La tristemente celebre frase “con la cultura non si mangia”, a meno che non si tratti della sagra della salsiccia o della polenta, sembra aver trovato riscontro nella deriva culturale in cui versa il nostro Paese. Un Paese che taglia regolarmente risorse alla scuola, che non tutela realtà come biblioteche e librerie, che propone modelli culturali a dir poco discutibili e che ha ridotto i canali d’informazione ad armi di propaganda e/o distrazione di massa.
Non bastasse, in questa deriva s’inserisce anche il florido mercato dei premi e dei concorsi letterari a pagamento, con quote d’iscrizione che variano dai quindici ai cinquanta euro. Si va da quelli legati ai club privati Kiwanis, Rotary e Lions a quelli piccoli e grandi, quelli nuovi e vecchi, quelli noti e meno noti, sparsi per tutto il territorio nazionale. Ma più che un’apprezzabile realtà culturale il fenomeno potrebbe essere definito un business che raccoglie le ambizioni di tanti novelli scrittori e poeti, che aspirano al massimo a ottenere pergamene di partecipazione, attestati, coppe e targhe prodotte in quantità industriali, da incorniciare e ostentare nei salotti oppure da mostrare con orgoglio sulle proprie pagine social. Dall’altra parte c’è poi il business dei grandi premi, quelli seguiti da TV e giornali, quelli che, quasi sempre, incoronano nomi che pubblicano con gli editori più ricchi e importanti.

Basta una breve ricerca nel web per verificare la quantità abnorme di concorsi e premi a cui aderisce un popolo stimato in circa tre milioni di presunti poeti, felici di poter partecipare a un baraccone che in realtà abbassa il livello qualitativo letterario del Belpaese. I numeri impietosi, purtroppo, dicono che si tratta di un popolo che scrive tanto ma legge poco o persino nulla, che pubblica in abbondanza ma non acquista affatto. A conferma di ciò, il fatto che, negli ultimi sette anni, hanno dovuto chiudere i battenti ben 2.300 librerie, nonché innumerevoli luoghi di divulgazione culturale.
In questo strano fenomeno di pseudo-cultura un tanto al chilo, s’inseriscono anche i festival e gli eventi culturali, dai più famosi e celebrati a quelli meno noti, per finire a quelli praticamente sconosciuti. Sembra che ormai ogni città, ogni paese, ogni minuscolo borgo, borgata, quartiere e contrada abbia il suo festival culturale da promuovere, dove scrittori e poeti si alternano sui palcoscenici, leggendo versi, intervistandosi tra loro o presentando libri.
Si tratta di incontri che per lo più si emulano e si scopiazzano a vicenda, dove c’è quasi sempre un presentatore che presenta, un moderatore che modera, un critico amico che fa le sue sviolinate edulcorate, un musicista che accompagna o che suona intermezzi per stemperare la noia. E ogni volta bisogna sorbirsi tizio che dialoga con caio, caio che dialoga con sempronio, il presentatore che dialoga col moderatore, il pubblico che dialoga con lo smartphone, il microfono che fischia e cambia di mano. Poi caio che recita se stesso, tizio che recita sempronio, sempronio che ringrazia tutti mentre il pubblico sfinito s’abbiocca, fino all’applauso liberatorio finale, in attesa di uno spritz o un’apericena incluso nell’iniziativa. Quando poi i volti della cultura sono noti, si aggiunge anche il rito funesto del firmacopie, per non parlare degli immancabili selfie a coronamento dell’evento.

Finita la festa, terminata l’esibizione, concluse le passerelle, chiusi i sipari, ecco che città, paesi e comunità tornano ai loro problemi senza che il vento della cultura festivaliera li abbia minimamente sfiorati, figuriamoci affrontati o men che mai risolti. Semmai i problemi per i residenti, durante la calca degli eventi, spesso si moltiplicano. Chi ne esce meglio sono prevalentemente albergatori e ristoratori che, in quel lasso di tempo, possono vantare il tutto eaurito, ma che c’entra tutto ciò con la cultura?
