[BELGRADO]
Il fiume
Per gli italiani è il Danubio, ma dove scorre è chiamato Donau, Dunav, Dunarea. Traversa l’Europa da ovest a est. Con fluire incessante sorge in Germania e muore in un delta sul Mar Nero. Nel mondo antico è stato il limes (confine) orientale dell’impero romano. In quello moderno figura come il fiume più importante nella geografia e nella storia d’Europa. Tra quelli dell’Unione è il più lungo. Con un corso di 2900 chilometri tocca nove paesi (Germania, Austria, Slovacchia, Ungheria, Croazia, Serbia, Romania, Moldavia, Bulgaria) e sfiora l’Ucraina. Bagna quattro città capitali: Vienna, Bratislava, Budapest e Belgrado. È vasto e sinuoso. Nelle anse s’allarga e si sdoppia per generare isole.

Traiano lo ha passato all’inizio del secolo II d.C. per conquistare la Dacia (Romania). Nell’anno 104 ha marciato sul ponte progettato per lui da Apollodoro da Damasco: un prodigio dell’architettura romana, per oltre mille anni il più imponente del mondo, lungo 1135 metri con soli venti pilastri, alto 19 sull’acqua e largo 15 al netto dei parapetti. Le rovine sono ancora osservabili non lontano dal Porte di Ferro, la gola che stringe il fiume nel passaggio dai Carpazi ai Balcani.
I rumeni non hanno dimenticato quell’invasione. Per diciannove secoli hanno covato il risentimento. Intorno al 2000, sul loro lato della strettoia hanno scolpito nella roccia una testa gigantesca del re Decebalo (45 metri, da fare invidia a Isìldur e Anàrion), morto suicida nel 106 d.C. dopo la sconfitta finale nello scontro con Roma.

Beograd
Lo snodo, il punto dove cambia la percezione del fiume, è nel cuore della Serbia.
Lì, con un’ampia curva, nel suo fianco s’innesta la Sava, affluente di destra che scende da Lubiana e Zagabria. E proprio sulla confluenza delle acque, tutt’intorno al promontorio che la governa, si accampa Belgrado, la capitale rimossa.

L’oblio fa data dall’inizio del millennio. Da allora gli europei dell’ovest sanno del Danubio fino a Budapest, ma ignorano o quasi quello che succede dopo. L’orgogliosa capitale serba e la sua spettacolare geografia sono relegate in un angolo remoto e confuso della memoria. Eppure in un passato non lontano Belgrado era importante e famosa. A lungo è stata il capoluogo di uno dei tre mondi del Novecento: il Terzo, quello dei Paesi Non Allineati. Oggi ragioni imbarazzanti l’allontanano dalla coscienza occidentale. C’è di mezzo un motivato senso di colpa: sembra incredibile, ma nel 1999 gli europei l’hanno bombardata (è immaginabile un bombardamento di Parigi o di Roma?). Per settantotto giorni hanno sganciato bombe su mandato del Primo Mondo. Gli USA avevano disgregato l’Unione Sovietica e la Nato stava fagocitando i primi pezzi (Ungheria, Polonia, Cechia). L’Occidente era pronto per la seconda impresa: sbranare l’altro stato comunista, la Federazione Jugoslava. Belgrado aveva il torto di tentare di tenerla unita. Meritava una punizione esemplare.
Le bombe
La conferenza di pace tenuta a Rambouillet è stata “una provocazione, un pretesto della Nato per bombardare la Serbia”. Sono parole di Henry Kissinger, già segretario di stato degli USA – certo non una colomba – e per mezzo secolo il maggior esperto di quel paese in materia di politica internazionale.
Era l’inizio del 1999. La geografia e la voglia di primeggiare nell’ubbidienza all’Alleanza assegnavano all’Italia un ruolo speciale: attaccante e retrovia della guerra.

Le basi della penisola si sono attivate nel corso del 24 marzo. Alle due della notte successiva i cacciabombardieri (i Tornado per parte italiana) già sganciavano su Belgrado il loro carico di morte. E hanno continuato per oltre due mesi. Strade, ferrovie, ponti, scuole, ospedali, uffici della radio-televisione, ministeri, centrali elettriche, apparati industriali, treni, autobus, case, persino l’ambasciata cinese, sono stati centrati e distrutti a decine spesso con la gente dentro (non sono mancate le bombe a uranio impoverito). Migliaia le vittime, militari e civili. Miliardi di danni.

