60 anni dal Vajont: una bella giornata d’azione e memoria (tra montagna e ricordi)

MARIO SANTI
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Il 10 ottobre 2023, il “giorno dopo” gli “eventi ufficiali” del sessantennale del Vajont, siamo stati sulla “ferrata della memoria” e a Casso. 

Il mio amico Paolo Checchia ha avuto l’idea e di questo lo ringrazio. 

Avevo visto da tempo che c’era questa “ferrata della memoria” (inaugurata del 2015): un percorso attrezzato che risale la forra del Vajont fino alla diga, e riporta il pensiero al quel 9 ottobre 1963, che si prese quasi duemila vite e cancellò Longarone.
Ne ero stato tentato, anche per l’intreccio che la mia storia personale ha avuto con Longarone, dove fino ai nove anni che avevo nel 1963 ho passato i miei agosti, in quella che le cartoline dell’epoca raffiguravano sopra la curva di entrata in paese, prima della stazione, chiamandola “villa Vienna”. I Vienna erano miei lontani parenti (lo era ad esempio l’ing. Francesco Vienna  – detto Franco – che ho conosciuto e che tante vie alpinistiche ha aperto con Giovanni Angelini – l’attuale ferrata “Tissi” in Civetta ricalca una loro via di salita del 1931 alla base della Cima di Tomé).

Villa Vienna

A Longarone nei mesi di agosto della nostra infanzia salivamo io, mia madre e mia sorella Chiara. Per questo è (rimasto) per noi uno dei luoghi della nostra infanzia. Lì giocavamo in un giardino con dei fiori bellissimi (di cui ricordo le “bocche di leone” e che mi colpivano per il loro aprire e chiudere la loro “bocca”) e ci avventuravamo (con attenzione, per paura “delle vipere”) sul “colle”, come chiamavamo la collinetta che c’era a monte della grande casa e che a noi sembrava una grande montagna. In alto c’era una porta di ferro sulla strada per il paese di Pirago e più oltre per la val Zoldana.  

Da quella parte partiva la gita per Taò, una casera nel bosco (sulla destra orografica del torrente Maè), che fu la meta delle nostre prime “gite”. Gite che mi parevano imprese, pur avendo uno sviluppo di pochi chilometri e un dislivello di poche centinaia di metri.  

Villa Vienna aveva il “muretto”; lì il sabato io e Chiara ci sedevamo ad aspettare che comparisse lungo la strada il maggiolino del babbo che veniva a trovarci.  E la domenica con lui e la mamma, se non  era in programma li pranzo a Taò, facevamo una gita in macchina sulle Dolomiti, magari fino a Cortina …  

Mario Santi da piccolo a Taò Da Picc

A Longarone io e Chiara avevamo i nostri amichetti del cuore estivi.  Silvia e Cesare. Con Cesare, nell’estate del 1963, compii quella che – ben più delle escursioni a Taò – mi parve una vera impresa: prima ottenere il permesso dai rispettivi genitori e poi andare con le nostre biciclette “sulla strada”. E non più a Longarone (Cesare stava a poche centinaia di metri da me), ma fuori paese, addirittura al di là del Piave – a Dogna e Provagna! È vero che le strade allora erano meno trafficate e che oltrepassata la statale 51 il percorso dell’oltre Piave lo era ancor meno, quasi “protetto”. Ma io ero un bambino veneziano di nove anni, abituato ad andare in bici solo ai giardini Papadopoli (che avevo vicino a casa …). Ai Papadopoli ebbi la mia “ciclo iniziazione”. A Castelfranco Veneto (dove avevo dei parenti), nella grande Piazza Giorgione e sotto i suoi portici avevo avuto a la prima “emancipazione”, con l’abbandono di quelle “rotelle” che si mettevano ai lati delle ruote posteriore per dare equilibrio ed evitare cadute ai principianti. Quindi a Longarone ero ormai più “sicuro”.  Ma il rapporto con Cesare, nato e cresciuto su strade “con le macchine” mi portò alla definitiva “liberazione”, che quella gita a Dogna e Provagna consacrò in modo tanto simbolico quanto definitivo.

Silvia (che – con un anno di meno insegnò a Chiara a “buttarsi nel fieno”) e Cesare.

Dall’estate di quel 1963 li reincontrammo solo molti anni dopo, al cimitero delle vittime del Vajont, dove andammo a cercarli e trovarli. 

Nel frattempo io per molti anni non tornai a Longarone o ci passai quasi senza accorgermene, come per allontanare da me quello che “non c’era più”. 

Ero rimasto alle parole di mia madre, che mentre ci  stavamo preparando per andare a scuola la mattina del 10 ottobre 1963 ci disse: “bambini, devo dirvi che Longarone non c’è più … “  Non so se le credemmo, perché era parte della nostra vita,. Ed eravamo li meno di un mese e mezzo prima ….

