L’aut aut di Israele

ALBERTO MADRICARDO
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È ora di dire basta allo scaricabarile che si pratica oggi a livello mondiale per cui ogni parte in conflitto attribuisce all’altra la responsabilità di aver creato condizioni che non lasciano scelta, presentando se stessa come obbligata a fare quello che fa. Dobbiamo affermare il principio che, se solo raramente un agente sulla scena della storia è totalmente responsabile delle condizioni in cui viene a operare, non si è mai del tutto con le spalle al muro e non esistono – per quanto deboli si sia – vie obbligate. Sartre diceva che se un individuo non condivide moralmente le azioni del paese di cui fa parte, per evitare di esserne complice può dissociarsene anche con il suicidio. 

È vero che chi è più potente in genere è in grado di rendere le condizioni più facili per sé e più difficili per il suo nemico. Chi è più forte può spingere l’antagonista a fare scelte che lo fanno apparire più cattivo. Ma una vera costrizione non c’è mai. Per quanto difficili siano le condizioni esterne, ciascuno resta responsabile di ciò che fa.

C’è stato un tempo in cui Israele non era in grado di creare condizioni favorevoli per il proprio agire. Ai suoi inizi il movimento sionista in Palestina era debole e decise di ricorrere “all’arma dei deboli”: il terrorismo. Per l’imprevedibilità e il carattere indiscriminato dei suoi possibili obiettivi, il terrorismo è sempre difficile da prevenire, mentre ha una forte capacità di destabilizzare il nemico. In certi casi perciò la tentazione di usare il terrorismo diviene particolarmente forte (e non solo per quelli che, in uno scontro, si trovano a essere i più deboli).

Le organizzazioni paramilitari sioniste operanti in Palestina compirono attentati sanguinosi tra i quali ricordo quello all’Hotel King David di Gerusalemme nel 1948 che provocò 91 morti e numerosi feriti. Possiamo ritenere che per le condizioni della loro debolezza, per i precedenti tentativi di pulizia etnica antiebraica messi in atto dagli arabi, gli attentatori ebraici fossero obbligati a farlo? No, non erano obbligati. Le organizzazioni paramilitari ebraiche che hanno praticato il terrorismo portano interamente la responsabilità di quello che hanno fatto. Eppure alcuni degli attentatori assunsero più tardi posizioni di responsabilità nel governo o nell’esercito di Israele (Menachem Begin, organizzatore dell’attentato al King David, divenne addirittura primo ministro). Del pari, gli arabi che li hanno commessi sono responsabili dei pogrom antiebraici. 

All’inizio degli anni Novanta Israele era ormai abbastanza forte da non dover più temere per la propria esistenza. Era il momento della trattativa, e infatti nel 1993 vennero gli accordi di Oslo. A quel punto Israele poteva ragionevolmente puntare a un processo di pacificazione che gli avrebbe consentito, forse nell’arco di non più di un ventennio, di essere accolto nella famiglia dei paesi del Vicino Oriente. Da corpo estraneo esso sarebbe diventato a poco a poco meno estraneo. Certo, la strada non era semplice, ma la direzione era tracciata. 

Israele avrebbe spiccato per alcune eccellenze ma sarebbe stato un paese di piccola stazza e di media potenza, non l’egemone dell’area. 

Soldatessa israeliana

Il punto di svolta fu l’assassinio di Rabin, protagonista degli accordi di Oslo, il 4 novembre del 1995 a Tel Aviv. L’attentatore era un ebreo fanatico molto probabilmente “ispirato” dall’alto. Con questo attentato i circoli oltranzisti imponevano una svolta strategica: la scelta di un Israele sempre più estraneo, armato fino ai denti, destinato a supportare con sempre maggior forza la sua estraneità, a una guerra infinita, con l’aspirazione di diventare potenza mondiale. Per raggiungere questo scopo mettevano in programma di incorporare la Cisgiordania e parte della Siria. Sarebbe stato a ogni costo realizzato lo Eretz Israel, il Grande Israele, rivendicato in base a riferimenti biblici di nessun valore giuridico. 

Lo stato di Israele, coerentemente con questa scelta strategica, perseguì una politica di armamento (anche con l’acquisizione della bomba atomica) all’avanguardia nel mondo, di straordinario potenziamento delle tecnologie e delle tecnologie e pratiche di intelligence. Così sarebbe diventato non solo egemone sull’area del Vicino e Medio Oriente ma avrebbe attuato la sua aspirazione mondiale. 

Non c’erano ragioni esterne a spingerlo su questa strada. Non lo faceva per salvaguardare la propria sopravvivenza. L’avventura coloniale era intrapresa per hybris, per volontà di potenza, solo per questa.

