I teatri del nuovo (dis)ordine mondiale. Parla Nicola Cristadoro

ANNALISA BOTTANI
Condividi
PDF

Nuovi teatri di guerra rimodellano gli equilibri geopolitici globali. E la definizione di un mondo multipolare contrapposto all’“Occidente” e, in particolare, agli Stati Uniti è proprio l’obiettivo dei Paesi che, in un processo di crescente riallineamento, non rientrano nell’Asse Nato e appartengono, in alcuni casi, alla categoria dei cosiddetti “failed states”.
Basti pensare all’azione dei Brics e al relativo ampliamento ad altri stati o al potenziamento di ulteriori alleanze progettuali ed economiche (l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai – SCO, ad esempio, che ha da poco incluso anche l’Iran). Un fenomeno che si è intensificato dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa e che si sta ulteriormente radicalizzando a seguito dell’attacco contro Israele da parte di Hamas avvenuto il 7 ottobre. 

Per comprendere meglio le dinamiche che caratterizzano questa delicata fase storica abbiamo parlato con il Dott. Nicola Cristadoro, analista militare, esperto in materia di intelligence e Information Operations, saggista e collaboratore della Rivista Limes. Nel 2022 è stata pubblicata la versione aggiornata del suo saggio La dottrina Gerasimov. La filosofia della guerra non convenzionale nella strategia russa contemporanea (Edizioni Il Maglio).   

Quali sono i potenziali rischi legati al processo di ridefinizione degli equilibri geopolitici, soprattutto in considerazione dei soggetti coinvolti?
Credo che non sia retorica affermare che tutta l’agitazione che si sta palesando sugli scenari geopolitici attuali sia permeata da un forte sentimento antioccidentale, alla ricerca di una rivalsa sul piano storico e culturale che vorrebbe un cambiamento radicale degli equilibri (o degli squilibri, dipende dai punti di vista) che da tempo hanno visto l’Europa, gli Stati Uniti e tutto il mondo “occidentalizzato” dettare le regole, soprattutto sul piano economico, nelle relazioni internazionali.

Tengo a precisare che non vivo questo momento storico sentendomi sopraffatto da quella sorta di “sindrome da accerchiamento” che ha caratterizzato la direzione strategica intrapresa da Putin in seguito all’allargamento della Nato a Est. Piuttosto, ravviso un’affannosa ansia di rivalsa in quella consistente porzione del pianeta che, per troppo tempo, ha subito gli effetti di politiche poco lungimiranti e sovente predatorie da parte nostra. Purtroppo, quella consistente porzione del pianeta è retta, in gran parte, da governi autocratici, se non dittatoriali, ed è insito nella natura stessa delle dittature perseguire la propria affermazione attraverso l’esercizio indiscriminato della violenza, sistematicamente all’interno dei propri confini – si pensi alle repressioni attuate in Cina, Russia, Iran, Corea del Nord – e, quando ritenuto opportuno, su una scala più ampia, con l’intervento militare all’estero, come nel caso dell’Ucraina.

Non nego che l’interventismo americano o “a guida americana”, che ha spesso caratterizzato le “guerre presidenziali” di Washington già dalla Guerra Fredda per il mantenimento dello status quo, possa presentare delle analogie con le velleità imperialistiche mostrate oggi dalla Russia attraverso la guerra combattuta sul terreno (non solo in Ucraina!) o con quelle che ha intrapreso la Cina tramite l’incontrollata espansione economica a livello globale. Tuttavia, mi sento di sottolineare lo spirito democratico degli Stati Uniti (e dei loro alleati) che, al contrario di quanto accade nelle realtà autocratiche, non presenta quella dimensione monolitica foriera di catastrofi epocali attraverso la Storia.

Forse qualcuno si ricorda di cosa ha combinato Adolf Hitler a partire dal 1933 al 1945. Proprio la dimensione monolitica è costantemente perseguita dai regimi che appartengono ai Brics o si stanno coalizzando intorno ad esso, per alimentare una forza che finalmente, dal loro punto di vista, possa sopraffare il debordante “malcostume” occidentale o, addirittura, annientarlo. Le azioni dei regimi citati sono supportate da una forte componente propagandistica, spesso dai contenuti inverosimili per un occidentale, ma non per coloro che appartengono ad altre culture, mirata alla ricerca del consenso e della coesione nel proprio ambito statuale e divulgata a scopi divisivi nelle democrazie, vulnerabili a tali attacchi in quanto non “monolitiche” nel loro tessuto ideologico.