E ci mettemmo molti anni ad andarci, a Fortogna. Forse ci spaventava il senso di perdita che avremmo trovato, cercando e trovando i nostri amici. Ci rendemmo conto che quello che non avevamo più per noi era solo la giovinezza, per loro la vita, la possibilità di crescere e avere quel futuro che invece noi avevamo tra le nostre mani.

Forse per questo su Longarone mantenni a lungo una sorta di “rimozione”. Per uscirne dovetti cominciare a capire che non si era trattato a di un disastro naturale ma forse della prima “strage di Stato”. 

Nella mia formazione umana e politica Piazza Fontana fu una molla decisiva per spingermi a ragionare e a capire come andava il mondo. Ma dietro alle bombe della Banca dell’Agricoltura c’erano fascisti e depistatori.  

La storia del Vajont (lo fa ben capire il pezzo di teatro civile di Marco Paolini che ai tempi m’incollò alla TV riportandomi sulla diga e che ho rivisto in questi giorni) è una storia ordinaria che ha avuto effetti eccezionali. Perché è “ordinario” che l’economia capitalista sacrifichi al perseguimento del profitto ogni altra cosa – ambiente, salute, vite umane.

La frana era prevedibile e prevista, ma ancor oggi, nelle commemorazioni del Vajont del sessantennale sono stati ricordati i militari che dettero una mano e furono vicini alla popolazione dopo il disastro, non chi l’aveva previsto, denunciato e cercato di prevenirlo: Tina Merlin – Cassandra,  con la sua azione tenace, lungimirante e inascoltata.

Dopo sessant’anni si dice di non dimenticare; ce lo ha ricordato anche il 9 ottobre 2023 il civile intervento a Longarone di Sergio Mattarella – un Presidente che sarà ricordato per aver spesso saputo cogliere il sentire degli italiani dandogli la forma migliore.  

Peccato che accanto a lui abbia fatto un intervento formalmente toccante un campione le cui azioni poco hanno da invidiare ai politici che allora copersero e incoraggiarono la SADE (Società Adriatica di Elettricità).

Non va dimenticato che la SADE costruì la diga per poi passarla all’Enel e procedere – prima del collaudo – al riempimento dell’invaso e a quelle manovre di innalzamento -oltre i limiti di scurezza – e successivo repentino svuotamento che  provocarono la frana del Toc, l’esondazione del lago e la distruzione di Longarone. 

E quel Luca Zaia che dal Vajont ricorda che non si può offendere impunemente l’ambiente è lo stesso che ogni giorno continua a cementificare il Veneto, con una scellerata corsa al continuo consumo di suolo. Anche se la il Veneto ha una legge regionale che proibisce l’ulteriore uso di suolo, salvo  però “eccezioni”.  Eccezioni che Zaia fa diventare la regola.  Un po’ come fa a Venezia il sindaco Brugnaro, dopo che il Consiglio comunale ha approvato una delibera che impedisce di trasformare i palazzi in alberghi – salvo eccezioni. Eccezioni che, appunto, sono diventate la regola …

Ma torniamo a noi. Sulle eredità politiche e sugli insegnamenti nella gestione del territorio ognuno di noi trae dal Vajont la lezione che riesce a trarre; che dovrebbe poi cercare di trasformare in azione civica, culturale, politica, perché i dolori e le ferite del passato non siamo stati invano…  

Qui non intendo fare analisi politiche, ma fermarmi su un personale ricordo emozionale.

Dunque, quando Paolo mi propose di andare sulla ferrata della memoria accettai subito, ma con un misto di contentezza e trepidazione,

Ero contento, perché si presentava l’occasione di fare questa “famosa” ferrata della memoria e perché ci andavo con lui. Nelle mie estati del “dopo Longarone” , feci qualche esperienza di montagna estiva con i miei genitori e con Chiara. Poi arrivarono gli anni del liceo e delle prime uscite in montagna con gli amici, e delle prime ferrate. 

E fu così che un anno mi accordai proprio con Paolo per fare l’alta via n. 2 (o meglio, la prima parte, da Bressanone al Sella).

In realtà doveva esserci anche un’altra persona che i veneziani conoscono (quel Carlo Campana oggi esponente di Emegency e che allora era mio compagno di classe). Carlo però la mattina della partenza venne a dirmi (allora non c’erano i telefonini) che era costretto a rinunciare per aver avuto una proposta a cui non si poteva dire di no: il lavoro alla Biennale.  Era questo per noi giovani veneziani che allora avevamo poco più o poco meno di vent’anni   una delle principali fonti di reddito del periodo estivo (lo fu anche per me negli anni successivi e lo è ancora per i giovani d’oggi).

Così quello fu il mio primo viaggio indipendente lo feci solo con Paolo.  

Fu una esperienza che sviluppò e consolidò un’amicizia che dura tutt’ora e che nella frequentazione delle terre alte ha sempre trovato un elemento di comunanza.

