Mancate risposte alla domanda: Che cos’è la guerra?

GIANNI CHECCHIN
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 …la pace non ci sarà, poiché la guerra si nutre precisamente di quel nulla che per ultimo resta tra i combattenti, e si nutre della loro stessa identità. Siamo così entrati in un’era di ostilità imprevedibile, un crepuscolo della guerra che fa della violenza il nostro ultimissimo Logos. [René Girard, Portando Clausewitz all’estremo]

non c’è nulla di intelligente da dire su un massacro. [Kurt Vonnegut, Mattatoio N.5]

Sembra proprio che avesse ragione Elias Canetti quando ottant’anni fa, mentre gli abitanti di questo pianeta si stavano macellando senza quartiere, scriveva che “la guerra è talmente nell’ordine delle cose che la gente finisce per sentircisi a casa”. Figuriamoci adesso, qui da noi; nelle nostre strade e per le nostre campagne non si aggirano carrarmati, di notte non suonano gli allarmi antiaerei, e terroristi assassini non sfondano le porte delle nostre case, fortunatamente. Dobbiamo, com’è giusto che sia, fare i conti con ciò che ci hanno lasciato incendi e inondazioni, con le iniziative del governo, con l’inflazione e i rincari, con il possibile ritorno del covid. Insomma, per ora, noi non dobbiamo confrontarci con l’estremo. Molti mesi fa ci siamo indignati e commossi, al tempo dei “bellissimi” reportage di Francesca Mannocchi, girati come film di Coppola o di Stone e accompagnati da raffinate colonne sonore, come Spectre dei Radiohead. Abbiamo assistito ogni sera a dibattiti interminabili fra “esperti” di varia natura, abbiamo ascoltato le opinioni degli idioti e degli intelligenti, abbiamo parteggiato per l’aggredito, qualche volta abbiamo cercato di capire le motivazioni, se non le ragioni, dell’aggressore. Anche in questi giorni si ripete il copione, con la svolta sanguinosa della crisi israeliano-palestinese (ma non so se avete notato, il “dibattito”, questa volta, è decisamente più scarno e affannato). Il fatto è che prima o dopo si entra inevitabilmente nella fase del “naufragio con spettatore”; perché, bisogna ammetterlo, stare troppo a lungo “davanti al dolore degli altri” produce uno sgradevole effetto anestetizzante, fino a renderci irritabili se qualcosa o qualcuno quel dolore ce lo ripropone. E ora è come se tra le tante colpevoli banalità che si aggirano per l’Europa, come stupidi spettri (appunto), fosse diventata dominante una fastidiosa ripetizione: “la guerra è la guerra”. Come dire, da un lato, nonostante l’ipocrita sorpresa che quasi tutti sembrano manifestare: è qualcosa che nella storia si ripete, sembra sia inevitabile; dall’altro: sappiamo tutti cos’è. É lì, sempre sotto traccia, una sorta di implicita definizione, come se al di là delle differenze si potesse esibire una conoscenza che starebbe proprio nel riconoscere l’identità della “Cosa” con sé stessa, come se l’estrema tautologia ne rendesse evidente il significato e tutte le sue possibili costellazioni. 

Tutto questo è altamente illusorio, perché ciò di cui parliamo quando parliamo della guerra non è la Guerra. La Guerra è come il Dio ignoto della teologia apofatica, è come il Nulla, come la Morte. Da tempo dovremmo sapere che ci sono cose a questo mondo che possono essere avvicinate solo dal mythos e non dal lògos, ma noi europei lo dimentichiamo troppo facilmente. Tolstoj può raccontare la morte del principe Andreij e io parlare di quella di mia madre, ma non si parla mai della Morte; così come non parliamo della Guerra, ma di questa o quella guerra, da Ilio all’Ucraina, al Medio Oriente. Raccontarle, non comprenderle. Come si fa a “comprendere”, (nel senso di afferrare, possedere, fare in qualche modo propria, custodire nel linguaggio…) qualcosa che è fatto di infiniti eventi dispersi, spesso casuali e imprevedibili, un  caleidoscopio di stupidità e crudeltà, irriducibile ad un unico concetto? Possiamo provare con qualche parziale “grigia” genealogia (direbbe Foucault), o cercare di mettere insieme i tratti comuni a tutte le guerre, una sorta di minimo (insufficiente) comune denominatore, perché in fondo siamo sempre ossessionati dall’Identità, sembra che non possiamo farne a meno.