Sempre a proposito di festival e iniziative letterarie, ho avuto l’opportunità di sperimentarne un numero cospicuo, specialmente come ospite. Posso dire che quel che si manifesta davanti al pubblico non è sempre coerente con quello che accade dietro le quinte. Sul magico mondo dei festival forse potrei persino scriverci un libro, per raccontarne le mediocrità e le bassezze umane, in antitesi coi luoghi comuni che dipingono i poeti come animi sensibili. Ciò però non significa che non ci siano anche eventi che riescono a garantire uno spessore sia qualitativo sia contenutistico nelle loro proposte. Ricordo sempre con gratitudine e affetto i grandi incontri internazionali organizzati dalla Casa della Poesia di Baronissi, dove la parte più bella si consumava nei dopo-festival e la comunità poetica diventava una sorta di tribù umana senza patrie e senza frontiere, come splendidamente descritto dalla compianta amica Janine Pommy Vega, in una poesia che descriveva una pazza tavolata di poeti:
Anche molti editori, soprattutto quelli della domenica e quelli a pagamento, si sono adeguati al mercatino dei concorsi e dei festival d’ogni sorta, organizzando o semplicemente aderendo alle migliaia di manifestazioni che rappresentano un humus fertile su cui prosperare. Ho potuto personalmente verificare la pessima qualità offerta da tanti di questi editori improvvisati, che pubblicano autrici e autori di livello letterario quantomeno discutibile, traduzioni da altre lingue al limite dell’osceno, impaginazioni orribili e testi stracolmi di refusi, ma persino grossolani e reiterati errori grammaticali.
I prezzi di copertina poi sono spesso proibitivi per la bassa qualità di ciò che è offerto e molti ingenui autori si consegnano spontaneamente nelle mani di venditori di pentole riciclatisi in vannamarchi dell’editoria, i quali promettono mari e monti agli incauti scrittori, salvo poi far pagar loro, a caro prezzo, i costi della pubblicazione. Nelle home page di molti di questi editori, se si vanno a scorrere i nomi di chi vi pubblica, al di là di qualche reperto archeologico riciclato tra quelli studiati a fatica sui banchi di scuola, troviamo foltissime schiere di perfetti sconosciuti, titoli raccapriccianti e contenuti forieri di una retorica stantia. Insomma, più che odore di cultura vi si coglie un certo sentore di muffa.
Il non plus ultra delle pubblicazioni inutili si materializza però in quei contenitori di nulla che sono le antologie poetiche: vere e proprie insalatone miste, a tema libero quando va bene, oppure dedicate alla mamma, al papà, alla nonna, all’amore, all’amicizia e ad altre stereotipate amenità. Naturalmente il trucco qui sta nel far prenotare a ciascuno degli autori e delle autrici un certo numero di copie, spesso a prezzo pieno, in modo che risulti assicurato un discreto profitto per il furbissimo editore pataccaro di turno.
Questo non significa che non esistano editori seri (a prescindere dalla notorietà), autori di qualità (a prescindere dai giudizi soggettivi della critica) e iniziative pubbliche apprezzabili (a prescindere dalla generosità degli sponsor) a tenere vivo il livello culturale, ma ultimamente si confondono o si perdono nella mastodontica offerta di una cultura di plastica, pensata e realizzata solo per essere consumata e poi dimenticata.
In questo variegato panorama dell’editoria, si inserisce con prepotenza anche il ricorso alle auto pubblicazioni, dove il colosso Amazon ricopre un ruolo economico e divulgativo determinante. Basti pensare alla recente autopubblicazione sulla piattaforma Kindle Direct di un libro spazzatura, sia per i contenuti che per la qualità letteraria, balzato clamorosamente in testa alle classifiche delle vendite. La cosa emblematicha è che il volume non è opera di uno scrittore, un poeta, un filosofo o un giornalista, ma di un generale dell’esercito che ha puntato più sull’ignoranza che sulla cultura del suo pubblico.
In questa desolata e desolante deriva, quale dovrebbe essere allora il ruolo dei poeti, degli scrittori, degli editori, degli intellettuali, degli insegnanti e degli operatori culturali più in generale? In primo luogo bisognerebbe avere la consapevolezza di cotanta retromarcia culturale per poterne elaborare i luttuosi effetti sul tessuto sociale. Però sarebbe un gravissimo errore imputare alle giovani generazioni la responsabilità di questa triste deriva, dato che con gli stessi modelli culturali attuali, ho quasi la certezza che pure le generazioni precedenti non avrebbero potuto fare di meglio.

