Il saldatore del Vajont. Un romanzo sulla memoria e sulla scomparsa di un mondo 

MARIO SANTI
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Una risalita appassionante nelle viscere e sui bordi della montagna, fino al colmo della diga: una finestra sul disastro e sui “miracoli” che la frana del Toc ha lasciato, oltre a cancellare duemila vite  

Propongo ai lettori di Ytali una terza lettura sul Vajont perché, forse, una storia così “enorme”  è poco nota persino a loro, normalmente così attenti ai fatti della cultura, della politica, della storia di Venezia, del Veneto, del mondo.

Molti nel 1963 non erano ancora nati. Molti altri ne avranno magari un ricordo lontano e una conoscenza sbiadita. Invece credo quello sia un momento fondante per la storia del nostro paese, per l’analisi dello “sviluppo” industriale, per la comprensione del rapporto malato tra uomo e natura.

Ci torno allora, ma in modo diverso dai primi due contributi. 

Nel primo sono partito da un’esperienza personale – l’aver percorso la “ferrata della memoria”, che mi ha sollecitato a una prima riflessione.

Nel secondo ho presentato un libro inchiesta, nel quale i curatori presentano e commentano gli articoli che alcuni grandi giornalisti dedicarono al Vajont (prima del disastro, poi per commentarlo: dapprima nei giorni immediatamente successivi – ed è la parte più coinvolgente – e poi a distanza di qualche tempo).

Ora passo a un piano letterario, parlando di un romanzo – che non sarà né il primo né l’ultimo ispirato al VajontIl saldatore del Vajont di Antonio A. Bortoluzzi (Marsilio)

Già scorrendo le note che in controcopertina presentano l’autore avevo notato due cose che mi piacevano di lui. È nato e vive in Alpago (la “montagna di casa” per noi veneziani, che siamo particolarmente legati a questo “ultimo pezzo” delle Dolomiti d’oltre Piave), ed è membro accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna (GISM).  Caratteri importanti per chi frequenta le terre alte e ama la scrittura di montagna. 

La lettura mi ha confermato l’impressione positiva, che non credo solo mia, se è vero che oggi passando in libreria e chiedendo “come andavano” i libri sul Vajont mi han detto che questo è il più richiesto. 

Interno della centrale di Soverzene, sul soffitto l’affresco di Walter Resentera

È un romanzo che si legge con un’attenzione che sale, in relazione al crescere della partecipazione emotiva del protagonista, che è un “io narrante” che ci racconta una sua giornata particolare. Quella della “visita guidata” alla centrale idroelettrica di Soverzene.

Una centrale che è l’”erede del Vajont” perché utilizza le acque del torrente che ancora fuoriescono dal bacino e sono convogliate attraverso una serie di condotte fino alla turbina che consente la produzione di energia elettrica. 

Ma è anche un percorso “storico”, attraverso il quale è possibile capire cosa sia stato il progetto industriale della costruzione della diga. 

Bortoluzzi ci guida attraverso le viscere della montagna, in un percorso in salita, dalla “galleria” attraverso cunicoli, ponti sospesi, condotte.  

É un percorso che mette a dura prova chi soffre di claustrofobia o di vertigini.

Ma alla fine porta a uscire al culmine della diga, sul suo coronamento, da dove si vedono da una parte la gola e dall’altra quello che fu il bacino. E che ora non è pieno d’acqua ma è riempito da una frana che “non si può credere alle proporzioni di quel distacco” (infatti il suo colmo sta decine e decine di metri sopra al coronamento della diga). Questa situazione induce nell’autore una sensazione precisa

…vedo un mondo scomparso … e vedo un’altra immagine: il secolare, anzi di più, il millenario fare e rifare delle donne e degli uomini dei paesi alti, sulle terre magre e ripide, soggette allo scivolamento, al dissesto.

Una sensazione che più avanti diventa amara predizione

Oggi sappiamo che quel luogo antico di mestieri e vite, appollaiato sul crinale del monte Toc, non sarebbe resistito a lungo al turbinio degli anni Sessanta e anche li sarebbero state svuotate le stalle, abbandonati i prati, lasciati i campi alle erbacce. Però che sia accaduto nel giro di pochi istanti fa pensare ad una predizione, ad una voce feroce di un oracolo sanguinario che ha indicato l’inesorabile divenire dell’arco alpino e prealpino.

Se la salita nella centrale, con la sua tecnologia elettromeccanica, ha ricordato al narratore il sommergibile Nautilus del capitano Nemo di quando era bambino (con le sue plance di comando), ora la sua uscita da adulto sul colmo della diga gli fa immaginare di trovarsi a bordo dei resti del Titanic naufragato. 