Si dirà che anche questa è una banalità. Forse sì, non lo so, su questi terreni si procede a tentoni. Tutti dovremmo procedere a tentoni in questa “oscura chiarezza” (Lévinas). Dopo che i filosofi, gli storici, i sociologi, gli psicoanalisti ci hanno detto la loro “intorno” alla guerra, dopo che ognuno di noi si è sentito più o meno confermato nei propri pregiudizi, forse quel che rimane è soltanto l’ultima parola che esce in un bisbiglio dalla voce strozzata di Kurtz morente, come il volo dell’avvoltoio che plana in cima alle Torri del Silenzio degli antichi Parsi, in attesa dell’orrendo pasto sacro. Ma anche questo è troppo facile e, in fondo, anche linguisticamente, oltre che concettualmente, debole. E l’impasse è inevitabile. L’orrore, che abita nell’angolo di tenebra del cuore di ognuno di noi, ha mille volti e quello delle guerre, uno dei tanti (forse nemmeno il peggiore), circoscrive appena una minima parte dell’“ineffabile”.

Come tutto ciò che è ineffabile e al tempo stesso brutale, ciò che chiamiamo guerra sembra anche “elementare”, e questo può dare l’illusione di poterne parlare come si fa di qualsiasi altra cosa. Se “ineffabile” ed “elementare” vi sembrano termini troppo vaghi, contraddittori o inadatti al tema, possiamo usare l’espressione di Clausewitz, ripresa da René Girard: “tendenza all’estremo”. Se “la guerra è un atto di forza, all’impiego della quale non esistono limiti”, allora è evidente che di essa non ci può essere nessuna definizione e conoscenza, come per Dio, come per la Morte, come per tutto ciò che tende all’estremo. Che la “guerra assoluta”, quella che appunto tende all’estremo, possa diventare “guerra reale”, e non soltanto un concetto limite o un idealtypus, è un’evidenza che abbiamo sotto gli occhi in questi giorni, ma che è manifesta almeno dalla Seconda Guerra mondiale. Il milione di tonnellate di bombe sganciate dagli alleati in quattrocentomila incursioni su centotrentuno città tedesche causando seicentomila morti tra i civili e le atomiche su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945, quando ormai era già chiara la sconfitta del Giappone, sono esempi tra i tanti, per quanto riguarda i “buoni”. Dall’altra parte, Hitler, nella sua volontà di annientamento, come se non avesse già dato abbondanti prove di quell’“ebbrezza di distruzione” di cui parla Speer nelle sue Memorie, arriva al punto, nel momento in cui gli è chiara la sconfitta della Germania, di invocare la fine dell’intero popolo tedesco, quel popolo che non è stato in grado di vincere e che quindi non merita di sopravvivere all’immensa massa dei morti, perché i sopravvissuti sono “roba di scarto”.

Ciò che dovrebbe inquietare profondamente qualsiasi coscienza è il legame tra tutto questo, tra le azioni di governi democratici e i deliri paranoici dei dittatori; da una parte e dall’altra siamo in presenza di uno sviluppo estremo della guerra, non tanto contrario a qualsiasi razionalità, quanto sua logica conseguenza, nel senso di suo “ultimissimo Logos”, come sostiene R.Girard. Nella sua Storia naturale della distruzione, W. G. Sebald, parlando di Sir Arthur Harris, che era al vertice del Bomber Command, scrive:

[Sir A. H.] credeva nella distruzione per la distruzione e rispondeva quindi, meglio di chiunque altro, al fondamentale principio ispiratore di qualsiasi guerra: il più completo annichilimento del nemico, compresi i luoghi da questi abitati, la sua storia e il suo ambiente naturale.”

È come dire, tra le altre cose, che in fondo la guerre en forme, quella dei bei tempi andati, non è mai esistita; è una sorta di finzione storico-letteraria, per permettere ai polemologi di elaborare interessanti o rassicuranti teorie, o a qualche anima bella ed esaltata di raccontare le guerre passate come nobili duelli. I conflitti del Novecento, non solo le due guerre, hanno tolto definitivamente la maschera all’ “antica festa crudele”, che non ha mai avuto niente di festoso.