Per dare contenuto a queste mie valutazioni, cito un’illuminante riflessione di Maurizio Molinari:

L’Italia assume un rilievo strategico di tutto rispetto per tre motivi convergenti. Primo: come durante la Guerra Fredda si trovava al confine tra Nato e blocco dell’Est, adesso è il Paese occidentale più esposto alla volontà di penetrazione russa e cinese, per la posizione geografica nel bel mezzo del Mediterraneo, ma anche perché segnato da una forte instabilità politica. Secondo: ospita il Vaticano, sede del pontificato di Papa Francesco, ovvero uno degli obiettivi delle interferenze russe. Putin gli attribuisce infatti la vulnerabilità alla “decadenza dell’Occidente” al fine di assegnare a se stesso il ruolo di “protettore della cristianità”… Terzo: dal 4 marzo 2018 l’Italia è diventata il laboratorio del populismo europeo grazie alla nascita del governo gialloverde che ha portato al potere i sovranisti della Lega di Matteo Salvini e i populisti del Movimento 5 Stelle di Luigi di Maio, con la conseguenza di farla percepire… come una sorta di “Grande Malato d’Occidente” capace di assicurare fedeltà ai patti internazionali ma al tempo stesso di flirtare con Putin, aprirsi alla tecnologia cinese, ospitare i voli dei pasdaran iraniani, considerare credibili i chavisti di Caracas e abbracciare gli esponenti più violenti dei gilet gialli francesi.

Certamente molte cose sono successe dal 2018 ad oggi, ma il concetto di questa vulnerabilità rimane e lo si può estendere anche al resto dell’Europa e, perché no, agli Stati Uniti. Forse è un paragone azzardato, ma il fatto che il Papa sia argentino e oggi l’Argentina voglia aderire ai Brics mi ricorda tanto quanto avvenuto nel 1989 con un Papa polacco e gli sconvolgimenti seguiti alla caduta del muro di Berlino. 

Il cacciatorpediniere USS Carney (DDG 64) transita attraverso il canale di Suez, 18 ottobre 2023.

La gestione dei negoziati collegati ai nuovi teatri di guerra ha mostrato la preminenza ormai consolidata di alcuni player (in primis, la Cina), ma ha anche confermato gli equilibri di potere e le alleanze che potrebbero influire in maniera significativa sull’evolversi del conflitto tra Israele e Hamas. Si pensi, ad esempio, al ruolo dell’Iran, la “longa manus che spinge Hamas”, come lei ha giustamente ricordato in una sua recente analisi, nonché storico partner e, nel contempo, “best frenemy” della Russia (per usare la definizione di Mark Galeotti). In tale processo non sempre gli interessi delle parti convergono e alcune alleanze, sicuramente a geometria variabile, si sono rivelate molto fragili. Ci si interroga ormai sulla sorte dei tentativi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Emirati Arabi, Bahrein e Israele, sancita dagli “Accordi di Abramo” del 2020, e dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele. A suo avviso, è possibile individuare un punto di svolta che ha incrinato le alleanze esistenti, seppur instabili, dando origine a uno stato di conflitto che adesso interessa anche il fronte mediorientale?
Nella risposta precedente ho accennato alla volontà di alcuni Paesi di “coalizzarsi” attorno all’organizzazione sovranazionale nota come Brics. Non a caso ho detto “coalizzarsi” e non “allearsi”. Definiamo, infatti, “alleanza” il patto di unione tra due o più stati, associazioni, federazioni o partiti in cui si promette aiuto e sostegno reciproci. Per “coalizione”, invece, si intende un patto tra stati per uno specifico motivo politico o diplomatico e per il conseguimento degli obiettivi comuni ad esso collegati. La Russia è l’esempio più eclatante della ricerca di partner per creare coalizioni mirate a sconfiggere i suoi avversari. In Siria ha condotto una coalition warfare a tutti gli effetti, stabilendo una collaborazione estremamente significativa con le milizie palestinesi di Hamas, la fazione libanese di Hezbollah, le milizie sciite irachene e le forze iraniane. Come si può vedere, si tratta di partenariati militari stretti con quelli definibili frenemy (friend-enemy) nell’accezione data da Mark Galeotti, cioè Paesi e organizzazioni che, ai tempi delle guerre in Cecenia, sarebbero stati considerati potenziali nemici. Non tanto gli sciiti, quanto i sunniti di Hamas. 

