Per un bambino degli anni Ottanta, tifoso della Roma, esistono ricordi indelebili, miti inossidabili ed esperienze che non si dimenticano. Una di queste riguarda senza dubbio Paulo Roberto Falcão, centrocampista moderno, a tratti più olandese che brasiliano, dotato di geometrie impeccabili, classe sopraffina e capacità di creare spazi dove non avrebbero mai dovuto esserci, trasformandosi nella gioia di qualunque attaccante abbia avuto la fortuna di giocare con lui.
Lo scorso 16 ottobre il divino di Xanxerê, nello stato di Santa Caterina, ha compiuto settant’anni, e a noi non resta che riflettere su quanto tempo sia trascorso da quando lo vedevamo danzare sui campi di una Serie A che poteva permettersi il meglio del mondo. Non a caso, eravamo chiamati la “Mecca del calcio”, con il meglio del calcio mondiale che faceva a gara a venire a giocare alle nostre latitudini. E quella Roma, forgiata da Dino Viola e portata al successo da un illuminista svedese di nome Nils Liedholm, quella Roma imbottita di fuoriclasse, pur avendo mezzi nettamente inferiori rispetto alla Juve dei sei campioni del mondo più Boniek e Platini, nel maggio dell’83 riuscì ad aggiudicarsi uno storico scudetto. Fu una festa di popolo, un tripudio collettivo, un trionfo accompagnato da cori e bandiere, con la gente impazzita che si riversava nelle strade e nelle piazze e i protagonisti dell’impresa elevati a dei, in una città facile agli entusiasmi e talvolta propensa agli eccessi.

Di quella compagine, questo genio, che sarebbe stato probabilmente titolare anche nel magno Brasile targato Pelé e sicuramente nell’Olanda di Cruijff, questo brasiliano atipico, con non poche caratteristiche europee, ne era l’alfiere. Quando girava lui, girava l’intera squadra, al punto che proprio Liedholm una volta dichiarò: “È Falcao che dirige l’orchestra in campo. Io, al massimo, qualche volta gli scrivo la musica o arrangio lo spartito seguendo certe idee”.Va detto, tuttavia, che se ancora oggi è rimpianto, se i bambini di allora continuano ad amarlo e quelli di adesso provano nostalgia per un idolo le cui gesta sono state loro narrate da genitori e nonni, è perché questa divinità carioca seppe scendere sulla Terra. E nulla stuzzica la fantasia dei tifosi più di un Dio che diventa uomo, che acquisisce alcuni tratti tipici della patria che lo ospita e lo eleva a profeta e che riesce, con il proprio smisurato talento, a rendere grandi anche i compagni. Falcão, infatti, era il primo violino di un’orchestra che poteva contare su musicisti del calibro di Tancredi, Bruno Conti, Pruzzo, Vierchowod, Cerezo e altri interpreti di una storia indimenticabile. E vinse, anche se gli mancò la Coppa dei Campioni, solo sfiorata nella tragica finale del 30 maggio 1984, all’Olimpico contro il Liverpool, quando al gioiello verdeoro mancarono le forze, o forse il coraggio, di presentarsi dal dischetto. Un appuntamento con la storia: l’unico al quale si sia sottratto, ponendo di fatto fine, in maniera triste, al suo rapporto di passione con un popolo che, però, l’ha ampiamente perdonato. Pertanto, dire Falcão, a Roma, equivarrà sempre a rendere omaggio al calcio nella sua accezione più nobile. Talmente lo ha amato, quella gente abituata ad avere poco e a farsi bastare qualche sprazzo di felicità, che non gli ha mai fatto pesare neanche lo spavento che le fece prendere il 5 luglio dell’82, quando al Sarriá di Barcellona segnò il gol del momentaneo 2 a 2, prima che Pablito Rossi realizzasse la tripletta che eliminò il Brasile e lo proiettò nell’Olimpo degli immortali.


Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!
1 commento
Ha fatto un bell,’omaggio a Falcao e viva Falcao!
O nosso Rei de Roma