Ma anche il racconto, come già ci avvertiva Walter Benjamin nel 1933 in Esperienza e povertà, dopo la Grande Guerra non è più possibile nei termini in cui poteva esserlo prima.

Non si poteva già allora constatare che la gente se ne tornava muta dai campi di battaglia? Non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile.”

Ernst Jünger, che partecipa a entrambi i conflitti, e con il quale Benjamin polemizza duramente, dell’esperienza della guerra invece ne parla fin da subito in quel libro lucido e scostante che è Nelle tempeste d’acciaio. Il giovane Jünger, mettendo già alla prova le risorse di quello che sarà il suo futuro stile, la sua asciutta retorica, in un ineguagliabile esempio di consapevole estetizzazione dell’orrore, scrive pagine notevoli in cui mette in evidenza come nel campo di battaglia disseminato di cadaveri veniva suscitata “un’esaltazione chiaroveggente, quale solo l’immediata vicinanza della morte può produrre”. L’orrore viene trasceso, introduce a una nuova inesplorata terra, dove c’è da attendersi una qualche inaspettata sconvolgente rivelazione, su quel confine dove vita e morte si confondono.

Gli fa eco, come in una livida e indignata risposta dall’altra parte, sull’altro lato di una trincea e di una visione dell’umano, quel che scrive un altro testimone di quella guerra, Gabriel Chevallier, in un libro, intitolato non a caso La paura, uscito nel 1930. Nel suo ricordo, forse riferendosi alla stessa battaglia di cui parla Jünger, per Chevallier si è trattato di momenti in cui, lungi dal vedere chissà quale significato superiore, accadde invece che “superammo la pietà, l’onore, la vergogna, cacciammo via tutto ciò che è sentimento, tutto ciò che eleva l’uomo.”

Non possono esserci due uomini più lontani tra loro di Jünger e Chevallier (nati, tra l’altro, nello stesso anno, 1895), entrambi giovani soldati nella Grande Guerra, eppure, leggendoli, si sente che  qualcosa li accomuna, e non è solo la “banale” circostanza di aver partecipato da protagonisti allo stesso evento. Nelle loro pagine è il pathos ciò che tiene insieme l’esaltazione quasi mistica di Jünger e il pacifismo combattivo di Chevallier. Sono entrambi convinti che l’esperienza di quella guerra abbia prodotto nel loro spirito cambiamenti fondamentali che determineranno le loro visioni della vita, apparentemente opposte nella sostanza ma identiche nella genesi.

Scrive Jünger, in La battaglia come esperienza interiore del 1922:

La guerra è umana quanto l’istinto sessuale: è legge di natura, perciò non ci sottrarremo mai al suo fascino. Non possiamo negarla, altrimenti finiamo divorati.

(Sembra rispondergli, da un altro pianeta, Simone Weil: “La guerra e eros sono le due fonti di illusione e di menzogna tra gli uomini; la loro mescolanza è la più grande impurità.”) Per Chevallier, invece, accettare la guerra, o addirittura esaltarla, significa “travestire da ideale ciò che è pura delinquenza, e fare in modo che venga approvato.”

Due uomini della stessa età, che hanno avuto la stessa drammatica esperienza esteriore/interiore, traggono conclusioni opposte, ricavano due visioni della guerra, e quindi della vita, inconciliabili ma in fondo radicate nella stessa convinzione: che la guerra sia una “faccenda” in cui, per chi la vive, ne va del senso dell’uomo, o della storia. Gabriel Chevallier è solidale con Jünger nel considerare il “valore” della sconvolgente esperienza fatta. Umano, troppo umano, direbbe Nietzsche! Valori e disvalori qui s’intrecciano e, in un certo senso, si neutralizzano a vicenda, aprendo un vuoto in cui tutti annaspano.

