Per non morire di destra destra

CARLO RUBINI
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I sondaggi delle ultime settimane danno risultati in cui in Italia la coalizione di “destra-senza-centro” si avvicina al 47 per cento del consenso, punto più, punto meno.
Con numeri del genere, piuttosto realistici direi, la domanda è molto simile, mutatis mutandis, a quella che la mia generazione, nel corso della seconda parte della Prima Repubblica, si faceva fin da giovane: “moriremo tutti democristiani?”.

E adesso: “moriremo di destra?”. Anzi “moriremo di destra destra?”

La mia riflessione parte da qui ed è più che altro un pensare ad alta voce, un insieme di umori, timori, possibilità che offro al lettore, senza la pretesa di essere organico e coerente e senza neppure la pretesa di essere condiviso. Mi si dirà, anzi me lo dico io per primo, che sono semplicistico e ingenuo. Ma ognuno di noi sa che, quando si pensa, magari alla sera prima di addormentarsi, un po’ si delira in libertà. E qualche rara volta, però, si pesca il jolly. Un pensiero ad alta voce, il mio, con molti ‘se’ e ‘ma’, che cerca di dare una risposta, con soluzioni che peraltro risentono del mio personale punto di vista politico. Non dico faziose, ma parziali si. Ognuno prenda qualcosa di buono, se lo trova.

E tanto per essere incoerenti fin dall’inizio, già il partire dalla risposta all’ansiogena suddetta domanda, è viziato da un procedimento che non amo e che spesso stigmatizzo: l’essere contro, partire dal montaliano ‘ciò che non vogliamo’. Ma tant’è, di destra destra non vorrei proprio morire, perché il mio pensiero politico e il mio patrimonio valoriale è tutt’altro, e cercherò di convertire il verso montaliano in “ciò che vogliamo”.

Parto da alcune considerazioni.