E lungo il percorso tornano alla mente i ricordi: dal nonno che lavorò alla costruzione della diga, a un intenso scritto della zia che ricorda quei giorni, allo zio che – soldato a Belluno – la sera del 9 ottobre 1963 fu mandato a Longarone e ci restò un mese, con tre compiti: cercare i superstiti, recuperare i cadaveri e proteggere i beni delle vittime dagli sciacalli.

Ma la visita prosegue dopopranzo. Nel pomeriggio si cammina sopra il lago, per avere una visione migliore della “M” del distacco, e si incontrano “cose che se non le vedi non le credi” (come dice uno dei partecipanti alla visita).

In mezzo al “bosco nuovo”, cresciuto dopo il disastro, si trova un gruppo di alberi del ”“vecchio bosco”: trascinati ma non del tutto sradicati dalla furia degli elementi continuano a vivere con la base del tronco paurosamente inclinata in orizzontale. E nei rami superiori sviluppano quasi dei nuovi alberi, che vanno in su attratti dalla luce. O poco più in là, si trova una conca prativa che rappresenta il” luogo dei contadini, la terra coltivata”: caduto, scivolato, risalito dall’altro laro della valle, miracolosamente traslato a rappresentare “un pezzo di passato”.

La maestosa sequoia, risalente alla seconda metà del 1800 e portata dall’America, è sopravvissuta alle due grandi tragedie che hanno flagellato questo territorio: la Prima Guerra Mondiale prima e il disastro della diga del Vajont successivamente.

E poi, scesi a valle, la tappa conclusiva è la visione della “Pianta Santa” la sequoia gigantesca (trentatrè metri di altezza e sei di circonferenza), che resistette balla piena ed è forse l’unico resto del Vajont ad essere tutt’ora “vivo e vegeto”, testimonianza della “vita che resiste alla morte”.

Prima della fine il romanzo ci offre altri due spunti cose che ho trovato interessanti.

Alcune notazioni dell’autore alla fine della ”visita” a questo “pezzo di storia”.

Prima, al ritorno a casa, l’ascolto del racconto della visita da parte dei familiari. Dove risulta evidente che, aldilà dei ricordi personali, “la storia del Vajont è una storia di tutti; è una storia che non finisce mai,”. 

Lo motiverà quando il giorno dopo (realizzando un proposito fatto da tempo, ma mai realizzato) visiterà il cimitero monumentale delle vittime del Vajont a Fortogna. 

E penserà che “In mezzo a questa distesa si comprende che il Vajont è la tragedia simbolo della modernità” 

È la storia di Val di Stava in Trentino , della scuola di San Giuliano in Molise, del ponte Morandi a Genova. Solo alcune, forse, delle tante tragedie che fanno pensare “perché non ricordiamo il Vajont? Perché non riusciamo a fermare le cose prima del collasso?

Amaramente “È qui che si avverte come il Vajont non sia solo il passato, ma anche il presente, e anzi come ci sia addirittura del futuro dentro”.  

Per cui è amara la riflessione all’uscita dal cimitero “Non è sempre vero che tutto scorre; qui si respira una specie di eternità immobile che preme sulle spalle, e si adagia sul cuore.” 

La seconda cosa che mi ha colpito è che alla fine del testo vengono lasciati alcuni fogli di carta “bianca”. 

È come se il lettore potesse appuntare impressioni, emozioni, note che la lettura gli ha ispirato. Parlare con l’autore? con l’opera?  con sé stesso? Non lo so;  ma l’ho trovata una iniziativa utile, questa opportunità di non lasciarsi passare accanto e scivolare via argomenti e contenuti, forma e sostanza dell’opera, ma avere la possibilità di “fermarsi a parlare” con loro …  

Consentitemi infine un’ultima notazione. 

Il saldatore del Vajont può essere letto anche come un romanzo “operaio e contadino” della perdita.  

Nel senso che l’autore ci parla di una tragedia provocata dall’uomo. Che è come l’apprendista stregone.  Cioè non sa controllare quello “sviluppo” che si illudeva, con la forza dell’ingegno e della tecnica -di contrapposte a una natura che non ha saputo comprendere.  Che, quindi, non si è “vendicata”, ma semplicemente ha fatto il suo corso.

Ma parla anche di un distacco.  

Della morte di quella cultura del lavoro dei campi (nelle terre alte) e in fabbrica (in quelle più piane) che quello stesso “sviluppo” ha un po’ alla volta sradicato e soppiantato; traghettandoci in un mondo più “veloce”, ma più povero di produzione primaria e secondaria. E delle umanità e delle relazioni che vi erano associate.

Ed è questo un dolore che si avverte in questa scrittura. 

Il saldatore del Vajont. Un romanzo sulla memoria e sulla scomparsa di un mondo  ultima modifica: 2023-10-21T21:52:56+02:00 da MARIO SANTI
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