“La guerra non è più la guerra”, scrive invece Drieu la Rochelle in La commedia di Charleroi, anche lui testimone diretto de quel conflitto. Senza più pennacchi, cavalli e trombe, “la guerra moderna è una rivolta malefica della materia asservita all’uomo.” È un’esperienza da cui non si impara nulla; è solo una commedia, sanguinosa e terribile ma una commedia. Anche lui, però, cade nel tranello del linguaggio “ontologico”, e vuole dirci cosa la guerra non è più, cosa è diventata, lasciando intravedere cos’era

Il fatto, e la difficoltà, è che con tutto ciò che riguarda la Guerra siamo in presenza di quella parola (pòlemos) che, per noi occidentali, sembra riassumerne molte altre, o addirittura tutte o, meglio ancora, tutte fecondarle, come già sembrava dire la saggezza più antica. Ma se c’è una cosa che mi sembra di aver capito un po’ dalla filosofia è questa: quel che sta all’Inizio, o nei paraggi, (che lo si chiami pòlemos, archè, Principio, Origine, Dio, Assoluto…) è comunque Abgrund, come ha cercato di spiegarci per un’intera vita accademica il professor Heidegger; qualcosa che a volerci guardare dentro si precipita, come Empedocle nel cratere dell’Etna, o si viene guardati dall’abisso stesso come avverte Nietzsche, si ammutolisce, oppure si chiacchiera all’infinito, “senza fondamento” appunto.

Le risposte, quindi, mancano, come mancano a tutte le domande fondamentali (ammesso che ci siano domande veramente fondamentali). Non che non ci siano le presunte risposte, anzi ne vengono date anche troppe, ma vanno a caso, come colpi al buio, verso un bersaglio che è sempre altrove, e lasciano un vuoto, a malapena circoscrivono un’insufficienza, una delusione, e anche un senso di colpa per un fallimento. (Manque-à-être, direbbe Lacan, un mancato incontro tra il linguaggio e quella “Cosa” che sarebbe la Guerra). Paradossalmente dovremmo far tesoro di questa mancanza. Soltanto, dovremmo esserne pienamente consapevoli; e questo non si dà, non si dà ancora, forse non potrà mai darsi. 

Leggo il libro di Svetlana Aleksievič, con le testimonianze delle donne sovietiche che hanno combattuto nella Seconda guerra mondiale e, come l’autrice stessa sottolinea, la cosa che più colpisce è che nessuna di quelle donne, che hanno fatto tutto ciò che facevano gli uomini in guerra, compreso ovviamente uccidere, ha ritenuto quell’esperienza in grado di dare loro qualcosa di più di una spaventosa parentesi nella quale, però, il dovere principale era quello di conservare il senso del proprio essere femminile, anche con tutte le sue “futilità”. E questo perché

…l’uomo viene cresciuto fin dall’infanzia nell’idea che forse un giorno gli toccherà sparare. Non così le donne…non le si appresta a questo lavoro…Non ne hanno nozione né memoria…Ricordano altro, ricordano in modo diverso. E sono in grado di vedere cose precluse agli uomini. (La guerra non ha un volto di donna)

 Io non so se nella vita di quel che chiamiamo Spirito si dia una qualche differenza di natura tra il maschile e il femminile, ma c’è una differenza evidente nell’approccio al nostro problema.

Perché, – scrive Virginia Woolf  in Le tre ghinee – anche se molti istinti sono ritenuti patrimonio comune dell’uomo e della donna, combattere è sempre stato un’abitudine dell’uomo, non della donna. La legge e l’esercizio hanno sviluppato quella differenza, non importa se innata o accidentale.

Sublime la “leggerezza” di quell’abitudine, riferita alla pratica umana più terribile. Da questa constatazione Virginia Woolf trae la conclusione, non so quanto convinta, che, dal momento che le donne non conoscono il tipo di bisogno che spinge gli uomini a combattere e l’esaltazione che vi trovano, loro, le donne, fanno fatica a “giudicare ciò di cui non si ha esperienza”.