L’uccisione di Qassem Suleimani da parte degli Stati Uniti, inoltre, ha avvantaggiato la Russia nel porsi, ancora una volta, come interlocutore di rilievo per l’Iran in chiave antiamericana. Nel caos attuale i distinguo non si fanno più sulla base delle confessioni religiose o di un credo politico; si fanno sulla base delle opportunità che, a loro volta, si pongono a fondamento delle coalizioni da stringere per condurre le guerre. L’amico di oggi è il nemico di domani o viceversa. La “temporaneità” è la caratteristica peculiare della coalizione rispetto all’alleanza. Questo perché la matrice culturale dei Paesi che vi partecipano può essere profondamente diversa. Ecco allora che sorge l’asse Mosca-Teheran in Siria e si consolida con le forniture di droni al Cremlino per la guerra in Ucraina; ecco che l’Iran sostiene il disegno di Hamas di mandare in pezzi il progetto di normalizzazione dei rapporti intercorrenti tra l’Arabia Saudita e Israele:

Per Riyadh, la normalizzazione con Israele era diventata una priorità, poiché legata alla leadership regionale, nonché alla ridefinizione dell’alleanza con gli USA. Insieme al riconoscimento di Israele, i sauditi stavano infatti negoziando garanzie di sicurezza con Washington nonché il supporto americano al loro programma nucleare per uso civile. E poi c’è la diversificazione economica post-oil di Vision 2030, che necessita di stabilità e interdipendenza regionale. Se Riyadh facesse retromarcia nei confronti di Israele, regalerebbe poi spazi geoeconomici agli Emirati Arabi Uniti, alleati ma competitor; basti pensare – per fare solo un esempio – al progetto del Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa lanciato al G20 di New Delhi e firmato, anche, da sauditi, israeliani ed emiratini. [Eleonora Ardemagni, Affari Iternazionali]

Nel mondo dell’estremismo islamico già i rapporti amichevoli o, quantomeno, collaborativi tra Stati Uniti e Arabia Saudita sono blasfemia, figuriamoci se nel gioco del “buon vicinato” l’Arabia prende il tè con i pasticcini anche con Israele! Meglio scatenare un’altra guerra subito. Nella citazione riportata appare anche l’India che, per complicare il modello, da un lato, combatte sui confini con la Cina per rivendicazioni territoriali a vario titolo, dall’altro, stringe con Pechino accordi commerciali sempre nell’ambito dei Brics, di cui sono entrambi membri. 

Per chiarezza, voglio citare la Turchia che, con il governo di Erdoğan, ha rispolverato leggi e principi certamente non accostabili a quelli occidentali e, tuttavia, mantiene la sua solida posizione nell’ambito dell’Alleanza Atlantica. Ma questa Turchia ha dimostrato più che mai di agire pro domo sua, sia in Libia sia in tutte le attività in cui si promuove come negoziatrice nei teatri di guerra.

L’ospedale anglicano Al-Ahli Arabi Baptist Hospital di Gaza City in fiamme dopo un attacco missilistico, 17 ottobre 2023

In questi giorni si sta assistendo a una sequenza di attacchi simultanei contro bersagli israeliani e americani e all’intervento dell’“Asse della Resistenza”, un network che consente all’Iran di creare caos in territorio nemico, mantenendo una posizione di “negazione plausibile”. È attivo, ad esempio, nella Striscia di Gaza, in Libano, in Iraq e in Siria. A suo avviso, quale sarà l’evoluzione di questo ampliamento del conflitto, in termini politici e militari?
L’“Asse della Resistenza” costituisce un elemento di prim’ordine nella caratterizzazione della guerra ibrida combattuta nel quadro del conflitto asimmetrico in corso tra Israele e Hamas. Sappiamo che si tratta di una rete consolidatasi negli ultimi quarant’anni, formata da figure politiche, gruppi militanti sostenuti da Teheran e attori statuali catalizzati dalla strategia iraniana che si oppone all’Occidente, al mondo arabo e a Israele. Quello della “negazione plausibile” è un punto di forza per l’Iran, perché consente agli ayatollah di dissimulare (o almeno provarci) il ruolo di “grande burattinaio” che dietro le quinte ordisce trame per mantenere instabile la regione mediorientale per i propri scopi.