E c’è un aspetto singolare nella vicenda: quello politico. Tutti i fautori dell’intervento erano nominalmente progressisti: socialista era lo spagnolo segretario generale della Nato Javier Solana, socialista il primo ministro inglese Tony Blair, socialista (per dire) Massimo D’Alema, capo del governo italiano, democratico con venature liberal il presidente americano Bill Clinton, progressista e pacifista (premio Nobel per la pace nel 2001!) il ghanese Kofi Annan, presidente dell’ONU, che lasciò campo libero alla Nato (risoluzione 1244) celebrando l’abdicazione delle Nazioni Unite che oggi è lampante in Ucraina.

Il ponte
Spicca tra gli altri monumenti. Domina lo skyline di Belgrado con l’eleganza della forma e la forza della misura. È il nuovo scavalcamento della Sava (2012), il Most na Adi: un grande (un chilometro) ponte strallato con i cavi a ventaglio ancorati a un unico puntone alto duecento metri. Si capisce che vendica con un gesto culturale i ponti bombardati nel ’99. È quello più a monte dei sei che attestano la centralità della Sava. Qui, a ridosso dell’affluente, si dispiega la geografia della città: la parte vecchia a destra del flusso, a sinistra il nuovo tessuto politico, economico e abitativo cresciuto intorno a Novi Beograd.
Invece il Danubio, che scorre a nord est in un’ansa larga come un mare, funziona da confine. Lo scavalca un’unica via – nelle carte europee è chiamata E 70 – diretta verso oriente e detta da qualcuno “la Via della seta”. Sebbene da questa parte si trovi il porto fluviale, di notte l’altra sponda del grande fiume è lontana e buia. Al contrario delle rive della Sava che brillano delle luci colorate dello svago: i ristoranti e i bistrot galleggianti o allineati sul lungofiume, i caffè, i circoli sociali, i ritrovi.

Tanto i bombardamenti della Nato, quanto quelli hitleriani del 1941 miravano a isolare la Serbia dai Balcani occidentali. Ciononostante Belgrado è cresciuta con decisione verso ovest dopo entrambe le offese. Al tempo del socialismo e della Jugoslavia lo ha fatto nelle belle forme dell’urbanistica e dell’architettura razionaliste di Novi Beograd.
Dopo i raid della Nato ha continuato con i palazzi brutti delle multinazionali, quelli che hanno aggredito gli spazi verdi che erano stati l’eleganza e il vanto della città nuova negli anni di Tito.

Ragazze
Belgrado è giovane e grande. Al mattino, durante il giorno e la sera i viali e le strade sono popolati da ragazze e ragazzi. Si capisce che i genitori e i nonni sono da qualche parte, non si sa dove. Capita di incontrare qualche gruppetto di anziani ma è subito evidente che si tratta di turisti. Sono alti e belli i giovani belgradesi (dicono che la statura sia un’impronta montenegrina). Le ragazze vestono con semplice eleganza (piace molto la minigonna e non dispiace il tubino) e curano l’aspetto: in Italia sarebbero tutte modelle. Né le femmine né i maschi hanno l’aria da discoteca o da sballo. Piuttosto sembrano studenti attivi, comunque persone indaffarate. Del resto li si trova anche negli uffici o nei servizi, dove risolvono in un minuto problemi che gli anziani rendono complicati.

La città è grande nell’insieme e nelle parti. Sono grandi i fiumi, i quartieri, i ponti, i viali, le piazze, l’isola Veliko Ratno tenuta allo stato selvaggio tra i due rami del Danubio, la Fortezza Kalemegdan diffusa sul promontorio che presidia la confluenza delle acque (ma il pericolo è venuto dal cielo). Sono poche le tracce del passato storico dal medioevo al Settecento. Presa nel mezzo e costretta per secoli a difendersi dall’avidità di due imperi – l’Ottomano e l’Asburgico – la città non conserva volentieri i segni di quelle culture: pochi edifici turchi nell’area pedonale centrale e, in periferia, qualche casa austriaca in schiera, di quelle con la testata a profilo mistilineo.
Riesce difficile immaginare un’Europa futura senza Balcani, e figurarsi i Balcani senza la centralità della Serbia e senza Belgrado in un ruolo capitale. Sempre che l’Europa abbia un futuro, e non è detto.
L’impero americano e il suo braccio armato, costretti al naturale declino dal fiorire delle potenze asiatiche, potrebbero essere tentati di agire al modo di Sansone, trascinando tutti in un abisso. Di regola gli imperi al tramonto lo fanno. L’Ucraina e la Palestina (a est c’è anche l’ombra di Taiwan) non annunciano niente di buono.

Immagine d’apertura: 1999. Bombardamenti su Belgrado. In alto un Tornado

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