Altre due donne, in due brevi magistrali scritti sulla lontana madre di tutte le guerre che riguardano noi occidentali, ci hanno detto, intorno a quella “Cosa” così maschile per eccellenza che è la guerra, un paio di piccole verità che noi uomini forse facciamo fatica a intendere, e anche quando le intendiamo poi le dimentichiamo facilmente. Credo che noi uomini, in un certo senso, capiamo poco la guerra proprio perché la facciamo, quindi ci manca il “pathos della distanza”. Strateghi o geofilosofi, guerrafondai o pacifisti, realisti o anime belle, siamo coinvolti nelle guerre come se facessero parte del nostro essere uomini, anche se non abbiamo mai toccato un’arma o proviamo ripugnanza al solo pensiero di doverla usare.

In ogni caso qui traballa il principio vichiano per il quale si conosce ciò che si è in grado di fare. Ora, credo che lo spirito femminile non sia in grado di conoscere la guerra di più o meglio dello spirito maschile. Siamo lontani tutti. Ma credo che lo sguardo femminile, anche se non va più lontano, abbia una prospettiva più ampia, forse anche perché più “disinteressato”; credo sia anche più “fenomenologico” (mentre noi, lo ripeto, siamo irrimediabilmente “ontologici”, quindi “metafisici”, anche quando lo neghiamo o pensiamo di essere dei ferrei realisti); non vede solo ciò che sta accadendo ma ciò che accade intorno alla battaglia. Andromaca ed Elena sono dolorosamente più lungimiranti di Ettore e di Achille. Solo quando tutto sta per accadere, l’uomo sembra avere un lampo di consapevolezza: “Alla vigilia della guerra, Ettore abbraccia con un ultimo sguardo i veri beni della vita, esposti di colpo nella loro nudità di bersagli.” (Rachel Bespaloff, Sull’Iliade

Poi però gli uomini, i guerrieri, devono agire, quindi non possono più pensare né sentire, e la guerra diventa ciò che è: solo disperata téchne. I maschi devono affrontare la violenza e la paura (perché “è la paura della morte che dà il gusto della morte”, sostiene Simone Weil), in loro e fuori di loro; non hanno occhi che per ciò che li minaccia ora e qui, tuttalpiù progettano un sacrificio, il loro o quello del nemico. 

La molla della guerra è la disperazione. Questa disperazione esiste ovunque l’uomo è sacrificato. (Simone Weil, L’Iliade poema della forza)

Quello degli uomini non è “un terribile amore per la guerra”, è piuttosto una fatale inclinazione, un vortice che li investe e li trascina, anche quando credono di controllarne la potenza. Sono dominati dalla forza, dice la Weil, e questo li acceca e alimenta la furia senza la quale non c’è battaglia, non c’è vittoria né sconfitta. Possiamo girarci intorno finché vogliamo, trattarla come “la prosecuzione della politica con altri mezzi”, considerarla dal punto di vista del diritto, della teologia o della morale, ma se c’è un’evidenza senza profondità nella guerra è soltanto che ha a che fare col più terribile e al tempo stesso più umano degli atti: dare e ricevere la morte, in modo collettivo, e quindi velati da una apparente giustificazione. Tutto questo ha conseguenze che non riguardano solo l’omicidio, la sofferenza e la morte. Oltre l’annientamento fisico c’è quello che Lévinas chiama “l’interruzione dell’identità delle persone”, perché la violenza che le investe, in chi la esercita e in chi la subisce, si risolve “nel far loro recitare delle parti nelle quali non si ritrovano più, nel far loro mancare, non solo a degli impegni, ma alla loro stessa sostanza, nel far compiere degli atti che finiscono con il distruggere ogni possibilità di atto.”(E. Lévinas, Totalità e infinito

 Anche qui, nelle parole di Lévinas, la mancanza.

Non siamo in grado di rispondere alla domanda: cos’è la guerra?,  perché non ne possiamo conoscere l’Origine, come non conosciamo l’origine di niente. Sappiamo, in ogni caso, cosa accade nelle guerre. 

Dal potere di tramutare un uomo in cosa facendolo morire, procede un altro potere, e molto più prodigioso: quello di mutare in cosa un uomo che resta vivo.” (…) Le battaglie non si decidono tra uomini che calcolano, combinano, prendono una risoluzione e la attuano, ma tra uomini spogliati di queste facoltà, trasformati, caduti al livello della materia inerte che non è che passività, come delle forze cieche che non sono che impeto. (S. Weil, L’Iliade poema della forza)

E Rachel Bespaloff:

La forza si conosce e gode di sé solo nell’abuso in cui abusa di sé stessa, nell’eccesso in cui si dissipa.

