Gentile, Donadoni e una certa idea d’Italia

ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Donadoni e Gentile sono due personaggi diversi, diversissimi fra loro. Centrocampista offensivo il primo, roccioso difensore il secondo, icone del Milan di Sacchi e di Capello l’uno, simbolo della Juve trapattoniana l’altro, eppure ad accomunarli ci sono due aspetti. Innanzitutto, gli anniversari: Donadoni ha compiuto, di recente, sessant’anni, Gentile settanta. E poi il carattere: positivo, corretto, se necessario anche sanguigno, sicuramente inadatto al calcio e alla società di oggi, così innamorata dei sotterfugi, dei personaggi senza spina dorsale e delle apparenze. Donadoni e Gentile, al contrario, sono due figure che hanno sempre anteposto la sostanza a ogni altro aspetto, anche se i loro ruoli in campo erano quasi antitetici. Il fuoriclasse milanista ha acceso la luce in tante domeniche e in tanti mercoledì del Diavolo, ad esempio il 19 aprile dell’89, a San Siro, nel memorabile 5 a 0 contro il Real Madrid, quando quel genio del centrocampo si inventò una prestazione da stropicciarsi gli occhi, mandando fuori di testa un avversario tanto prestigioso quanto, quella sera, paralizzato dalla paura. Il satanasso juventino, soprannominato “Gheddafi” per il suo essere nato in Libia, era invece un marcatore di quelli tosti, capace di annullare Maradona, di fare impazzire i brasiliani nel pomeriggio infuocato e indimenticabile del Sarriá di Barcellona e di costituire una diga davanti a Zoff, sia in bianconero che in azzurro, rappresentando il perno di una difesa pressoché imperforabile. 

Entrambi hanno tentato la carriera da allenatori, arrivando anche ad assaggiare la panchina azzurra, ma entrambi si sono dovuti scontrare con la realtà contemporanea, caratterizzata da una discreta confusione sui valori. Claudio Gentile lo ha spiegato spesso, a modo suo, con lo stile diretto che lo ha sempre contraddistinto, lasciando trapelare tutta la sua amarezza per essere stato di fatto accantonato dopo aver condotto l’Under 21 sul tetto d’Europa nel 2004, firmando alla sua maniera l’ultimo momento di gloria di una rappresentativa che negli anni Novanta era stata egemone e che ha contribuito in modo decisivo a formare il telaio della Nazionale che Lippi ha condotto al trionfo mondiale nel 2006. Tra quei ragazzi c’erano anche i De Rossi e i Gilardino, ossia i frutti migliori della selezione di Gentile, da lui aiutati a crescere e a maturare. Guarda caso, da quando se n’è andato lui, non solo l’Under 21 ha spesso deluso ma la Nazionale maggiore è sprofondata, rimediando i risultati che ben conosciamo. 

Donadoni, dal canto suo, ha allenato l’Italia del dopo Lippi, dovendosi arrendere, all’Europeo del 2008, alla Spagna di Luis Aragonés, all’inizio del ciclo che in quattro anni l’avrebbe portata a vincere due edizioni della suddetta competizione e il Mondiale in Sudafrica nel 2010. Era una gran bella Italia, la sua, con i “berlinesi” ancora in discreta forma, il redivivo Panucci in difesa, accantonato da Lippi per antichi rancori ma sempre in grado di garantire certezze e prestazioni di alto livello, e una nuova generazione pronta al decollo. Il percorso si interruppe ai quarti di finale di quell’Europeo, tornò Lippi e, purtroppo, fallì clamorosamente la sua seconda avventura sulla panchina più delicata che esista, almeno nel nostro Paese. 

Da quel momento, dei due se ne sono quasi perse le tracce, e i risultati sono sotto gli occhi di chiunque. Oggi li celebriamo come reduci, superstiti di una stagione che non esiste più, di un tempo perduto, di un calcio all’insegna della passione e della gioia, di una certa idea d’Italia che è anche la nostra ma, purtroppo, di questi tempi, è fuori moda. Non sappiamo se torneranno. Sappiamo, però, che non siamo i soli ad averne nostalgia. 

Gentile, Donadoni e una certa idea d’Italia ultima modifica: 2023-10-02T18:44:18+02:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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