A 60 anni dalla distruzione di Longarone: il Metodo Vajont è ancora attuale?

MARIO SANTI
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I miei ricordi bambino incontrano Mai più Vajont 1963/2023 – una memoria di tener viva, perché quel genocidio ci insegni qualcosa e il passato non si ripeta.
Quando da bambino stavo divenendo ragazzo (fino ai nove anni, che avevo nel 1963) vidi sorgere, pochi chilometri davanti e alcune centinaia di metri sopra di me una diga. Anzi, “la” diga. Con i suoi 262 metri di altezza, la diga del Vajont era la più alta del mondo. L’orgoglio dell’ingegneria italiana e della sua capacità di realizzare grandi opere pubbliche, per le quali il nostro paese era allora all’avanguardia nel mondo.

Il Vajont è un torrente che sorge dalle cime di Pino. Siamo nelle Dolomiti d’oltre Piave, propaggini nord occidentali del Col Nudo, massima elevazione dell’Alpago. Cima, questa, forse più nota, almeno a una cerchia non così larga di alpinisti e scialpinisti (sulla quale sono stato sia a piedi – da casera Ditta – quindi versante friulano, che con gli sci – dal Venal di Montanel – quindi versante veneto; sono escursioni impegnative).

Il Vajont scende ripidamente nel Fos del Vajont, poi si dirige a nord meno ripido, formando la Val del Vajont. Quindi aggira una montagna (il monte Zerten) e si butta a ovest, contornato a nord dal monte Salta e a sud il monte Toc, prima di inforrarsi nella gola che precipita verso il fiume Piave, nel quale confluisce a Longarone. 

Dalla controcopertina de Il saldatore del Vajont di Antonio G. Bortoluzzi, Marsilio editore

Ed è per in questa strettoia che fu costruita una diga, per trattenere le  acque e dar vita al lago del Vajont.

Doveva essere il principale tra i numerosi bacini idroelettrici che nella montagne bellunesi costituiscono la più grande riserva di energia elettrica del Veneto (che pure conta su numerosi bacini – arrivando alla diga del lago di Centro Cadore si vede una mappa dove sono riportati tutti i bacini del sistema Boite-Maè-Piave-Vajont) .  ed una della più grandi del paese.  Negli anni Sessanta – quelli dell’industrializzazione e della grande crescita della zona industriali si Porto Marghera, l’idroelettrico fu una grande promesso di futuro …   

Io da bambino passavo a Longarone i miei agosti, nella casa dei miei parenti “zoldani”.

Dopo l’”ultimo” agosto, quello del 1963, ci mettemmo veramente molto ad “avere il coraggio” di tornare a Longarone, se non per passaggio (senza o con minime fermate), andando altrove.

Direi che fu Marco Paolini con il suo Racconto del Vajont, fatto dalla diga l’8 ottobre del 1997 a rompere dentro di me questa sorta di rimozione, più o meno volontaria. Da allora ho cominciato a “non rimuovere”, e qualche volta a pensare a quella storia. 

Quest’anno son stati sessant’anni e ci ho pensato un po’ di più.

Chi volesse approfondire quello che successe, avendone sentito parlare, ma non sapendone molto, consiglio la lettura di Mai più Vajont 1963 / 2023 – una storia che parla ancora, curato (per “Fuori scena”) da Paolo Di Stefano e Riccardo Iacona.

La diga venne progettata da una azienda privata, la SADE (società adriatica di elettricità), che la costruì tra il 1957 e il 1960, la mise in funzione e la passò all’azienda pubblica ENEL (ente nazionale per l’energia elettrica) in seguito alla nazionalizzazione del 1962. 

Longarone prima della tragedia

Il 9 ottobre 1963, una gigantesca frana di 270.000.000 mc si staccò dal monte Toc e precipitò nel lago. La diga non cedete ma la frana provocò un’immensa ondata di acqua e detriti, che da una parte devastarono paesi (Erto e in parte Casso) e case poste sulle due sponde del lago, dall’altra superarono lo sbarramento, piombando a vale con una violenza inaudita, su Longarone e sulle sue frazioni di Villanova Faè. Pirago e Codissago che vennero in gran parte distrutte. 

Il libro riporta gli articoli dei giornalisti che i principali quotidiani italiani inviarono a “raccontare il Vajont”.  Si vuole offrire una lettura di quella storia attraverso le cronache dei giorni terribili che seguirono la frana, l’esondazione dalla diga, la cancellazione di Longarone delle sue frazioni, oltre che di parte di Erto.

Troviamo testi di: Giorgio Bocca, Indro Montanelli. Dino Buzzati, Giampaolo Pansa, Alberto Cavallari, Mario Passi, Egisto Corradi, Corrado Stajano, Giuseppe Longo, Ludovico Terzi, Tina Merlin, Sandro Viola, Ettore Vo.

Già pochi giorni dopo il disastro un editoriale non firmato (quindi del direttore) del Corriere della sera (Giustizia senza rissa, del 13 ottobre) poneva al centro dei lavori della commissione di inchiesta creata dal Governo l’esigenza di chiarire responsabilità pubbliche e responsabilità private, passate e recenti, ponendo alcune domande che andavano al nocciolo del problema.

A questo atteggiamento di condivisibile buon senso, seguiva però (excusatio non petita?) un severo richiamo a “evitare il pregiudizio” e un attacco al “il grido d’odio” contro lo Sato “inetto corrotto, delinquente” lanciato a suo avviso dal Partito Comunista all’indomani della sciagura.