Scambio di colpi tra Hezbollah e IDF al confine israelo-libanese

Il sostegno dell’Iran ai proxy groups che agiscono in Libano, Siria, Iraq e Yemen è uno dei suoi strumenti più efficaci per il conseguimento dei propri interessi nazionali, combattendo nella “zona grigia”. L’Islamic Revolutionary Guards Corps (IRGC), i famosi Pasdaran, è l’organizzazione paramilitare esecutrice delle politiche per procura iraniane, con stretti legami con gruppi come Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen, la National Defence Force Militia in Siria e il Badr Corps in Iraq, tra gli altri. Avvalendosi della sua unità di forze speciali nota come Forza Quds, l’IRGC è in grado di addestrare e consigliare le sue forze ausiliarie – stimate in 250.000 combattenti – e, pertanto, rappresenta una minaccia significativa per gli avversari di Teheran in gran parte del Medio Oriente.

La Forza Quds è stata istituita all’inizio degli anni Novanta per consentire al regime degli ayatollah di operare di nascosto al di fuori dei confini iraniani. L’obiettivo era costruire un meccanismo operativo che avrebbe portato la Rivoluzione Islamica fuori dall’Iran. Come parte della sua lotta in corso contro Israele, la strategia iraniana utilizza le organizzazioni per procura per due ragioni principali. In primo luogo, a causa della notevole distanza tra Israele e Iran: gli oltre mille chilometri che separano i due stati costituiscono una oggettiva difficoltà operativa per l’Iran per un attacco diretto al territorio israeliano. In secondo luogo, l’Iran è molto preoccupato per la risposta israeliana, qualora attaccasse direttamente Israele. Pertanto, l’impiego di organizzazioni per procura annulla le difficoltà connesse alla distanza tra l’Iran e Israele, impegnando di fatto quest’ultimo su due fronti di lotta, uno a nord contro Hezbollah in Libano e l’altro a sud contro Hamas e la Jihad islamica nella Striscia di Gaza. Tale strategia, inoltre, consente all’Iran di non essere direttamente coinvolto nel confronto con Israele. Per raggiungere questo obiettivo, Teheran continua a sostenere le formazioni paramilitari sotto il suo controllo in Libano e nella Striscia di Gaza e a rifornirle con vari sistemi di armamento, inclusi razzi e missili.

Dobbiamo, poi, considerare il ruolo militare di Hezbollah, organizzazione nata come una tipica milizia per essere impiegata con tattiche di guerra asimmetrica e, nel tempo, trasformatasi in un’organizzazione in grado di combattere diversi tipi di guerra. Durante la guerra civile libanese, quando non era che uno dei tanti gruppi di milizie del Paese, Hezbollah ha lanciato principalmente attentati suicidi e attacchi frontali alle forze occidentali e israeliane, entrambi metodi che, militarmente, non sono né sofisticati né efficienti. La silenziosa evoluzione di Hezbollah da forza di guerriglia a struttura militare in grado di applicare procedure tecnico-tattiche più convenzionali è passata inosservata ed è diventata evidente solo durante la guerra di 34 giorni contro Israele nel 2006. L’organizzazione ha mostrato tattiche e capacità ben oltre di quanto ci si aspettasse, da inquadrare a pieno titolo nella tipologia della guerra ibrida. 

Nella situazione ingeneratasi con il conflitto che ha coinvolto Hamas, sostenuto dall’Iran, a Gaza, è più forte la risposta israeliana e, verosimilmente, maggiore sarà la reazione dei nemici sciiti e sunniti di Israele nella regione, pronti a coalizzarsi contro il nemico comune, sotto l’occhio vigile e compiaciuto dell’Iran. Fino a quando Teheran potrà avvantaggiarsi di questo sistema machiavellico che ha creato, difficilmente si farà coinvolgere in un confronto diretto con Israele (e con gli Stati Uniti) in cui avrebbe molto da perdere. Non dimentichiamo che la Russia, per quanto sia un partner a pieno titolo, è leggermente impegnata su altri fronti.