Dando il via alla colonizzazione della Cisgiordania – in contrasto con l’art. 49 della IV Convenzione di Ginevra e le disposizioni delle Nazioni Unite – ignorando/schiacciando l’esistenza di un popolo palestinese, Israele ha via via reso impossibile di fatto l’attuazione dello stato di Palestina e vanificato gli accordi di Oslo. Con ciò però privava se stesso di ogni alternativa politica: la parola sarebbe stata alla forza, solo alla forza. 

Fossa comune per i civli di Gaza colpiti dalle bombe israeliane

Tutto ciò avrebbe avuto pesanti ripercussioni interne allo stato di Israele. Il suo asse politico si sarebbe sempre più spostato verso destra, provocando, nonostante le resistenze di minoranze illuminate, un’involuzione in senso religioso – teocratico del paese. Nel 2018 è stata approvata la “Legge fondamentale” che proclama Israele come “Stato-nazione del Popolo ebraico”. Un atto gravissimo, perché esclude dalla cittadinanza israeliana tutte le minoranze etniche e religiose (prima di tutto quella degli arabi che vivono entro i confini d’Israele, attualmente il 20% della popolazione dello stato). È evidente che una tale legge non può che essere il presupposto di nuove persecuzioni e pulizie etniche.

I palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, costretti all’impotenza da più di cinquant’anni di dura occupazione militare e a subire la crescente prepotenza dei coloni, hanno visto ridurre sempre più lo spazio fisico a loro disposizione e restringersi negli anni le loro possibilità di vita. L’impotenza ha fatto crescere la frustrazione e l’odio. La diffidenza e l’astio della popolazione sono cresciuti anche contro la stessa OLP, disprezzata per la sua corruzione e soprattutto per l’atteggiamento accomodante nei confronti dell’occupante giudicato da molti al limite del collaborazionismo. 

Ma una situazione ancora più insostenibile si è determinata negli anni nella striscia di Gaza. Qui – come si sa – a partire dal ’48 sono defluiti numerosi profughi dalle terre occupate da Israele. Il sovraffollamento vi è così estremo e le condizioni di vita della popolazione così dure (più di due milioni di abitanti, costretti a vivere in un fazzoletto di terra di 37 km di lunghezza, 5 di larghezza) che hanno consigliato a Israele di ritirarsi nel 2005. Non per porre fine all’occupazione: per renderla meno gravosa per sé. Israele infatti non deve più occuparsi dell’amministrazione del territorio – come il diritto internazionale impone alla potenza occupante – ma continua a detenerne il controllo.

La striscia è sigillata da Israele da tre lati: da terra e dal mare (il quarto lato è controllato dall’Egitto). Esso controlla le entrate e le uscite (salvo quelle dal valico di Rafah controllato dall’Egitto), i movimenti di merci (l’economia della striscia è in gran parte dipendente dagli aiuti internazionali), l’erogazione dell’energia elettrica e dell’acqua, la cui qualità è stata definita dalle organizzazioni sanitarie internazionali “non potabile”. 

Israele insomma continua a tenere nelle sue mani la vita degli abitanti, in quella che è stata da molti definita “la più grande prigione a cielo aperto del mondo”. 

Questa è la situazione che ha consentito a un’organizzazione terroristica come Hamas di essere eletta a governare la piccola enclave. 

I palestinesi ivi residenti sentivano il bisogno di riscattarsi dall’umiliazione quotidiana e da una vita da incubo, di qualcuno che in qualsiasi modo, qualunque fosse, anche se efferato, gli ridesse energia e fierezza. Per sentirsi vivi. 

È molto difficile resistere alla tentazione di farsi determinare dalla situazione, quando si è costretti a vivere in condizioni estreme, come topi. Hamas è come una molla di rabbia compressa che a un certo punto scatta: non ha nessuna visione strategica oltre la vendetta ma è molto attiva nella politica sociale, con la quale crea consenso popolare. Così, quello che poteva essere il primo segno di una sacrosanta riscossa nazionale è ora lordato dal sangue di una atroce carneficina. 

Un governo responsabile di Gaza doveva stringere i denti e guardare lontano, rinunciare a un momento di gioia feroce e usare la forza ritrovata per creare consenso intorno. Non rispondere alle ingiustizie e alle umiliazioni subite nei decenni (i massacri come quello dei campi profughi di Sabra e Shatila in Libano nel 1982, lo schiacciamento a suon di bulldozer di ogni diritto del popolo palestinese sulle sue terre, la dura repressione delle due intifada, gli orrori dei coloni in Cisgiordania, la violazione sistematica del diritto internazionale e delle risoluzioni dell’Onu, il tradimento degli accordi di Oslo…). Tutto questo, e altro, non giustifica minimamente Hamas.

