“Non fare di me dimenticanza”

La poesia di Maddalena Capalbi
GABRIO VITALI
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C’è un percorso poetico che si compie e che – come un tempo si diceva – si “raffina”, sia nei temi che nella lingua, in Zingari, ballerine e suoni, l’ultima raccolta che Maddalena Capalbi ha consegnato alle edizioni de La vita felice, in questo 2023. Ѐ, infatti, una lunga stagione di scrittura della poesia, che l’autrice ha praticato in proprio e che ha insegnato a praticare e a frequentare (per es., nei laboratori condotti per i detenuti di una casa di reclusione, insieme ad Anna Maria Carpi), che si condensa nelle pagine di questo volumetto: una scrittura vissuta come immersione, non meramente consolatoria, ma consapevolmente rielaborativa e interpretativa, del suo verso nell’esperienza del dolore, della crudeltà e della violenza fisica, psichica e morale che la donna subisce nei rapporti interpersonali, privati e pubblici, in ogni fase della sua esistenza, divenendo figura, spettro e catalizzatore del dolore, della crudeltà e della violenza incistati e, quindi, sempre potenziali in ogni altra relazione umana di questa nostra società civile e della sua storia.

Maddalena Capalbi

Per restare alle ultime sue prove, in ordine di tempo, basterà qui citare la memoria del rapporto inibitorio e frustrante dell’autrice con una madre disperata e incattivita che ottusamente divora e mina la maturazione di una femminilità autonoma e consapevole nella figlia, alla quale consegna un rapporto col maschile fatto di paura, d’impotenza e di forzata sottomissione, come nelle liriche del libro Nessuno sa quando il lupo sbrana (La vita felice, 2011): «Mia madre mi ha sempre detto/ che gli uomini valgono poco […] Ѐ sempre stata un’ossessione/ liberarmi di mia madre», perciò l’impulso emancipatorio: «Chi ha detto che le madri sono sante?», ma anche il ricatto della possibile colpa: «Non sono una cattiva figlia, vero?» e, infine, la consolazione e la nostalgia di qualcosa che è mancato: «Conto i fiori che mi regalo/ vorrei l’abbraccio di una madre». Oppure, si può riandare a Testa rasata (Moretti&Vitali, 2015), quella preziosa galleria di Sante famose, da Barbara a Lucia a Caterina…, che la tradizione cattolica ha consegnato come figure del martirio per la tortura, la violenza, la negazione maligna, aggressiva e persin compiaciuta, subite da parte del maschio carnefice e stupratore di ogni femminilità non riducibile al proprio possesso e al proprio potere: la poesia di Maddalena Capalbi, qui, indaga, ricorda, denuncia e, tuttavia, consola e riscatta la sofferenza nella bellezza e nella grazia di un verso che solo una donna può partecipare ad altre donne come attestato di condivisione e dono d’amore. Così, in Ultima scena:

Spavalda avanza
l’ultimo velo è solo per coprire
quel corpo che finalmente
è libero.
Capolavoro del sogno.
Il viso gioioso
porta scompiglio tra i respiri
è bella come una gru
che vola al tramonto…
donna
donna mia.

Succedono a queste, almeno altre due prove, in cui l’autrice romana, ma milanese di residenza, immerge la sua lingua poetica nei registri matriciali ed esperienziali del proprio dialetto, assorbendo quel disincanto e quel distanziamento emotivo che il parlato romanesco riversa nei suoi usi lessicali e nella sua tipica costruzione espressiva, ponendosi, attraverso il filtro del comico, come lingua autentica della passione e della vitalità. Ѐ così che, nei versi di Ribbelle (Edizioni del Verri, 2018), la malinconia rende più leggero il dolore senza togliere forza al dramma; che l’ironia stempera la crudezza del sarcasmo senza sminuirne il portato di satira e di critica; che la vivacità lessicale colora di comico l’invettiva senza attenuarvi la denuncia e la ribellione. Pertanto la materia della poesia di Maddalena Capalbi, la stessa delle scritture in italiano, viene però plasmata in una diversa modalità del racconto, in un’altra (a volte, persin gioiosa) tonalità del canto, proprio grazie al diverso punto di vista sulle cose della vita che l’approccio linguistico dialettale apre nella mente di chi ne fa esperienza: «Da li vetri de la cammera / ’na luce / come ‘na stillettata/ svicola / e ariva drento ar petto, / dar bucio s’arricoje / quelo che nun hai / ariccontato mai».