Chi crede di essere in grado di dare un contributo per migliorare il livello culturale del Paese deve assumersi una responsabilità importante, rimboccarsi le maniche e iniziare a pensare alla necessità di interagire soprattutto in contesti sempre più ignorati e snobbati. D’altronde, per raccogliere i frutti della cultura bisogna prima imparare a seminarla, nelle scuole soprattutto, nelle periferie, nelle carceri e in tutti i possibili ambiti dove sarebbe importante e doveroso esserci.
Paradossale quel che ho potuto sperimentare di persona qualche mese fa, partecipando a due diverse iniziative in due differenti contesti. Il tema era quello della pace e della non violenza, gli strumenti erano la poesia e la musica. La prima delle due era un’iniziativa pubblica, realizzata in una piazza, con una platea folta, motivata ed almeno teoricamente sensibile alla tematica affrontata.
Quando però le parole dovevano essere trasformate in fatti e in impegno concreto, il pubblico ha latitato, ignorando gli accorati inviti ad acquistare almeno un libro che, oltre a informare e formare sull’argomento trattato, serviva anche a reperire risorse utili per curare le vittime della violenza, nella fatispecie per contribuire alle cure e alla riabilitazione di bambini feriti con armi da guerra. Risultato? Tre copie vendute, di cui due ad una delle organizzatrici dell’evento. La sgradevole percezione che ho avuto è stata quella di una cultura impotente, che se le canta e se le suona, astrattamente autoreferenziale e, quindi, anche inutile.
Due giorni dopo, stesse tematiche ma contesto diverso. Ho passato la mattinata incontrando e interagendo coi bambini di quattro classi di quarta elementare, in una scuola dell’estrema periferia romana. Gli incontri hanno avuto un tasso emotivo molto intenso, tanto che diversi bambini e anche alcune maestre non sono riusciti a trattenere la commozione. Dulcis in fundo, alla fine degli incontri, una delle maestre mi ha consegnato una busta sgualcita, al cui interno c’erano monete e banconote di piccolo taglio, per un totale di circa duecento euro, che i bambini avevano raccolto per sostenere i loro coetanei bisognosi di cure, anche se lontani e sconosciuti.
Nel volgere di due giorni, mi si è rivelata plasticamente quale sia la via da percorrere se si vuole davvero aspirare ad una autentica e concreta crescita culturale, che non può essere separata da quella sociale e umana e che non può crescere senza equità e giustizia. L’unica risposta possibile non può che essere quella di iniziare a disertare i palcoscenici competitivi della cultura salottiera, per dedicarsi finalmente a ciò che ha più senso, anche se non ti fa vincere premi, non ti regala notorietà, non nutre quell’immarcescibile bisogno di vanità che dovrebbe essere agli antipodi di ogni possibile idea di poesia, almeno nella sua dimensione più autentica e trasversale.
La soddisfazione vera, quella più utile e bella per chi ha veramente a cuore la cultura, forse sta semplicemente in ciò che si è capaci di lasciare, come testimoniato dagli alunni dell’Istituto comprensivo di via Ormea, nel quartiere periferico romano di Casalotti, o dai detenuti del carcere di Pesaro, che dopo un incontro di poesia e musica hanno riportato sulla rivista “Ristretti Orizzonti” le seguenti parole: “Questa non è una giornata normale in carcere, ma può servire da esempio. Da esempio coraggioso: se vengono utilizzati tanti agenti di polizia penitenziaria per prelevare uomini e donne dalle loro celle, portarli nell’auditorum, assistere all’evento su di loro e con loro, riportarli nelle celle nel giro di un’ora e mezza, non ne è valsa la pena, per agenti e detenuti? La cosa più difficile è iniziare, mettersi le scarpe alla mattina, piuttosto che restare in un letto che non potrà lenire i nostri dolori”.
Questi per me dovrebbero essere i premi a cui bisognerebbe ambire, anche se la strada da percorrere per arrivarci è scomoda e tortuosa, ho la certezza che ne varrebbe sempre e comunque la pena.

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