comunista europeo nell’alveo dell’Occidente, sottraendolo all’influenza sovietica.

Sostanzialmente indifferenti ed estranei ai movimenti del ’68, che colpirono l’egemonia del cattolicesimo controriformista nella vita sociale e politica italiana, i riformisti di Amendola e Napolitano seppero anche evitare che l’indignazione per l’intervento americano in Vietnam soffocasse il loro progetto di avvicinamento.

Dopo l’elezione di Enrico Berlinguer alla segreteria del Pci, la divaricazione delle linee politiche seguite dalla maggioranza del partito e della sua componente riformista si accentuò.

Dal “dialogo con i cattolici”, dopo il colpo di stato in Cile, il Pci si volse al progetto di un’alleanza con la Democrazia Cristiana di Aldo Moro, nella cornice di un “Compromesso storico”, con il comune obiettivo di sbloccare e allargare il meccanismo democratico, permettendo a milioni di elettori comunisti di partecipare alla direzione della cosa pubblica.

Il progetto dei riformisti (che tuttavia, anche se in minoranza, lavorarono alla linea berlingueriana) era piuttosto quello di stabilire forme di unità con i socialisti e i socialdemocratici, chiudendo la storia della scissione di Livorno e contendere il primato elettorale alla Dc e agli altri suoi alleati.
Fallirono tutte e due. Per la stessa medesima ragione. Qualcuno si mise di traverso ed eliminò gli interlocutori del Pci.

Rapito e assassinato Aldo Moro, il compromesso storico evaporò.

Il Psi venne a sua volta dissolto da un uso particolarmente vivace e disinvolto del codice penale.

Si arriva così, nel vuoto generale di prospettive, al fatidico ’89, alla caduta incruenta dell’Unione Sovietica, allo scioglimento unilaterale del Patto di Varsavia.

In Italia, alla svolta della Bolognina di Achille Occhetto. Nell’occasione Napolitano prende una decisione di notevole intelligenza. Comprende che l’operazione di massimo azzardo compiuta costituisce una straordinaria opportunità.

Antonio Rubbi, Giancarlo Pajetta, Giorgio Napolitano a piazza del Popolo 1987.

Occhetto di fatto chiude con una cesura netta la storia del Novecento del socialismo italiano e apre una pagina nuova. Ma bianca. Chiamando tutte le componenti di sinistra, di destra, socialiste e socialdemocratiche, cattoliche e ambientaliste a costruire una nuova realtà. Riconoscendo onestamente che allo stato delle cose: ”La sinistra non è la soluzione. La sinistra è il problema”.

Si tratta effettivamente di una svolta, di un vero “reset”. 

Napolitano, dopo una breve esitazione, decide di appoggiare l’iniziativa, la chiusura del Pci, vincendo la diffidenza per la decisione improvvisa, non dibattuta negli organismi dirigenti, filtrata dai consueti processi di mediazione interna. Immagino che avrà pensato alla massima di Amendola, secondo la quale: “Non vince mai il più forte. Vince sempre il meno debole”.

Per i riformisti il rischio era costituito dal fatto che il nuovo statuto del Partito democratico della sinistra fosse declinato proprio a sinistra (secondo le intenzioni esplicite del segretario), mantenendo intatti i pilastri dell’antimperialismo, dell’opposizione al modello di produzione capitalistico, e via dicendo.

Nessun rischio. Praticamente tutte le componenti della sinistra, da Ingrao a Bassolino, da Tronti ad Asor Rosa e Cacciari, dai socialisti a Cossutta seppero solo opporsi, senza saper emettere un vagito di progetto politico, senza essere capaci di disegnare neppure uno scarabocchio su quella pagina bianca.

Achille Occhetto e Giorgio Napolitano a Washington, maggio 1989

Dopo le dimissioni di Occhetto, che aveva portato il Pds, con l’aiuto di Napolitano, nell’Internazionale Socialista, s’instaurò il piano inclinato D’Alema-Veltroni che porterà alla partecipazione a vari governi della Repubblica e infine, nel 2007, per la volontà imitativa del kennediano Veltroni, alla cancellazione della parola “Sinistra”.

Ma per Giorgio Napolitano con la fine del Pci si apre lo spazio delle istituzioni repubblicane.

Presidente della Camera (1992-1994), ministro dell’Interno (1996-98). Europarlamento (1999.2004), infine la Presidenza della Repubblica (2006-2015).

Un percorso politico vittorioso. Raggiunto l’apice delle istituzioni democratiche, esercitando un potere reale disposto dal Parlamento.

L’analisi di merito delle sue decisioni e comportamenti nell’esercizio delle sue funzioni è stato oggetto, anche nei giorni del lutto, di dibattiti e contrasti, di accuse e difese. 

Interessa, in questa sede, porre in luce solo la seguente contraddizione: Napolitano emerge come un politico vincente, senza alcun dubbio. Ma la sua è una vittoria tragicamente solitaria. Dietro di sé non c’è più quasi nulla. Certamente non esiste un luminoso partito socialdemocratico capace di moderare, pur nell’accettazione della sudditanza al dominus statunitense, le asprezze e le ineguaglianze proprie del capitalismo globalista. Il senso del declino e dello sciattume che accomuna settori della destra estrema e del populismo grillino hanno fissato la sua immagine commossa nell’ultimo discorso rivolto alle Camere riunite.

Immagine di copertina: Il compagno Napolitano cameriere a una Festa dell’Unità

@macampoansa

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#Napolitano cameriere in una Festa dell’Unita’. ⁦⁦

@ValeSantarelli

Giorgio Napolitano. Solo alla meta ultima modifica: 2023-09-25T14:04:14+02:00 da ENRICO CARONE
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