E aggiunge:

Condannare o assolvere la forza equivarrebbe a condannare o assolvere la vita stessa.

La forza possiede quel tipo di bellezza che è “la suprema illusione dell’esistenza”, che travolge la giovinezza e la immola sull’altare di una pienezza di vita che si vuole raggiunta proprio là dove invece si svuota. Alla fine del capitolo dedicato ad Elena, la Bespaloff butta lì, inaspettatamente ma non tanto, questa affermazione:

Giacché alla fine – e contrariamente a quanto sostengono i nostri economisti – i popoli che si fanno la guerra per conquistare i mercati, le materie prime, le terre fertili e le loro risorse combattono innanzitutto e sempre per Elena. Omero non ha mentito.” Elena, che in fondo non appartiene né a Paride né a Menelao, forse rappresenta ciò che in ogni guerra vi è di impossibile da conquistare: un eccesso, un dispendio, una consumazione della vita senza profitto (Bataille). Elena è bella, è la Bellezza, e gli uomini vogliono morire per ciò che credono bello, sia esso la “gloria”, il “potere”, il “prestigio”, desideri che non potranno mai essere soddisfatti. 

Qui, lungi dall’essere una promessa di felicità, la bellezza incombe come una maledizione. Ma nel contempo isola, innalza, preserva dagli oltraggi. Da ciò deriva il suo carattere sacro, nel senso originariamente ambiguo del termine – insieme esaltante e vivificante, malefico e terribile. (R. Bespaloff, Sull’Iliade)

Avevano sicuramente ragione tutti quei filosofi (come Max Scheler) che pensavano che “nella guerra si combatte per qualcosa di superiore alla semplice esistenza”; ma tutti quegli intellettuali, da una parte e dall’altra delle trincee, che allo scoppio della Grande Guerra hanno subìto una sorta di entusiastico accecamento, tirando in ballo scontri epocali tra Kultur e Zivilisation, tra il “macchinismo prussiano” del militarismo tedesco e “lo slancio vitale” dello spirito francese (Bergson), e  che si sono inabissati in deliranti peana sulla fecondità del sangue, sul vitalismo della lotta e del conflitto, o sulla difesa dei valori della civiltà, forse non avevano inteso che si stavano esaltando per un simulacro di Elena. O forse anche sì, nella misura in cui simulacro, o fantasma, è intercambiabile con ideale (ma anche con feticcio, come nel “feticismo della merce”, così sono contenti anche gli economisti). Persino un signore posato come Croce, che peraltro criticava gli eccessi retorici che venivano da entrambe le parti, arrivava a sostenere che la guerra contribuisce al progresso del pensiero, tanto che “ciò che non si può imparare durante anni e anni, si può talvolta impararlo in un giorno solo, per uno scotimento di animo”.

Renato Serra, l’intellettuale italiano più onesto che in quegli anni abbia scritto sulla guerra, poco prima di arruolarsi e andare a morire quasi subito, ha lasciato quel testo tormentato che è Esame di coscienza di un letterato, dove troviamo parole che potrebbero essere uscite dalla penna di un Dostoevskij-Ivan Karamazov e che si ficcano ben dentro anche al nostro presente, quando ci fa notare qualcosa che dovrebbe essere evidente a tutti: anche se per un momento credessimo a un trionfo finale della giustizia, niente ripagherebbe

il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male, abbandonato senza rimedio all’eternità.