  1. la destra italiana, al governo, anche con questi dati proiettati in numeri assoluti, conta in realtà su 13 /14 milioni di voti, poco più di un quarto degli aventi diritto. Constatazione che vuol dire tutto e niente; visto che governare in minoranza effettiva è ormai la norma ovunque si facciano elezioni, in Italia e all’estero, e in tutti i tipi di elezioni, ma che è bene tenere sempre presente quando sconsolatamente, e autoassolvendosi da eventuali limiti e pecche della sua parte, l’Italiano che si sente di sinistra cerca di farsi una ragione del dato percentuale che danno oggi i sondaggi: “eeee, cosa vuoi l’Italia è un paese di destra” (a volte chiosa: “schifosamente di destra”). Semplicemente i numeri assoluti ci dicono che non è vero. E semmai, con tale sbottare, che non tiene conto dei voti assoluti e del loro reale peso, questo italiano con il cuore a sinistra tradisce il suo considerare ‘destra’ tutto ciò che, astensione compresa, non è, ai suoi occhi, sinistra, e che ovviamente, oggi, in voti assoluti pesa ancora di ancora meno.
  1. È opinione diffusa, più che altro una semplice constatazione, facilmente condivisibile – e tuttavia sempre da riverificare – che la destra italiana nelle sue componenti, diverse tra loro solo in apparenza, da trent’anni si compatta con facilità, perché tra loro divergono in sfumature inessenziali, con ben individuati dominanti caposaldi ideologici anche molto concreti (caposaldi di ‘destra senza centro’, visto che nessuno, a cominciare dai suoi elettori, ha mai creduto per esempio, a Forza Italia come partito liberale di centro, o moderato che sia). Si dice, in definitiva, che la destra (attuale) è votata da gente semplice, popolare, che non bada a grandi discorsi, e va al sodo su discriminanti altrettanto semplici,  trasversali senza difficoltà a tutte le formazioni di destra (migranti, tasse, deregulation a 360°, poter girare in auto dove si vuole e via così). È un ‘si dice’ forse troppo poco approfondito, ma che contiene un innegabile zoccolo di verità. 
  1. Le destre al governo stanno diventando una regola in quasi tutto il mondo occidentale (e non solo), salvo eccezioni importanti, ma che restano eccezioni. Un fatto che rafforza la destra italiana, perché rafforza il suo elettore nel compiere una scelta ormai ampiamente diffusa e accreditata. Ancor di più se una destra netta, ma istituzionale, cerca di distinguersi da una estrema o dagli ultra-populisti di destra. Che del resto, pur ‘essi, dai dati sembrano spopolare in Europa. Riuscire, in un contesto del genere, a invertire un’inerzia che porta con determinazione verso un’egemonia di destra così forte e potenzialmente a tempo indeterminato, è impresa ardua che necessita di una strategia a largo raggio, e di uomini capaci di condurla, al momento in Italia purtroppo inesistenti, o, come si dice, ‘fuori dai radar’.
  1. Lasciando perdere i contenuti, che pure hanno una loro importanza, i fautori dell’alternativa bipolare alla destra, attraverso una irrealistica riscossa delle sinistra-sinistra alleata in un ‘campo larghissimo’, fanno leva su una considerazione assolutamente tanto ovvia quanto utopica, anche di fronte ai dati sconfortanti dei sondaggi: se la destra è al 47 per cento, vuol dire che ‘il resto del mondo’, vale a dire l’alternativa è al 53 per cento, addirittura la maggioranza assoluta. Mettiamo assieme tutti i cocci e vinciamo. Quando ai miei tempi si celebravano alcune fantasiose gare di calcio, non a caso mai più ripetute, tra una nazionale e il ‘resto del mondo’, con dentro Pelè insieme a Eusebio e George Best, il ‘resto del mondo’ di solito perdeva e il perché lo si capisce facilmente.
  1. Non considerando per un momento un’analisi sulle componenti attuali di questa immaginaria alternativa, sappiamo che questo processo aggregativo di una galassia di sinistra, da quella estrema alla moderata, non è mai avvenuta realmente per le ragioni opposte alla capacità aggregativa della destra; ragioni che solo in apparenza nobilitano questa meno della metà della torta. A sinistra, si dice infatti, le sfumature pesano tanto, perché è un popolo di pensanti, di gente che spacca, si, il capello in 4, ma perché va a fondo delle cose etc. etc. etc. (Sarà poi anche vera questa attitudine di ‘andare a fondo delle cose’ a sinistra, per quanto è un andare a fondo che resta però sempre fermo immobile sulle proprie posizioni, anche quando lo sbandierato approfondimento suggerirebbe un ripensamento critico). Sia come sia, anche dando credito a questo ‘si dice’, l’orgoglio, un po’, come usa dire oggi, ‘tafazziano’, di tale alta considerazione di sé a sinistra, che spiegherebbe la incapacità di aggregazione, mette una pietra tombale sull’utopia alternativistica e ai campi larghissimi. E fa un po’ sorridere che la orgogliosa spiegazione si accompagni, dopo una virgola, al mantenere l’idea di “fare l’alternativa”. La relativamente recente storia elettorale italiana poi lo conferma: quando si sono effettuati campi larghi “da Rifondazione a Mastella” (Il famoso Ulivo prodiano uno e due) in pochi anni sono finiti malissimo e mai più ripetuti, perché poi di fatto è proprio vero che le differenze pesano di più a sinistra.
  1. Per quanto mi riguarda inoltre, ma questa è solo un mio punto di vista, avere dentro un’alleanza posizioni di vetero sinistra o ideologizzate in modo radicale su alcuni temi, come vedo in alcune frange ambientaliste, personalmente lo temo tanto quanto la destra destra; e quindi per me non sarà mai una soluzione praticabile, anche lo dicessero numeri più confortanti (e abbiamo visto che comunque non lo sono), sia che riescano ad aggregarsi per l’espace d’un matin, sia che non ci riescano a priori per le palesi differenze programmatiche.

In un contesto del genere, chi è dotato solo di semplice buon senso e raziocinio, realismo, capacità di adattamento, ma non al ribasso, sa che il motto di qualsiasi operazione riuscita nella vita in generale è che “il meglio è il peggior nemico del bene”. Nemico del ‘bene’, si badi, non del ‘meno peggio’. Quanto all’ipotetico ‘meglio’, sempre a sinistra ululato alla luna con possibilità 0 di realizzazione, bisognerebbe vedere anche che tipo di ‘meglio’ è. In alcuni casi da escludere comunque per contenuto. In definitiva il mai morto massimalismo, vizio infantile della politica, fondato sul ‘meglio’ come comodo metodo di non ottenere mai quello che si vorrebbe ottenere (per altro sapendolo in partenza), ha due buone ragioni per essere combattuto. Per i contenuti in alcuni casi e sempre in quanto metodo.