Quest’estate si era fatto poco o niente insieme, anche a causa di un suo serio infortunio alla spalla (patito durante le ultime scialpinistiche a maggio) – quindi la sua “chiamata” per la via della memoria mi aveva fatto molto piacere e dato qualche preoccupazione, per il suo libello di ripresa e per il mio stato di forma.

Sapevo infatti che si trattava di un percorso non lungo ma impegnativo e che lui aveva avuto di recente un dolore poi passato alla spalla infortunata e che io avevo un buon allenamento a camminare. ma da tempo non mi cimentavo con il lavoro di mani e braccia richiesta per arrampicare (e che i chili messi su di recente erano più gestibili in una camminata più o meno in pendenza ma a progressione orizzontale che in una ascesa verticale).  

Eccoci dunque all’attacco della ferrata, al sesto tonante della strada che da Longarone sale alla diga, per poi raggiungere il Friuli. Pochi metri di strada sulla destra, una piazzola per parcheggiare e .ci prepariamo con imbragature, cordini e moschettoni per assicurarci, caschi per i sassi e pile frontali per la gallerie.

Attacco Ferrata della memoria 

Infatti il percorso si sviluppa dapprima in orizzontale per gallerie e cenge esposte sulla forra che il Vajont ha scavato prima di gettarsi nel Piave.

Cenge esposte

Poi inizia la parte verticale: ottimamente attrezzata, con cavi, scalini e prese in ferro per mani e piedi che dettano la linea di progressione che va dritta “in su”, con solo qualche cengetta che, rende la progressione a zig-zag e consente qualche attimo di respiro.

Progressione verticale

Per me assolutamente necessario.  Ho fatto infatti una fatica che da tempo non ricordavo.  Non ho pensato di tornare grazie al sostegno di Paolo, e a qualche momento di riposo. D’altronde era evidente che tronare era quasi impossibile (o perlomeno molto pericoloso); non a caso al termine del sesto e ultimo dei settori in cui è divisa la ferrata un cartello dice chiaramente che è “vietato scendere lungo la ferrata”).

Vietato scendere lungo la ferrata

Insomma, fatica ma anche tensione positiva (non è la prima volta in montagna che mi accorgo che l’adrenalina moltiplica le forze) e grande soddisfazione.

Mario Santi a fine ferrata

Usciti dalla via e firmato una sorta di “libro di vetta” (che c’è a segnare la fine della “via”, anche se non si arriva su una cima) scendiamo alla diga con qualche minuto di rilassante sentierino in bosco. 

Mentre ci “sbraghiamo” e beviamo ognuno è con i suoi pensieri e con le sue “memorie”. Poi attraversiamo le ultime gallerie che dal Veneto portano alla diga.  Alla fine dell’ultima un breve sentiero ci consente un taglio in bosco che in breve ci porta alle macchine.

Qui ritroviamo due friulani incontrati in via e seguendo un loro consiglio, risaliamo in macchina verso la diga, ma non andiamo Erto, bensì a Casso (dove entrambi non eravamo mai stati). Bel paesino, strade strette e ciottolate come nei borghi Appenninici, con case abbandonate accanto a case in fase di restauro. Perché nel Comune di Erto e Casso accanto ai vecchi montanari – che hanno vissuto il Vajont – si trova qualche giovane che viene a vivere e lavorare in una montagna e in una natura più selvaggia e meno addomesticata di molte zone delle Dolomiti ampezzane o zoldane – qui siamo al limite meridionale delle Dolomiti d’oltre Piave (v. ad es.  la storie di Lucia  e Luca – ”Abbiamo scelto di vivere a Erto, di fronte al Vajont” – Montagna.TV).

A Casso si ha una visione chiara del distacco della frana che alle 21.39 del 9 ottobre 1963 precipitò nel lago, esattamente quella linea di frattura ad “M” che aveva previsto -inascoltato – il geologo austriaco Muller.

La frana a M che il 9 ottobre 1963 si staccò dal monte Toc, precipitando nel lago del Vajont.

A Casso ci hanno accolto  panino, birra, caffè e chiacchiere con la signora che gestisce uno dei due bar osteria del paese:  simpatica e disponibile, ma ancora esausta dalla faticosa giornata e dalla tante presenze del giorno prima, quello dell’anniversario ufficiale (il che si conferma che noi abbiamo fatto bene a evitarlo …).

Un po’ di tranquillità e rifocillamento che ci hanno consentito di rimetterci in macchina  riposati e rilassati e di lasciarci contenti e convinti di aver passato un giornata diversa dalle altre che in cinquant’anni abbiamo passato insieme in montagna.   

Dove tornando abbiamo come sempre commentato la gita, ma anche fatto qualche considerazione sulla storia di questa diga e di questi paesi e sulla memoria che il Vajont a lasciato in ognuno di noi. 

60 anni dal Vajont: una bella giornata d’azione e memoria (tra montagna e ricordi) ultima modifica: 2023-10-12T17:32:43+02:00 da MARIO SANTI
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