Non c’è nessun bisogno di ricorrere all’estremo per accedere all’essenziale. É accaduto a molti di camminare sui bordi taglienti della storia, o per le strade infami e gloriose delle esperienze al limite, e di rimanervi segnati per sempre, ma non credo che la partecipazione a una guerra permetta a un uomo, anche se di intelligenza superiore come Jünger, di avere una visione della vita e della morte più profonda di quella, tanto per fare solo un esempio, consegnata a migliaia di foglietti cuciti con ago e filo da quella strana e mite ragazza che era Emily Dickinson nel suo ritiro di Amherst. Buona parte del pensiero moderno di punta è dominato invece da una Weltanschauung pseudo-tragica, che ha riempito migliaia di pagine di ripetitive analisi spesso francamente noiose. Il pensiero tragico era una cosa seria, ma sopportabile e sostenibile solo da giganti inarrivabili. Anche se riuscissimo ad arrampicarci sulle loro spalle senza scivolare in modo goffo, come spesso accade, dovremmo essere consapevoli che viviamo in tempi poverissimi  (ce l’hanno detto e ripetuto alcuni degli ultimi giganti), e povero, quindi all’altezza dei nostri tempi, dimesso, senza nessuna enfasi e recitata disperazione dovrebbe essere anche quel poco di pensiero che possiamo balbettare. 

Oltre a Benjamin, un’altra vera intelligenza, Paul Valéry, ha colto bene l’unico insegnamento venuto dalla Grande Guerra, e potremmo dire da qualsiasi guerra, sintetizzato nell’incipit di La crisi dello spirito (1919): “Noi, le civiltà, ora sappiamo di essere mortali.” E aggiungerei, contro Scheler: ciò che è “superiore all’esistenza” è semplicemente nulla. 

Ed è per questo che

… la guerra cancella ogni idea di scopo, fino all’idea stessa degli scopi della guerra. Cancella il pensiero stesso di mettere fine alla guerra. La possibilità di una situazione a tal punto violenta è inconcepibile finché non vi si abita; ma quando vi si abita è inconcepibile che abbia fine. Così non si fa nulla per procurare quella fine. (S. Weil)

Cerco di concludere queste note su una spiaggia siciliana, mentre l’altoparlante dello stabilimento diffonde a ripetizione la musica leggera italiana più brutta degli ultimi trent’anni. Sono in compagnia di tanti altri spettatori dei tanti altri non visti naufragi che dovrebbero riguardarci, là al largo. Altre guerre. Vorrei avvertire un senso di colpa insistente, da poter condividere con questi miei distratti simili/dissimili, fratelli il cui Padre è morto lasciando un testamento per noi ormai illeggibile. Vorrei sentire una qualche responsabilità, anche remota, per quanto di insopportabile infetta la terra. Ma la decisione razionale non riesce a incontrare la disposizione emotiva, tantomeno una qualche idea d’azione, e tutto rimane sospeso in un inutile malessere. 

Ma intanto, forse, per poter andare oltre il fallimento di tutte le critiche alla guerra dall’esterno, è necessario “avere la forza di entrare nelle sue fauci e, senza pietà, strapparle le viscere dal corpo” (E. Canetti); che, fuor di metafora, significa cominciare, tutti, a provare una nuova, nemmeno tanto sconosciuta e terribile vergogna, sentimento che, anche nelle sue forme più semplici, ha sempre meno quotazioni nella nostra vita.

Vergogna, vergogna, che io sia sopravvissuto a tutte le vittime. Sono mai stato nella Madrid bombardata, ho mai condiviso l’esodo da Parigi, sono mai stato ad Auschwitz? Ho fatto abbastanza, per essere stato testimone e non vittima, ho il diritto di essere in vita, e l’esito di questa vita cambierà anche solo in minima parte i futuri orrori? (E. Canetti, Il libro contro la morte)

Sostituite i nomi dei luoghi e degli eventi, e avrete ciò che ci riguarda.

Torno al conforto del mare. Davanti a me bambine e “fanciulle in fiore” passeggiano in gruppo; la grazia naturale dei loro movimenti, i loro volti dorati dal sole, le loro piccole risa, sono l’evidenza inconfutabile che almeno a loro non potrà mai appartenere il passo di Marte, anche quando i demòni della storia, quella storia che “mantiene in vita, dimostrandone l’antichità, le forme di fede più ignobili, di cui ognuno dovrebbe vergognarsi” (ancora Canetti), dovessero costringerle a imbracciare un’arma e assassinare un uomo.

Mancate risposte alla domanda: Che cos’è la guerra? ultima modifica: 2023-10-15T21:06:31+02:00 da GIANNI CHECCHIN
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1 commento

Rodolfo 16 Ottobre 2023 a 10:38

Straordinario articolo, che mi lascia in silenzio e in riflessione. Grazie.

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