Per attestarsi invece sul ‘bene’, il mio parere è di perseguirlo attraverso una situazione di esito elettorale per cui nessun fronte o alleanza politica ottiene l’autosufficienza per governare da solo o in alleanze precostituite, neppure il fronte di destra. 

Sono piuttosto profondamente inesperto di sistemi elettorali e non mi slancerò in analisi e opportunità di questa o quella formula. Anche perché ho un passato di convinzione maggioritaria (trent’anni fa però), che oggi apertamente sconfesso. 

Il mio credo proporzionalista attuale deriva dalla presa d’atto che i sistemi maggioritari alla lunga hanno favorito una radicalizzazione del bipolarismo che non trova riscontri diretti nelle società attuali, quantomeno in Europa. In cui i radicali ideologizzati di una parte e dell’altra esistono, certo, e in dimensioni non trascurabili, ma non nelle proporzioni spinte dai sistemi elettorali (e ci sono le controprove nella vita sociale di tutti i giorni, fondata quotidianamente su una maggioranza che, silenziosa, convive bene nel lavoro, nel tempo libero e nei propri nuclei amicali e familiari, senza sgozzarsi). 

Sembrerà perciò riduttivo e apparentemente a-politico (secondo una, per me falsa, idea che la politica anche in democrazia è scontro e competizione), ma al momento il mio ‘bene migliore del meglio’ sono i risultati elettorali che non hanno né vincitori né vinti; e, teoricamente, certo, questa condizione la si otterrebbe senza difficoltà solo con un sistema proporzionale puro. Oggi con un proporzionale puro, se da una parte sarebbe ugualmente del tutto irrealistico voler far leva sul 53 per cento non governativo, dall’altra è altrettanto vero che la coalizione di destra, anche con il sontuoso 47 per cento di questi giorni, non potrebbe governare, e sarebbe già tanto come punto di partenza. Certo è una considerazione che lascia il tempo che trova, vera fanta politica, perché le destre non sono sceme e, visto che governano in maggioranza con un sistema con pochi ma decisivi elementi maggioritari, il proporzionale puro non lo concederanno mai.

Bene, preso atto, bisogna allora per forza ragionare con questa farraginosa legge elettorale che ibrida proporzionale e maggioritario: i tre seggi su otto assegnati col maggioritario esaltano la coalizione più forte. Per cui la destra un anno fa ha preso il 43,8 per cento e ha ottenuto una larga maggioranza proprio perché ha fatto man bassa nei collegi uninominali. Ma se, attraverso elezioni in cui l’offerta degli schieramenti avversi migliorasse decisamente in qualità, anche solo cinque o sei punti nel totale complessivo (sebbene dovrebbero essere di più rispetto ai sondaggi attuali) migrassero da uno schieramento all’altro (e c’è chi per me ha provato a fare una simulazione con i risultati 2022 della Camera), il combinato disposto dei risultati nei collegi uninominali e nelle quote proporzionali potrebbe far sì che il centrodestra non ottenesse una maggioranza di seggi autosufficiente per governare. 

Né ovviamente l’otterrebbe nessun altro schieramento: in termini marinari, e dal mio punto di vista, la bonaccia perfetta.  

In condizioni del genere un governo di coalizione bipartisan diventerebbe la via obbligata, una riedizione della situazione che ha preceduto le ultime elezioni.

È una soluzione che ho sempre visto con favore e che è la norma da molti anni del governo dell’Unione Europea, forte di un consenso del 65 per cento nel relativo Parlamento, non a caso eletto con un proporzionale puro, per cui il riferimento è alla soluzione del tipo di maggioranza e non a come è stata ottenuta. In ogni caso anche in Italia non si tratterebbe del consueto governo tecnico emergenziale, ma un governo di grande coalizione pienamente politico, dove, certo, le ali estreme probabilmente non ci starebbero, come in Europa del resto, assenza che personalmente, per altro, vedo con favore. 

