La sonata D568 per pianoforte di Franz Schubert si apre con un ritmo quasi giocoso, venato da momenti di malinconia (è una sonata in si bemolle maggiore), che sembra idealmente anticipare le celeberrime Kinderszenen di Robert Schumann, composte vent’anni dopo. Il candore dell’infanzia adombrato in alcuni istanti da un velo che sembra preludere alla fine dell’età dell’innocenza. Ma Schumann compose musica per lo più molto diversa da quella del compositore viennese morto a soli trentun anni. In particolare nelle tre sonate per violino e pianoforte la possente struttura armonica riesce a convivere con una commovente delicatezza melodica che si avverte con chiarezza anche in alcuni dei 21 brani di cui si compone il suo caleidoscopico “Carnaval” e la raccolta, sempre per piano solo, nota come “Kreisleriana”.
Come accennato in un altro nostro articolo, va detto che c’è anche un po’ di Schubert nella musica del tedesco, il che è parte di quella inconsapevole ma positiva contaminazione musicale che un compositore eredita dall’ingombrante bagaglio della grande musica di chi lo ha preceduto. Basterebbe, al riguardo, ascoltare (senza conoscerne l’autore) il primo movimento del primo concerto di Beethoven per piano e orchestra. Siamo pressoché sicuri che una buona percentuale di ascoltatori attribuirebbe quella musica a Mozart.
Ma parliamo ora di un altro tema, delicato da affrontare, ma necessario per approfondire la nostra conoscenza della musica classica.
Se Daniel Barenboim, Martha Argerich, Maurizio Pollini e Grigori Sokolov possono vantare un repertorio quasi infinito e una padronanza della tecnica pianistica senza pari, tra i nuovi concertisti non si può non parlare dei russi Daniel Trifonov e Ievgheni Kissin (ex enfant prodige oggi cinquantenne) e della nostra Beatrice Rana, ormai in rapidissima ascesa verso i vertici europei e non solo. Ma tra i primi tre mostri sacri della tastiera e gli altri tre, molto più giovani, ora citati, ci sono ancora due pianisti che ci piace nominare.

Si tratta dell’austriaco Rudolf Buchbinder di cui abbiamo recentemente scritto su queste pagine e dell’ungherese (naturalizzato britannico) Sir Andràs Schiff. Quest’ultimo è noto in particolare per l’esecuzione delle sonate di Schubert ma, soprattutto, come interprete di Bach. E qui occorre una breve riflessione considerando che il Bach che ascoltiamo, come è noto, fu composto in buona misura per clavicembalo e soprattutto per organo dato che il pianoforte, come è oggi, non era stato ancora ideato.

Ovviamente le trascrizioni sono opera di grandi intenditori o addirittura di illustri musicisti, ma nel pianoforte ci sono accorgimenti tecnici e musicali che rendono questo strumento unico e difficilmente paragonabile all’organo o, anche, allo stesso clavicembalo. Ci riferiamo in particolare alle sfumature assicurate dalla tecnica del legato o dall’intervento del pedale di risonanza e del tonale (un terzo pedale presente nei pianoforti da concerto gran coda che, volendo, può consentire la risonanza, anche soltanto a singole note). Tutto ciò si riflette ovviamente sul prodotto musicale finale dato che, se la tecnica dell’organo potrebbe quasi paradossalmente essere paragonata a uno strumento a fiato, il pianoforte è uno strumento a percussione dove le oltre duecento corde in lega di acciaio vengono colpite dai martelletti di legno ricoperti di feltro secondo la forza con cui viene pigiato il tasto.

Si tratta di problemi tecnici e armonici che riguardano gli strumenti a tastiera, in particolare – come si è detto – il pianoforte. I grandi violinisti del secolo scorso, da Jascha Heifetz a David Oistrakh, da Yehudi Menuhin a Isaac Stern, hanno sempre e unicamente suonato con lo Stradivari o il Guarneri del Gesù, (ovviamente con le dovute riaccordature) vale a dire facendo vibrare le quattro corde grazie ad una cassa armonica di oltre due secoli prima.
Occorre peraltro dire, a proposito del problema delle trascrizioni da organo a pianoforte, che l’uniformità del volume sonoro e l’elegante compostezza della postura di Andràs Schiff rendono unica la sua disciplinatissima tecnica esecutiva sia al pianoforte che all’organo. Quest’ultimo è uno strumento che grazie alla tastiera (o alle due tastiere) e alla pedaliera può offrire una varietà quasi infinita di suoni.

Un discorso analogo può farsi anche per il clavicembalo, strumento per il quale Bach compose i Preludi e le difficilissime Fughe del Clavicembalo ben temperato. In parte simile alla Spinetta e alla Celesta, il clavicembalo dispone tuttavia di due tastiere grazie alle quali vengono azionate delle pinze (o plettri, ma senza smorzatori del suono) che fanno vibrare le corde provocando una musica di intensità assolutamente uniforme. Vale a dire che il clavicembalo non offre il piano o pianissimo e il forte o il fortissimo ma un suono sempre uniforme. È evidente che le diverse sonorità ed intensità delle note di uno Steinway, di un Bechstein o di un Fazioli, hanno il potere di indurre l’ascoltatore a riscoprire quel magico mondo musicale che ha dentro di sé, ma anche la seria e disciplinata uniformità musicale dell’organo e del clavicembalo hanno un analogo potere di profonda fascinazione.
E qui vogliamo ricordare Karl Richter, il più grande organista del Novecento, che dapprima in Germania, poi nel resto del mondo, contribuì notevolmente con la sua arte alla definitiva e trionfale riscoperta di Bach e dei suoi concerti brandeburghesi, delle sue fughe, della Messa in si minore e del Clavicembalo ben temperato.

Immagine di copertina: Henriëtte Ronner-Knip, Lezione di piano, 1897, Teylers Museum, Haarlem, NL

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