Quelle dei giornalisti citati sopra sono cronache emozionanti e drammatiche per tentare di descrivere una situazione ai limiti dell’indicibile, accompagnate da qualche prima riflessione. Alcune frasi virgolettate mi servono qui solo per rendere il clima e le forza di questi “racconti” .

Dal servizio di Giorgio Bocca “Non c’è più niente da fare o da dire tra fango e silenzio” per Il giorno dell’11 ottobre 1963 

Cinque paesi, migliaia di persone: ieri c’erano, oggi sono terra, e nessuno ne ha colpa, nessuno poteva prevedere, nessuno può riparare … gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è né buona, né cattiva, ma indifferente …

Dire che Longarone è una piazza ondulata, vuota, non è descrivere. È solo prendere atto di una cancellazione. Un grande cerchio di ansie e paure circonda ciò che non è più.

Dal servizio di Dino Buzzati “Natura crudele” per il Corriere della sera dell’11 ottobre 1963

Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Solo che il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi …

La diga del Vajont era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico. …

Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed astuta della fantasia della scienza …

… la diga, non per colpa sua, è costata duemila morti.

Tra i giornalisti, ci fu solo una voce “fuori dal coro”. 

Era quella di Tina Merlin, che aveva due caratteristiche che la candidavano a un più che probabile “oscuramento”.
Era donna e scriveva per l’Unità e questo bastava ampiamente – nel Veneto maschilista e democristiano degli anni Sessanta del secolo scorso – per essere messa “automaticamente” ai margini.
Era certamente – rispetto ai giornalisti citati nel volume (che sono tutti maschi) – quella che aveva un rapporto col territorio che le permetteva di conoscerlo in modo ben altrimenti approfondito,
Così era stata lei ad esprimere (con servizi apparsi sull’ Unità, fin dal 1959) i timori degli abitanti di Erto e Casso relativi alla solidità della montagna, ai movimenti, ai boati, alla conformazione del terreno, ai sismi, agli smottamenti. E a esprimere perciò seri dubbi sull’opportunità di avviare in quella zona quell’opera monumentale di ingegneria idraulica.

Tina Merlin

Per questi servizi la “Cassandra del Vajont” come la chiamavano pensando di sminuirla, venne querelata per “diffusione di notizie false e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico” e venne assolta con formula piena dal tribunale di Milano nel 1960.

Oltre ai servizi di quei “primi giorni” ne vengono riportati altri nei quali la distanza temporale, che si allarga (passando da una settimana a uno o più mesi, fino a qualche anno dopo il 9 ottobre 1963) consentendo visioni e analisi di quello che successe nel “dopo frana”

Ma qui vi lascio al gusto della lettura (se sono riuscito a stimolare il vostro interesse …).

Certo chi vorrà leggere quegli articoli si renderà conto che all’inizio l’atteggiamento maggioritario della stampa (per non parlare della televisione) – anche di fonte all’evidenza di fatti, fu teso a non voler addebitare responsabilità a chi aveva portato al disastro (SADE ed ENEL.SADE) e a chi avrebbe dovuto controllare lavori e gestione (lo Stato, con le sue articolazioni ministeriali).

  

Paolo Di Stefano rileva, nel suo contributo “Vajont, cronaca di un disastro“, che

…se da una parte gli editoriali si proponevano per lo più di gettare acqua sul fuoco della accuse considerate pregiudiziali, dall’altra le cronache, facendo parlare i sopravvissuti, finivano per aderire ai sospetti e alle paure che perduravano da tempo nell’opinione pubblica. 

Nel frattempo, s’incoraggiava una gara di solidarietà sul piano materiale ed ebbero molto successo le raccolte di fondi in favore delle popolazioni colpite.  

Ci pensa poi Riccardo Iacona in Il modello Vajont a mettere a fuoco con lucido realismo il problema.

Nel “modello tragedia del Vajont” il processo di rimozione e sottovalutazione dei pericoli è soprattutto alimentato da ragioni di natura economica. A prevalere è la logica del profitto: fermare la costruzione della grande diga del Vajont dopo quello che era stato speso in progettazione avrebbe rappresentato un bagno di sangue per le imprese coinvolte; allo stesso modo., fare la manutenzione straordinaria del viadotto Polcevera avrebbe significato una perdita secca per Aspi – la società autostrade – e per gli azionisti, decine e decine di milioni in meno di ricavi.

Sono citati anche altri casi di “disastri” che da questo punto di vista appaiono simili (compreso il recente “doppio alluvione” in Romagna.

È questo che rende attuale il doppio messaggio che i curatori affidano alla contro copertina.

Il Vajont di poteva evitare? E la tragedia di Marcinelle? E il  disastro della Val di Stava? E il crollo del ponte Morandi? Fatalità o colpa? Sempre la stessa domanda riemerge in occasione delle catastrofi italiane cosiddette naturali.

S’interroga Paolo Di Stefano

E sotto Riccardo Iacona sembra rispondergli.

La grande diga del Vajont sta ancora lì, ci parla e ci ammonisce dall’alto. Ci chiede di fermare lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali, di combattere l’aumento globale della temperatura, di curare prima, perché dopo è ormai troppo tardi.

Parole quanto mai attuali…

A 60 anni dalla distruzione di Longarone: il Metodo Vajont è ancora attuale? ultima modifica: 2023-10-18T22:06:00+02:00 da MARIO SANTI
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