Sulle poltrone dello Smolarz Auditorium dell’università di Tel Aviv le immagini dei volti delle oltre mille vittime civili e ostaggi del 7 ottobre 2023.

Quale ruolo potranno svolgere la Lega Araba e, in particolare, l’Egitto e il Qatar, che sono attualmente impegnati nelle fasi di mediazione?
Per quanto riguarda l’Egitto rischio di essere banale dicendo che, ovviamente, si trova a dover gestire la situazione del potenziale afflusso di due milioni di disperati pronti a riversarsi entro i suoi confini in un unico esodo – e qui i destini della storia si ribaltano! – attraverso l’imbuto del valico di Rafah.  Si può immaginare quale possa essere l’impatto demografico di una tale massa di esseri umani privi ormai di tutto, in una regione inospitale quale è il deserto del Sinai. E quali possano essere le ripercussioni politiche sul governo di al-Sisi, investito da questa eventuale ondata migratoria che fa impallidire tutti i flussi dei popoli che attraversano mari e confini sparsi per il globo. Sul piano puramente politico sposterei, invece, l’attenzione sul Qatar e sulla Turchia, Paesi che in modo diverso possono esercitare un peso specifico in tutto lo scenario bellico che si è profilato. 

Voglio dire che, innanzitutto, il 7 ottobre, quando i terroristi attaccavano i kibbutz in Israele, un gruppo che costituisce la leadership di Hamas era riunito a Doha. In un video è possibile vedere i capi dell’organizzazione, guidati da Ismail Haniyeh, che ascoltano le notizie degli attacchi riportate dai telegiornali e, successivamente, si inginocchiano per ringraziare Allah per il successo dell’operazione. Cito questo episodio giusto per sottolineare che, se l’obiettivo di Israele è quello di decapitare i terroristi di Hamas della loro leadership, i reiterati bombardamenti sulla Striscia di Gaza hanno una valenza e un’efficacia solo parziali. Gli high value targets sono altrove, peraltro dove non si può andare a bombardare. Possiamo credere, tuttavia, che Israele possieda sia le risorse sia procedure collaudate per conseguire tali obiettivi, ad oggi ospiti dell’emiro Tamim bin Hamad Al-Thani. Va anche detto che il Qatar è un Paese che gioca “a tutto campo”. Non dimentichiamoci dei rapporti stretti dall’emirato con il mondo occidentale. Non lontano dalle residenze che ospitano i leader di Hamas, infatti, si trova la base aerea di Al-Udaid, sede del Comando Centrale delle forze armate statunitensi nell’area. Il rapporto di Washington con il Qatar è così stretto che l’anno scorso la Casa Bianca ha ufficialmente designato il piccolo emirato come “Major Non-NATO Ally” degli Stati Uniti. Nondimeno, hanno avuto una certa rilevanza le esercitazioni congiunte condotte dal nostro esercito con quello qatarino nel 2020 e il contributo offerto per la sicurezza dalle nostre forze armate, in occasione dei mondiali di calcio del 2022.

Quelle che per noi sono palesi contraddizioni per il Qatar sono iniziative che definirei “ad ampio spettro” nel quadro di una politica orientata ad affermare il piccolo Paese come un interlocutore di rilevanza strategica mondiale. Con il successo dei negoziati condotti con Hamas per la liberazione degli ostaggi, meglio se con cittadinanza anche americana, tutto sommato sta dimostrando di riuscirci. Sempre tenendo presente che questo gioco delle parti agevola anche i terroristi, grazie ad una info-campaign ben orchestrata.

Se il Qatar ospita la maggior parte dei vertici politici di Hamas, la restante parte è in Turchia. Anche lì Israele non può certamente sferrare attacchi aerei. La Turchia ha una lunga tradizione di appoggio alla causa palestinese. Il suo presidente, Recep Tayyip Erdoğan, ha ribadito il suo sostegno lo scorso luglio quando ha affermato che la creazione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale entro i confini del 1967 sulla base dei parametri delle Nazioni Unite è essenziale per la pace e la stabilità di tutta la nostra regione.

Rispetto al Qatar e all’Iran, il sostegno della Turchia è più politico che finanziario o militare. Inoltre, il governo turco non solo ha mantenuto legami con Hamas, ma anche con l’Autorità palestinese, con Erdoğan che ha accolto i leader di entrambi ad Ankara lo scorso luglio.

