Per un umanesimo della responsabilità

verso l’Umanità e verso la Terra
GABRIO VITALI
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«Avrei voluto scrivere io questo libro», dichiara Edgar Morin dalla fascetta di copertina del nuovo libro che il suo allievo ed amico Mauro Ceruti ha scritto con Francesco Bellusci e che l’editore Raffaello Cortina manda domani in libreria. Che non si tratti soltanto di una pur significativa manifestazione d’affetto o, più banalmente, di un semplice sostegno pubblicitario, lo si capisce fin dalla lettura delle prime pagine di impostazione del volume, dove il paradigma del pensiero della complessità si declina subito nell’analisi della crisi evolutiva, di natura molteplice e interrelata, con cui fanno i conti oggi l’umanità tutta e l’intero pianeta. Il modello del pensiero e l’oggetto di conoscenza in cui questo si immerge, proposti dal libro, sono dunque quelli ereditati dalla lucidità mentale, ormai più che centenaria, e dalla lunga riflessione sulla complessità del grande maestro francese, che della preoccupazione per «l’ecologia dell’umano», in questa deriva di primo Antropocene, ha fatto il fulcro e lo scopo del suo pensiero e della sua vita, condivisi entrambi, da quasi cinquant’anni, con Mauro Ceruti in un rapporto continuo di fraterna e feconda reciprocità.

Mauro Ceruti

In perfetta continuità di pensiero con i libri più recenti che Ceruti ha dedicato all’analisi delle condizioni globali di vita dell’umanità e del pianeta, Il tempo della complessità (Cortina, 2018) e Abitare la complessità (con F. Bellusci, Mimesis, 2020) e con le riflessioni con cui ha, di fatto, dialogato con le encicliche di papa Francesco, Sulla stessa barca (Qiqajon, 2020) e Il secolo della fraternità (con F. Bellusci, Castelvecchi, 2021), anche quest’ultimo lavoro, Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di pensare il futuro (Raffaello Cortina Editore, 2023), muove da un’affermazione epistemologica decisiva e chiarificatrice: «Sul piano del pensiero, la complessità non è un fine, ma il mezzo necessario per concepire il fondamentale, l’emergente, l’ambiguo, l’inatteso, l’individuo, l’essere, la novità. Parimenti, non è un fine sul piano dei valori. La vita non ha per “scopo” lo sviluppo della complessità: è lo sviluppo della complessità che, in condizioni di alea e incertezza, sviluppa la vita, e produce le sue emergenze, tra cui l’essere umano stesso. Costui, giungendo alla consapevolezza di far parte integrante del tessuto della vita, quale membro della comunità globale degli esseri viventi “terrestri”, e giungendo all’osservazione di se stesso, degli altri esseri e della Terra come “sistemi viventi”, ingranati gli uni negli altri», può elaborare una nuova coscienza ecologica adeguata a tentare di governare, imprimendovi una direzione piuttosto che un’altra, la transizione evolutiva che lo sviluppo della sua stessa civiltà ha contribuito a provocare. E poiché la coscienza umana è essa stessa prodotto e fattore dell’evoluzione, oggi «l’“epistemologia della complessità” ci consente di fare un passo ulteriore nella misura in cui suggerisce di includere l’osservatore [l’uomo, la sua scienza, la sua civiltà] nelle sue osservazioni o descrizioni» sulle condizioni ecologiche del pianeta, comprendendovi e collegandovi così l’antropologia della civiltà umana, in esso e nel suo destino indissolubilmente integrata.

Da una simile postura cognitiva diventa allora possibile indagare e comprendere l’inedita biforcazione che caratterizza il nostro come

un tempo contradditorio, scandito da un lato, da crisi molteplici e concatenate che fanno temere un collasso della nostra civiltà e, dall’altro, da impetuosi e inarrestabili progressi tecnologici che la proiettano in avanti sull’onda delle innovazioni innescate.

E diventa altrettanto possibile acquisire la consapevolezza che la potente vocazione autodistruttiva che alberga nelle logiche di dominio, di conflitto, di sfruttamento e di guerra, con cui la specie umana si è rapportata alla propria evoluzione sul pianeta, oggi si è estesa ecologicamente, grazie all’immenso potere raggiunto dalla tecnologia, all’evoluzione della natura vivente e del pianeta stesso, minandone la sopravvivenza.