Mi si obietterà, e con qualche ragione, che ho appena sostenuto che la destra italiana è un nemico da battere e poi me la recupero in un governo di grande coalizione. L’obiezione è sensata, ma contro obietto che
A) una cosa è la destra destra da sola al governo e una cosa è dentro a una mediazione con altre componenti di non destra, e persino di sinistra;
B) che immagino la coalizione di destra a quel punto spaccata, con una parte che sta fuori e la più ragionevole che sta dentro. E devo dire che la linea di faglia non la vedo tra i partiti della loro attuale coalizione, uno di qua e due di là o viceversa, ma la vedo all’interno di tutti e tre i loro partiti. Nei quali da sempre c’è, incistata, gente che ragiona. Obiezione alla contro obiezione: ‘non avevi detto che a destra si ricompattano facilmente?’. È vero, ma aggiungevo che era un dato da verificare sempre e in ogni caso di fronte all’impasse, perdurante anche dopo eventuali nuove elezioni di riverifica, qualcosa si può muovere quel tanto che basta. 

E poi per me, per la mia sensibilità politica, non ci sono altre strade. 

È implicito in tutto questo ragionamento, ma è meglio esplicitarlo, che senza una terza forza autonoma e non dipendente in partenza dalle due coalizioni, il gioco di far perdere alla destra quei 6 punti che potrebbero in teoria ( anche se ottimistica) bastare per ottenere la condizione di ‘nessun vincitore’ diventa molto, ma molto difficile, ai limiti dell’impossibile. Ed è sconsolante dover ammettere che l’attuale rappresentanza in Italia di tale teorica forza autonoma è diventata alla lunga impresentabile. Malamente rappresentata da due guitti, da due pavoni, da due narcisi, le cui idee, dal mio punto di vista, in teoria sarebbero in buona parte quelle giuste, ma la cui prassi politica, elemento portante e non secondario dell’essere politici, è affidata a tatticismi incomprensibili e sputtananti, a cui piegano, con sfumature risibili e strumentali, anche i loro stessi contenuti. E che attualmente danno alle loro formazioni solo, ma non è poco, il consenso del sottobosco familistico del collegio elettorale degli eletti al Parlamento e dei quadri locali che, ramificato agli amici degli amici, consentono però numeri e sondaggi ancora piuttosto lontani dallo “0 virgola” (a questo punto lo meriterebbero), buoni per mascherare la miseria della loro attuale offerta (sconsolante osservare però come tali sottoboschi ramificati consentano ancora numeri non trascurabili, ma accadeva con le stesse dinamiche anche per il PRI, il PSDI e il PLI della Prima Repubblica, che erano ben più eleganti e presentabili di questi due attuali). In più con il risultato di far prolificare sigle aggiuntive che si ripromettono, ma invano, una rigenerazione dell’area (attualmente tra partiti rappresentati e aspiranti tali in quell’area siamo arrivati a sei).

Vero è che in questo desolante panorama, tutto il mio ragionamento può avere un barlume di senso solo se si immagina che, con nessun vincitore, al centro della scena, intendo di tutta la scena, e non solo dell’area suddetta (destinata nel migliore dei casi all’essere l’ala destra della sinistra o l’ala sinistra della destra), un bel giorno arrivasse un ‘papa nero’, capace di sparigliare in tutte le direzioni, e senza appartenere a nessuno in partenza. Una cosiddetta ‘figura di garanzia’ istituzionale. Gli italiani, d’altra parte, incuranti della sua provenienza di ‘parte’ e quindi in qualche modo tutta ‘politica’, assegnano all’attuale Presidente della Repubblica consensi altissimi proprio per la garanzia democratica e di protezione costituzionale che assicura in modo bipartisan. E allora è proprio così impossibile immaginare che una figura della stessa taglia di Mattarella, alla guida di un governo di coalizione, non possa ottenere un analogo consenso? Il precedente di Draghi insegna che la sua fine era derivata da un suo status di tecnico. E non avremo mai la controprova di che cosa sarebbe accaduto se Mario Draghi, un minuto dopo la sua caduta da tecnico, si fosse ripresentato alle elezioni da politico con un esplicito programma bi partisan, in continuità con le sue scelte precedenti. La controprova non l’abbiamo, ma la prova, per me obbligata e per quanto alla cieca, deve poter andare in quella stessa direzione.

