Dire Bobby Charlton o dire calcio, più o meno, è la stessa cosa. Robert Charlton, nato ad Ashington da padre minatore e madre proveniente da una famiglia di calciatori e, a sua volta, appassionatissima di football, è stato infatti la bandiera del Manchester United per quasi vent’anni, disputando con i Red Devils settecentocinquantotto partite e mettendo a segno duecentoquarantanove gol, stabilendo record che sono durati fino all’avvento dell’era contemporanea in cui, però, si gioca molto di più.
Aveva compiuto da poco ottantasei anni ma ormai la sua vita si era spenta da tempo, essendo affetto da una malattia neurodegenerativa che, proprio com’era accaduto al fratello Jack (anche lui calciatore, di ruolo difensore), lo aveva sottratto al mondo, privandoci del suo garbo e della naturale eleganza che lo aveva caratterizzato anche fuori dal campo.
Volendolo inquadrare storicamente, oltre che in ambito sportivo, non ci sono dubbi che si sia trattato di un Billy Elliot del pallone, figlio del Nord dell’Inghilterra, che tanto si sarebbe battuto, negli anni Ottanta, contro le “riforme” della Lady di Ferro, e in grado di affermarsi grazie al proprio smisurato talento calcistico.
Ripercorrere la sua epopea equivale, dunque, a sfogliare l’album dei ricordi di un intero Paese, che non a caso lo ha osannato per decenni, Regina Elisabetta in testa.
Venuto dal nulla, era uno dei quarantaquattro membri dell’equipaggio che il 6 febbraio del ’58 tentò tre volte di decollare dalla pista dell’aeroporto di Riem, a Monaco di Baviera, di ritorno da una partita di Coppa dei Campioni disputata a Belgrado contro la Stella Rossa. Nell’incidente aereo in cui persero la vita ben ventitré persone, fra giocatori dello United, giornalisti e personale di bordo, Bobby venne sbalzato fuori per quaranta metri, salvandosi per miracolo. Nulla, da allora, sarebbe stato più come prima. A vent’anni la sua esistenza era a un bivio: fermarsi o superare lo shock e andare avanti. Non c’è dubbio che fra i sopravvissuti alla tragedia sia scattato qualcosa che non si può descrivere a parole, trasformando la rabbia e il dolore nel propellente per un decennio di trionfi. E così, nella Gran Bretagna della Swinging London e del celebre quartetto di “scarafaggi” di Liverpool, la laboriosa Manchester trovò nella sua squadra simbolo la propria ragion d’essere. Fu un periodo di vittorie a ripetizione, culminato con l’apoteosi della Coppa dei Campioni conquistata nel ’68 ai danni del Benfica, grazie al magnifico trio d’attacco composto dallo stesso Charlton, divenuto capitano, e da altri due fuoriclasse oggi ritratti, insieme a lui, in una statua che campeggia di fronte all’Old Traffird: Denis Law (che saltò la finale per infortunio, mirabilmente sostituito da Brian Kidd) e, soprattutto, George Best, il quinto Beatles, con i suoi capelli lunghi, la sua vita da Rimbaud, i suoi eccessi, la sua follia e la sua grandezza, diverso in tutto e per tutto da lord Charlton ma in grado di integrarsi a meraviglia con la sua classe.

In mezzo, e come di dimenticarsene, c’era stata la magia del Mondiale vinto in casa contro la Germania Ovest, grazie a una tripletta di Hurst e alla memorabile svista arbitrale che gli convalidò anche un gol fantasma. Errore o sudditanza psicologica? Fatto sta che la Nazionale dei Tre leoni, che aveva disertato le prime tre edizioni della competizione ritenendo di non poter confondere i propri quarti di nobiltà con la natura plebea delle altre compagini, conquistò nel ’66 il suo unico successo iridato, avendo a disposizione una rosa tra le più forti di sempre.
Due sono stati i tecnici del destino per Sir Bobby: Matt Busby, di cui divenne una sorta di figlioccio, icona dei cosiddetti “Busby Babes” negli anni in cui, sotto la sua guida, lo United definì la propria identità e costruì la propria leggenda, e Alf Ramsey, il commissario tecnico che condusse la Nazionale là dove nessun altro è mai più riuscito a condurla, neanche quando sembrava che i sudditi di Sua Maestà fossero destinati a tornare sul tetto del mondo.
Quella di questo figlio dell’Inghilterra profonda divenuto baronetto è, pertanto, la quintessenza dello spirito british, che il nostro del resto incarnava alla perfezione. È un’avventura, al contempo, individuale e collettiva, un sogno a occhi aperti che si è realizzato per merito della grinta e della smisurata passione del suo interprete e infine è il viaggio di una generazione dalle macerie della Seconda guerra mondiale alla gioia della rinascita.
Con Bobby Charlton scompare uno dei punti di riferimento di chi a vent’anni voleva costruire un mondo migliore ed era meravigliosamente ingenuo da credere che gli sarebbe stato consentito. Eppure, secondo me, Bobby nel suo piccolo ci è riuscito, alzando al cielo la Coppa Rimet e testimoniando, in maniera inequivocabile, che anche il figlio di un minatore di Ashington può aspirare alla gloria e raggiungerla.
Lassù ha ritrovato la Regina. Erano vecchi ormai, ma per i pochi che non hanno ancora smarrito il gusto delle favole rimarranno per sempre i protagonisti di una domenica di fine luglio, felici e sorridenti nel catino infuocato di Wembley, quando l’umiltà del suo condottiero guidò una Nazione e una Nazionale spocchiose per natura a battersi con coraggio e a vincere innanzitutto la sfida con se stesse.
Si cercano ora i suoi possibili eredi. Risparmiatevi la fatica. Di Bobby Charlton ce n’è stato uno solo, d’ora in poi consegnato all’eternità.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!