Ma la regìa del ribaltone è a Palazzo Chigi

La minaccia di andare alle urne, agitata da Giorgia Meloni, è in realtà un calcolo politico su cui ragionano la PdC e la sua squadra.
GUIDO MOLTEDO
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Ribaltone, governo tecnico… Perché se ne parla? Chi ha messo sul tavolo la riedizione di uno scenario Monti o Draghi? Il circuito mediatico-politico s’è eccitato, se n’è scritto, se n’è parlato, ma alla fine il soufflé s’è sgonfiato. L’ennesimo fuoco di paglia di un teatrino della politica che sembra la parodia di quello della prima repubblica e di quelle seguenti?

In realtà, l’ipotesi va presa sul serio, non perché potrebbe avverarsi, ma per le reazioni che ha suscitato e che autorizzano a immaginare, dietro la diffusione di queste balle, ci sia lo zampino di chi dovrebbe essere la vittima della macchinazione tecnocratica, con regia europea, volta a liquidare il governo in carica: Giorgia Meloni stessa.

Giorgia Meloni ha singolarmente commentato queste voci, come rivelassero effettive manovre in atto: “Un governo tecnico? Dopo di noi le elezioni”.

Il tema, dunque, non è quello di un eventuale governo tecnico ma quello di elezioni anticipate possibili.

Il prossimo anno si vota per le elezioni europee. La tentazione di associarle a elezioni politiche anticipate è forte nella cerchia ristretta della PdC. Il logoramento della sua figura non ha ancora prodotto conseguenze serie, ma va avanti e si fa vistoso. Iniziare il prima possibile una campagna elettorale che abbia al suo centro Meloni stessa, una sorta di referendum su di lei e sulla sua leadership, può essere la risposta in grado di fermare il processo di logoramento, destinato evidentemente ad aggravarsi in presenza di problemi di enorme portata, di fronte ai quali la sua stessa maggioranza, che da tempo mostra vistose dissonanze, fa fatica a reggere con la coesione richiesta.

La bizzarra idea di un governo tecnico, quando in parlamento c’è una maggioranza ampia a sostegno dell’esecutivo in carica, può tuttavia riprendere forza, opportunamente alimentata, in presenza di nuove scintille politiche nella stessa maggioranza, e soprattutto di fronte ai ruggiti dei mercati e alle ansie dei Palazzi europei al cospetto di un governo incompetente e allo sbando.

Può anche bastare un pretesto per rompere pramaturamente la legislatura e andare al voto. Intanto il terreno è pronto per un simile colpo di scena.

Nei calcoli di chi, nella cerchia della PdC, preme per il voto anticipato ci sono sia l’analisi della situazione interna al centrodestra, sia soprattutto l’analisi della situazione nel centro-sinistra e nella sinistra-sinistra.

Lo spaesamento, dopo la batosta della sconfitta elettorale dello scorso anno, rende il principale partito dell’opposizione balbuziente, prevalentemente ripiegato su se stesso, alla ricerca di un’identità nuova, ma costretta a pescare nel vintage del repertorio di epoca Pci, e di priorità programmatiche che non solo non maturano ma continuano a essere subalterne a processi interni di posizionamenti e di conflitti, in presenza di una leadership che fatica ad affermarsi.

Conte e i 5 stelle sembrano intanto prevalentemente assillati da un ansioso processo di ridefinizione della loro collocazione politica e del loro ubi consistam politico-culturale. Non sono più i 5 Stelle delle origini. Stentano a diventare il partito personale di Conte. Che cosa sono? Che cosa vogliono? Quanto valgono così come sono nel “mercato” politico?

Centristri e sinistra radicale sempre più sembrano legare le loro sorti a quelle delle forze più grandi, in bilico tra il rosicchiamento di consensi nei loro campi e la speranza di essere aggregati a qualche forma di alleanza politica ed elettorale in cui far valere le loro sempre basse cifre di consenso.

Nel centrodestra e nella destra, il potere non è stato finora un elisir per ridare vigore e rilanciare le sorti di forze ormai del passato come la Lega e Forza Italia. Matteo Salvini si dimena, si muove scompostamente come un calabrone impazzito non tanto perché è in competizione con Meloni, quanto soprattutto perché non controlla il suo partito, è sotto attacco sia da parte dell’ala governista e pragmatica – ministri, presidenti di Regione, sindaci, amministratori – sia da parte dell’ala del partito delle origini, ancora molto autonomista se non secessionista, e molto contrariata dal nulla di fatto sul fronte dell’autonomia differenziata, mentre i nuovi arrivati in Lega, del Centro Sud, si sentono sempre più estranei in un partito che di fatto è costretto a tornare nei suoi antichi presidi territoriali settentrionali e in particolare di Lombardia e NordEst.

Forza Italia è in evidente, com’era prevedibile, fase di liquefazione dopo lo scomparsa di Berlusconi. I suoi eredi lasciano al suo destino la creatura politica del Cavaliere, la Fascina che avrebbe potuto fare da loro rappresentante in un’eventuale operazione politica di rilancio di Forza Italia è signifivativamente scomparsa dai radar della politica, mentre Antonio Tajani sta solo confermando la sua estrema modestia politica e totale assenza di leadership.

Questi due compagni di viaggio possono essere insidiosi per Giorgia Meloni proprio per la loro crescente instabilità e dunque imprevedibilità, mentre una parte dei loro voti, in tempi non lunghi, e quindi in eventuali elezioni politiche anticipate, potrebbe diventare un suo nuovo bottino.

Un voto che darebbe rinnovata energia politica a Fratelli d’Italia e renderebbe Giorgia Meloni la presidente del consiglio che oggi non riesce a essere, soprattutto in rapporto con l’Europa. La scommessa è intrigante ma è ovviamente ad alto rischio. Ci sono precedenti che sconsigliano di non provare a far saltare il banco, col pericolo di un clamoroso autogol, come accadde a Jacques Chirac, che nella primavera del 1997, con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale, decise di sciogliere l’Assemblée nationale, col risultato di ritrovarsi in coabitazione con il capo dei suoi avversari socialisti, Lionel Jospin, nominato primo ministro.

Ma la regìa del ribaltone è a Palazzo Chigi ultima modifica: 2023-10-03T18:04:32+02:00 da GUIDO MOLTEDO
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