Come, d’altra parte, gli orrori di Hamas non giustificano minimamente quelli che Israele nella sua rappresaglia ha già iniziato a commettere. In entrambi i casi ciascuno è vincolato da condizioni, non determinato da cause

Ma ora la situazione è diventata così estrema che si può anche determinare una paradossale “inversione” di ruoli. Il fatto che i palestinesi si trovino nella posizione di non aver nulla da perdere se non la loro vita, i loro corpi, può convertirsi per loro in un punto di forza.

Manifestazioni pro-Palestina in tutto il mondo, anche negli Usa

Israele invece ha tutto da perdere. La tolleranza infinita dell’Occidente, all’ombra della quale esso ha potuto portare avanti la sua politica imperniata esclusivamente sulla forza, potrebbe indebolirsi se non proprio finire a fronte di un’azione che, a prescindere dalle intenzioni degli Israeliani, potrebbe risultare genocida in una situazione particolarissima come è quella della Striscia (Gaza è uno dei luoghi a maggiore concentrazione demografica della Terra). 

In caso di attacco, che sembra imminente, sarebbe praticamente impossibile per gli Israeliani distinguere tra Hamas e civili. Quando si dice che Hamas usa in civili come scudi umani, viene amaramente da sorridere. Tutto è così mescolato, cosi strettamente intrecciato a Gaza, che è oggettivamente impossibile separare qualcosa da alcunché. 

Il commettere, di fatto, quella che agli occhi del mondo – finalmente dopo tanta indifferenza rivolti a Gaza – apparirebbe una strage di innocenti, un genocidio (la maggioranza degli abitanti della Striscia ha meno di sedici anni) potrebbe ridimensionare e forse anche compensare il “vantaggio” grazie al quale in questi decenni gli Israeliani hanno potuto fare tutto quello che hanno voluto senza incontrare opposizione da parte dell’Occidente. Esso infatti ha riconosciuto loro, in quanto popolo che ha subito l’olocausto, lo statuto speciale di vittime assolute. Ora, un altro genocidio, anche se di proporzioni molto inferiori alla Shoà, potrebbe conferire lo statuto di vittima assoluta anche al popolo palestinese. Ma due vittime assolute non sono possibili: si relativizzerebbero l’una con l’altra.

Se Hamas avesse calcolato questo possibile esito della situazione, se addirittura avesse puntato a “pareggiare” con un olocausto palestinese quello ebraico, avrebbe compiuto un’operazione di intelligenza demoniaca.

Se lo avesse fatto, avrebbe potuto perché c’era già qualcosa di sbagliato alla base della condizione di “vittima a prescindere”, di “vittima assoluta” riconosciuta al popolo ebraico e quindi allo stato di Israele. 

L’obbligo di solidarietà non lo abbiamo verso nessuno per ciò che è, ma per la condizione in cui si trova. Né con gli ebrei in quanto sono ebrei, né con i palestinesi in quanto palestinesi. Il cancelliere Scholz sbaglia quando, in una recente dichiarazione, afferma che “la Germania non può che essere a fianco di Israele”. Il senso di colpa della Germania non può farle dimenticare che nessun popolo ha il diritto al titolo di vittima assoluta: l’obbligo di solidarietà deve valere sempre per le vittime, per gli ebrei, come per qualsiasi altro popolo, solo fino a che sono nella posizione di vittime. Nel divenire della storia ogni popolo che è stato vittima può a sua volta, mutate le circostanze, diventare carnefice. 

Dicevo sopra che Israele, nella condizione in cui si è posto dopo la svolta che lo ha portato a vanificare gli accordi di Oslo, ha intrapreso un percorso da rullo compressore basato solo sulla sua forza e sui fatti compiuti. Perciò non ha niente veramente da offrire. Anzi, nel cul de sac in cui si è cacciato con le sue mani, corre il rischio mortale con i palestinesi dell’inversione dei ruoli.

Per offrire allo stesso Israele una via d’uscita dal vicolo cieco vedo necessaria un’immediata iniziativa internazionale. L’ONU deve ingiungere ai belligeranti un cessate il fuoco e decidere l’invio di un contingente di pace che si interponga tra i carri armati israeliani e gli abitanti della Striscia. Ciò che porrebbe fine, almeno per questi ultimi, a sedici anni di durissima prigionia, e permetterebbe l’internazionalizzazione della questione israelopalestinese, sollevando Israele dal dover scegliere tra l’ammissione della propria impotenza e il rischio di passare agli occhi del mondo da vittima assoluta a genocida.   

L’aut aut di Israele ultima modifica: 2023-10-16T21:21:51+02:00 da ALBERTO MADRICARDO
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