Conosco bene le smorfie di perplessità che suscita una prospettiva del genere, di solito interpretata come un ‘volemose bene’ fuori dal mondo, per la convinzione piuttosto diffusa della natura solo muscolare della politica in democrazia (da quando esiste la democrazia, ti fan capire i Soloni), concepita come guerra permanente in tempo di pace. In realtà questa soluzione è temuta proprio da tutti quelli, e sono tanti, che trovano nella politica, anche in democrazia, una proiezione del proprio ego, interpretandola dunque come una competizione con vincitori e vinti (i più ipocriti aggiungono “sana competizione”, per cercare di nobilitare quello che è solo un pretesto per menar le mani da qualche parte). Ma è solo un’interpretazione, per carità molto diffusa nel passato e nel presente, che tuttavia assume il carattere del dogma, se non è pienamente supportata da buone ragioni che continuo a non vedere. La natura obbligatoriamente conflittuale della politica democratica è una convinzione molto diffusa, che l’uomo colto definirebbe apodittica, cioè qualcosa che si dimostra da sé stessa, senza prove, per la sua forza e la sua evidenza intrinseca. Di fatto autoreferenzialità pura. La politica democratica può essere anche tutt’altro, restando democratica.

A conforto abbiamo un precedente storico chiaro e forte di una formula auto imposta che ha dato risultati di grande spessore con delle analogie con la forzatura della ‘non vittoria’, che, messo così, può apparire addirittura meschino come obiettivo prioritario. E il riferimento non è ai governi tecnici emergenziali degli ultimi trent’anni. E non è neanche alla coalizione nazionale antifascista che governò l’Italia dal ’43 al ’46, perché in effetti stava incollata, quella si, per pura emergenza (e che emergenza).

Penso più semplicemente alla Costituente, dove nessun eletto vinceva, ma tutti dovevano concorrere a produrre qualcosa di buono che ottenesse un consenso ampio. Con la pistola alla tempia di dover ottenere una maggioranza addirittura qualificata, i due terzi, per l’approvazione della Carta Costituzionale (fosse per me la metterei per legge anche per tutti i governi, la maggioranza qualificata), l’Assemblea Costituente ha partorito un testo ancora tanto osannato a sinistra e impugnato sempre più volentieri e convintamente anche da destra (“la più bella del mondo”, si commenta con enfasi). Quella Carta, pur ottenuta con l’obbligo del compromesso insito nei numeri di approvazione che avrebbe dovuto ricevere, non è però scaturita da un compromesso al ribasso. Compromesso forse sì, ma al rialzo, con qualche evidente inevitabile lacuna, e dove l’esser obbligatoriamente bipartisan non ha significato esclusioni, omissioni o silenzi di accomodamento; bensì molte inclusioni, con tanti sfacciati e coraggiosi ‘et et’. Con tante compatibilità tra gli apparentemente opposti, con tanti “ma anche”. E i “ma anche”, dove si cerca di recuperare al meglio le idee valide di tutti i protagonisti politici, e delle loro tradizioni di pensiero, sono determinanti per la sfida di un programma politico di grande coalizione. Che obbligatoriamente è di natura sincretica, per utilizzare il lessico della fusione virtuosa di religioni diverse. Il paragone regge perché la nostra Costituzione non è solo una carta piena di regole, una specie di carta su come si regola il traffico (secondo una ricorrente lettura volutamente minimalistica), ma contiene obiettivi politici dirimenti e inequivocabili, votati a suo tempo da qualcosa come il novanta per cento dei Costituenti ( e sarebbe bastato il 66 per cento!). In una felice congiuntura politica in cui le radicalizzazioni, che, complice anche la congiuntura internazionale  si sarebbero palesate nettamente a partire da due anni dopo, non si erano ancora manifestate.

In definitiva, alla fine di questo mio lungo e pedante pensiero ad alta voce, per “non morire di destra” si tratta di creare le condizioni politiche, non solo quelle che ho indicato, ma anche altre conseguenti, per cementare governi (europeisti convinti) di unità nazionale, con coalizioni ampie in grado di rappresentare la maggioranza silenziosa italiana. Stremata da questa campagna elettorale permanente tra le due polarità, che i sistemi non proporzionali da 30 anni in qua ci hanno regalato. Visto da una lente di sinistra molto realista: il massimo di sinistra che si potrà mai ottenere stabilmente su questa terra, vale a dire una non-destra al governo.

Per me semplicemente l’equilibrio al governo del paese. Con il “Papa nero” che prima o poi salterà fuori.

ytali ringrazia Stefano Navarrini per il consenso a pubblicare sue illustrazioni (QUI per ulteriori informazioni sul suo lavoro)

Per non morire di destra destra ultima modifica: 2023-10-19T14:58:57+02:00 da CARLO RUBINI
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