Jackson Pollock “Conversation with Jackson Pollock no. 41”
Foto: George Sanen

Tuttavia, «adesso che la natura, esterna e interna all’uomo, è entrata, in una misura prima inimmaginabile, nel campo della responsabilità umana, l’uomo rileva la sua “eccezionalità” [come specie vivente] proprio nella responsabilità e nell’obbligazione morale, e ciò nel momento in cui queste si estendono sulla scala dell’intero pianeta: sta qui il possibile abbrivio di un umanesimo planetario», che superi ogni sua versione riduttivamente e pericolosamente  antropocentrica e si evolva come fattore determinante e come funzione attiva di una complessa visione eco-antropo-centrica dell’evoluzione del pianeta e della stessa civiltà umana. Ma un’umanità planetaria non può manifestarsi se non attraverso una rottura e una riorganizzazione antropologica che assumano l’interconnessione fra le crisi climatico-ambientali, sanitario-pandemiche, geopolitiche ed economiche, demografiche e sociali, come immenso luogo di coltura e di passaggio per un nuovo possibile modello di civiltà, in cui homo sapiens impari a legare la propria sopravvivenza e il proprio futuro a quelli dell’intero ecosistema vivente (la Terra, il più grande che conosciamo), nel quale la sua stessa vita è possibile e verso il quale, perciò, la coscienza umana deve sviluppare quei legami di responsabilità e di solidarietà che la scienza e la tecnologia rendono oggi possibili e che la stessa crisi evolutiva e, per conseguenza, di civiltà rende politicamente, oltre che culturalmente, irrevocabili: «Homo sapiens, nel corso della sua storia, di fatto non è nato una volta, è nato più volte. E non è nato umano: ha “imparato”, più volte, a essere umano. Non ci può essere uomo planetario senza mutazione antropologica, senza congedo dal paradigma della semplificazione, “inadeguato a rendere conto delle interconnessioni tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura”, senza intelligenza critica delle potenziali fratture e distruzioni del modello di civiltà attuale, e senza coscienza delle possibilità di un’umanità inedita», che si origini come emergenza etica “consapevole” dallo stesso sviluppo culturale e scientifico della civiltà umana attuale.

Il problema non è tanto di carattere scientifico o tecnologico, non è solo nella carenza di conoscenze e di acquisizioni, ma attiene, invece, al modello culturale, alla piega dell’intelligenza delle cose, allo stile del pensiero con i quali si conseguono e si selezionano quelle medesime conoscenze scientifiche e acquisizioni tecnologiche: il punto nodale si colloca oggi al centro di una antropologia della politica e di una ecologia della civiltà, corrose e inadeguate, che ostacolano quel graduale processo di adattamento alle modificazioni dell’ambiente con cui l’umanità si è sempre collocata nelle crisi evolutive che ha attraversato nella sua lunghissima storia, modificandosi biologicamente ed etnicamente per sopravvivere e svilupparsi. Oggi, certo, la gradualità è preclusa dai tempi ristretti di precipitazione della crisi, ma la conoscenza e lo sviluppo conseguiti dall’umanità nel suo insieme possono, altrettanto certamente, far fronte ai tempi brevi dell’adattamento necessario: di nuovo, il punto decisivo è quello della consapevolezza di una radicale trasformazione a tutti i livelli di un modello di civiltà vocato al dominio e allo sfruttamento dell’uomo e della natura e, perciò stesso, oggi, alla loro distruzione.

Attualizzando e in qualche modo inverando un lungo percorso di pensiero che, oltre che dalla propria riflessione anche più lontana (basti pensare ad esempio a Solidarietà o barbarie, con Gianluca Bocchi, 1994), viene da elaborazioni matriciali di un nuovo umanesimo e del cambio del paradigma cognitivo, quali Il paradigma perduto (1973) e Terra-Patria (1993) di Edgar Morin o La terra del Tramonto (1992) di Ernesto Balducci, nonché dalle più recenti lettere encicliche (2015 e 2020) di papa Bergoglio, Mauro Ceruti, con l’aiuto e la sinergia di Francesco Bellusci, si prova ad aprire un varco ulteriore ad un orizzonte di pensiero che possa trasferire la visione dell’umano da un’accezione meramente antropologica a una più pienamente ecologica, definendo la nozione di Antropocene come età evolutiva che annulla la frattura tra natura e cultura, tra storia umana e storia della vita e della Terra:

L’umanesimo planetario è l’uscita da una concezione insulare dell’uomo, isolato dalla natura e dalla propria natura, e da una concezione dell’identità basata sulla contrapposizione amico-nemico. E l’ingresso nella coscienza del fatto che l’uomo non è isolato dalla natura e dalla propria natura, e del fatto che, come la multicrisi planetaria sta rivelando, le “nazioni” sono parti della comunità di destino mondiale, ovvero della “famiglia umana”, che attende di divenire effettiva comunità di pensiero e d’azione. L’umanesimo planetario esige di pensare che la relazione precede l’esistenza, di pensare che ciò che esiste (i sistemi fisici, chimici, viventi, umani, sociali, ecologici…) in verità coesiste, di pensare che il pensiero stesso presuppone un’ecologia del pensiero. Solo un processo di organizzazione rende singolari e autonomi. Ma non si dà organizzazione e singolarizzazione se non nella codipendenza.