Da sinistra il viceministro degli esteri iraniano, Ali Bagheri Kani, il viceministro degli esteri russo e inviato speciale di Putin in Medio Oriente, Mikhail Bogdanov, e il capo delle relazioni internazionali di Hamas, Mousa Abu Marzouk, in un incontro trilaterale a Mosca, 26 ottobre 2023. (Hamas Telegram channel)

Passiamo ora alla Russia. Recentemente lei ha ricordato lo stretto legame tra Mosca e alcune fazioni palestinesi, con particolare riferimento alle attività di consulenza e addestramento fornite dalla Private Military Company (PMC) Vega Servizi Strategici ai miliziani della milizia sunnita palestinese Liwa al-Quds. Peraltro, secondo quanto riportato da La Repubblica che ha ripreso, a sua volta, una ricerca di Elliptic, pubblicata dal Wall Street Journal, “Hamas e il Movimento per il Jihad Islamico in Palestina avrebbero ricevuto negli anni milioni di finanziamenti grazie all’uso di criptovalute. In particolare, solo il Movimento per il Jihad, che ha condotto gli attacchi del 7 ottobre insieme ad Hamas, avrebbe ricevuto 93 milioni di dollari per finanziare le proprie operazioni terroristiche in Israele tramite Garantex, piattaforma di compravendita di asset digitali russi.” Come si sono evoluti nel corso degli anni i rapporti tra la Russia e l’Autorità Nazionale Palestinese, da una parte, e Hamas, dall’altra?
Per rispondere a questa domanda è necessario introdurre la figura di un quarto attore, ormai onnipresente: l’Iran. Alexander Gabuev, direttore del Carnegie Russia Eurasia Center, ha recentemente affermato: 

L’Iran è diventato uno dei principali partner della Russia. L’Iran fornisce alla Russia droni Shahed e molto probabilmente fornirà alla Russia altri tipi di armi, compresi i missili. 

Contestualmente, come detto in precedenza, l’Iran è il principale sostenitore di Hamas.

Ancora una volta si delinea un “gioco delle parti” geopolitico, in cui assistiamo a cambiamenti sostanziali. Dopo decenni di relazioni amichevoli con Israele, la Russia si sta allineando con il suo acerrimo nemico. E ne ha ben donde, se vuole sostenere l’ennesima architettura politico-militare mirata a distrarre l’attenzione e, possibilmente, le risorse occidentali dalla causa Ucraina. Nondimeno, Putin può proporsi come figura – poco credibile – del “volenteroso mediatore” in una guerra non sua, ma da lui ampiamente sfruttabile. Certamente la scelta di campo operata implica l’instaurazione di buoni rapporti sia con l’organizzazione terroristica, sia con l’Autorità Nazionale Palestinese. A tale scopo, il Cremlino ha annunciato che il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas dovrebbe visitare presto Mosca, sebbene, al momento di questa intervista, non abbia indicato una data. La Russia ha già incontrato delegazioni di Hamas, anche lo scorso marzo e, in precedenza, ha ospitato altre rappresentanze dell’Autorità palestinese.

In questo balletto di alleanze di facciata e coalizioni precarie, voglio citare Lucio Caracciolo che reputo un maître à penser in materia di geopolitica:

L’ordine del giorno è impedire che la brusca fine della storia generi la Terza guerra mondiale. …  (a causa di) Forze invisibili eppure percepibili che governano le dinamiche della potenza, oggi dissolte nell’aria di tempi lontani e lemmi incoerenti. Fattori spirituali, imponderabili, oggi quasi evaporati per effetto di codici incomunicanti. Il principio di realtà è negato dal diverso modo di percepirla. Il mio realismo è il tuo surrealismo e viceversa. La causa più probabile di eventuale degenerazione di Guerra Grande in guerra mondiale sarà un malinteso.