Si tratta allora di superare ed abbandonare il modello di pensiero e di azione basato sul dominio, sullo sfruttamento e sul conflitto, sulle attività di controllo e di manipolazione (dell’uomo verso la natura e verso la Terra, dell’etnocentrismo europeo verso il resto del mondo, di un popolo “civilizzato” verso un altro “da civilizzare”, di una nazione “progredita” verso un’altra da “far progredire”…) e costruirne uno basato sulle relazioni di accoglienza, di reciprocità, di solidarietà e di condivisione con ciò che è altro da noi, ma che vive in stretta relazione ecologica con noi e con la nostra stessa vita, intrecciata con l’altrui a tutti i livelli, dall’economico al politico, dal sanitario all’ambientale, dal politico allo spirituale. Conseguentemente, bisogna superare un umanesimo eurocentrico, animato dai miti di un progresso lineare e inarrestabile, di una cultura scientifica e tecnologica rivolta alla sovranità sulla natura o di una salvezza affidata alla tecnocrazia del dominio e alla geopolitica di potenza, e sviluppare un’idea di umanesimo basata sulla responsabilità e sulla cura verso la natura, verso la Terra e verso l’umanità tutta.

Il rischio angosciante e pervasivo dell’autoannientamento nucleare, che si diffonde oggi con l’esplosione della guerra di annientamento in sempre più numerosi punti “caldi” del pianeta; le pandemie che continuamente prolificano e si spargono a partire dai luoghi apparentemente più marginali e distopici; i cambiamenti climatici irreversibili, le manifestazioni telluriche imprevedibili e sempre più devastanti, le manipolazioni incontrollate e la distruzione inarrestabile della biodiversità, sono anch’essi prodotti e risultati di questo modello di civiltà e del paradigma umanistico che l’ha informato e dell’idea di progresso che l’ha sostenuto. Tuttavia, questi avvenimenti possono globalizzare e sincronizzare l’umanità intera nella sofferenza, nella malattia, nella compassione e nel pericolo d’estinzione; pertanto, questi processi possono creare una consapevolezza di destino comune, di solidarietà fra diversi, di fratellanza di vita concreta e rendere così evidente la necessità di prendersi cura non solo degli uomini e dei popoli fra loro, ma dell’uomo con la natura e con gli altri esseri viventi.


Jackson Pollock “Number 13A: Arabesque”
Foto: Garrett Ziegler

Attrezzare il pensiero a questa nuova ecologia della ragione che non stabilisca semplificate supremazie, ma comprenda invece la complessità delle relazioni e sappia dialogare con l’incerto e l’imprevisto, che da essa si determina, è l’avvio di un nuovo umanesimo davvero planetario. E il suo realismo, anche politico, sta nell’adesione dei suoi modelli di pensiero e di azione alla complessità effettiva della situazione drammaticamente interrelata in cui versano sia la civiltà umana che il pianeta Terra e non invece nella semplificazione riduttiva di modelli di pensiero e d’azione ormai obsoleti e incapaci di interrogare la complessità del reale se non sminuendolo, settorializzandolo, spezzettandolo e contingentandolo in gabbie di prevedibilità ristrette e precostituite, secondo il principio della reductio ad unum (e ad se ipsum) tipico della modernità che proprio per questo va di nuovo umanizzata, come chiede il libro di Ceruti e Bellusci:

L’umanesimo planetario è un umanesimo concreto, che risponde proprio all’esigenza di fraternizzare di fronte ai pericoli globali e alle crisi planetarie. Non oppone la diversità all’unità, il singolare al generale. È fondato sul riconoscimento dell’unità nelle diversità umane, e delle diversità nell’unità umana. Genera un doppio imperativo antropologico: salvare l’unità umana, salvare la diversità umana. Mira a sviluppare le diversità umane, nel contempo concentriche e plurali.

Umanizzare la modernità
Un modo nuovo di pensare il futuro
di Mauro Ceruti e Francesco Bellusci
Raffaello Cortina Editore, 2023


In copertina: Jacson Pollock “Number 17A”, foto Kent Baldner

Per un umanesimo della responsabilità ultima modifica: 2023-10-13T12:03:58+02:00 da GABRIO VITALI
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