Joe Biden in teleconferenza con i familiari degli ostaggi americani in mano a Hamas, 13 ottobre 2023

E, infine, una riflessione sul ruolo degli Stati Uniti. Nel discorso di giovedì 19 ottobre il presidente Biden ha confermato la volontà di richiedere al Congresso un pacchetto di aiuti per Ucraina e Israele. A suo avviso, l’amministrazione Biden come sta gestendo i diversi fronti di guerra, anche in vista delle future elezioni del prossimo anno?
Il discorso di Biden alla nazione del 19 ottobre 2023 ha posto in relazione i conflitti in Israele e in Ucraina nel quadro di una lotta più ampia per la democrazia e la libertà, sostenendo che la leadership americana in queste crisi globali renderà gli Stati Uniti più sicuri. Ha spiegato agli americani che questa sicurezza avrà un prezzo, invitando il Congresso ad approvare un pacchetto di aiuti “senza precedenti” per Ucraina e Israele. Ma ha anche detto agli americani che il costo per abbandonare queste guerre sarebbe stato molto più alto. Alla luce di questa premessa, diversi illustri analisti americani hanno concordato sul fatto che ciò che ha reso il discorso del Presidente particolarmente importante è che egli abbia comunicato ai cittadini americani la cifra – cento miliardi di dollari – da devolvere il prossimo anno per “l’arsenale della democrazia”, una frase che ha ripreso da un discorso del presidente Franklin Roosevelt del 1940. Di questi, circa sessanta miliardi andrebbero all’Ucraina, dieci miliardi a Israele e i restanti trenta miliardi vanno a Taiwan, all’Indo-Pacifico e alla sicurezza dei confini.

Di tutto questo denaro distribuito a mani basse voglio far notare che la cifra più contenuta è quella che dovrebbe essere assegnata alla sicurezza di Taiwan. Con la presenza sul suo territorio della Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation (Tsmc) Taiwan detiene la maggioranza della produzione di microchip a livello globale: il 60 per cento del volume totale del mondo e, in particolare, Tsmc produce oltre il 90 per cento dei chip di punta. Alla luce di questa considerazione, tra i vari scenari di guerra per cui gli Stati Uniti hanno un interesse, quello del potenziale scontro tra Pechino e Taipei al momento appare il più improbabile; dunque, quello su cui investire di meno e, nel passo riportato, sono individuabili le ragioni della marginalità di tale rischio:

L’impatto si riverserebbe anche indirettamente sul commercio tra la Cina e il resto del mondo, con una seria contrazione dei flussi di garanzia bancari per tutelarsi da eventuali e probabili sanzioni da Stati Uniti, Unione Europea e Paesi asiatici, con effetti su quasi 270 miliardi di beni e servizi scambiati a livello globale. La carenza di semiconduttori, inoltre, colpirebbe direttamente le industrie cinesi, già più dipendenti dai semiconduttori che dal petrolio, senza contare la fuga dei capitali dalla Cina per il rischio di esposizione alle sanzioni e agli effetti macroeconomici del conflitto. Anche le multinazionali non sarebbero esentate, costrette a rivedere i propri piani di investimento e produzione in un Paese nell’occhio del ciclone e sotto la pressione dell’opinione pubblica internazionale.

Riguardo alle elezioni del prossimo anno, sembra che il discorso abbia sortito i suoi effetti: John E. Herbst, il direttore senior del Centro Eurasia del Consiglio Atlantico ed ex ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina, ha riassunto efficacemente l’impressione generale che il discorso avrebbe suscitato, almeno in una parte del popolo americano:

I presidenti degli Stati Uniti vengono solitamente eletti per ragioni legate all’economia e ad altre questioni interne, ma spesso stabiliscono la loro eredità nei momenti di pericolo internazionale. È stato il secondo momento presidenziale di coraggio di Biden in due giorni. Nella sua chiarezza, focalizzazione strategica e solare richiamo ai valori e alla leadership americana, ricordava il Ronald Reagan nella sua forma migliore. Questo è un bene per Biden e meglio per noi.

Personalmente intravedo le premesse alla retorica dell’esportazione dei valori democratici, che ha ispirato le “guerre presidenziali” mosse dagli Stati Uniti nel secolo scorso (Corea; Seconda Guerra del Golfo) e che, alla resa dei conti, non hanno avuto un gran successo. 

Ultimo aggiornamento: 26 ottobre, ore 23

I teatri del nuovo (dis)ordine mondiale. Parla Nicola Cristadoro ultima modifica: 2023-10-27T16:28:52+02:00 da ANNALISA BOTTANI
Iscriviti alla newsletter di ytali.
Sostienici
DONA IL TUO 5 PER MILLE A YTALI
Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!

VAI AL PROSSIMO ARTICOLO:

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE:

Lascia un commento