E non per caso, la libertà emotiva insita nel dialetto può sciogliere nel contrappunto ironico e scherzoso anche la conflittuale passione d’amore, come nel “duetto romanesco” (con Massimo Moraldi) di Er core de noantri proposto per overvieweditore, nel 2021, ritrovando con naturalezza le forme e la metrica classiche della tradizione del Belli e di Trilussa:

Sei l’omo più gajardo che me piacia
ciai le mani più affatate e maggiche 
der monno, famme salì sull’ala che 
te nventi, vojo bacià sto core finchè
me moro, vojo dormì co te de giorno 
e notte, l’amore nun se paga, dettame ‘na
povesia e arigaleme l’occhi 
pe camminà in mezzo a sta follia

Il ritorno ai registri linguistici dell’italiano, nell’ultima silloge Zingari, ballerine e suoni, rimane così segnato dalla lunga immersione dialettale non tanto negli aspetti lessicali, che restano sostanzialmente incontaminati, quanto nella libertà semantica che tutte le cifre stilistiche di Maddalena (la violenza conflittuale dei rapporti d’amore che la donna subisce, l’infanzia e l’innocenza violate, la contestazione dei rapporti sociali aggressivi, imprigionati e sofferenti…) assumono nell’impianto compositivo dei testi e nei toni musicali e sonori della loro espressione. Pur nel realismo e nella crudezza senza sconti degli assunti e delle immagini, l’ironia infelice e malinconica del dialetto si insinua nei registri della lingua poetica della Capalbi e attenua l’impatto drammatico dei suoi testi, mantenendovi – e a volte addirittura esaltandovi – la forza urticante del dolore e della disperazione che li caratterizza, solo resa più trasportabile nel passaggio attraverso le difese psicologiche di chi legge. Come ne La notte più bella, una poesia della sezione Amore, dove il conflitto abituale incontra, per una volta, la dolcezza consolatoria dei versi:

Non mi perdere non fare di me 
dimenticanza 
sappimi amare non con un cuore rotto 
ma con un soffio di vita 
tocca, 
fa che nessuna parte si paralizzi, 
profana questo corpo impietrito 
te lo chiedo senza lotta: 
è il momento di mescolare sangue e gocce 
della notte più bella.

Ѐ soprattutto nell’ambito della musicalità, dunque, che il passaggio dialettale ha lasciato le sue tracce più evidenti nel dettato poetico di Capalbi, dove la musica viene, appunto, giocata sul piano del significante, in un attento dosaggio metrico di versi lunghi e brevi, di assonanze e consonanze lessicali anche interne, di pause ritmiche calibrate nei passaggi essenziali, di esplosioni e implosioni di tono, che tutte creano accelerazioni e rallentamenti armonici nella dizione dei testi, che andrebbero ascoltati, in primis, dalla voce della poeta e che, non per caso, sono stati anche scelti da compositori e direttori d’orchestra per alcune importanti occasioni di esecuzione poetica con accompagnamento musicale. Anche nella prima sezione, la più ampia, del libro, Rossetto, dove più nette e più forti sono le parole di un conflitto amoroso, a volte vorticoso e violento e sempre faticoso, che penalizza la donna e il suo corpo, la sua libertà e il suo desiderio, il tono musicale e la cantabilità dei versi trasforma le singole tappe di un dramma doloroso in un’unica rapsodia che assorbe anche le punte più feroci dell’espressione poetica nel canto continuo di una ballata triste, ma melodiosa, sull’eterno rinnovarsi dell’intreccio originario di amore e thanatos.

Eccone alcuni passaggi, fra desiderio, rifiuto e riscatto: «l’uomo-mito è il frutto del mio egoismo / e della tua fantasia / – tutto inventato – / così striscio sulla schiena / gonfia come il cielo / sperando di poterti mordere: / ti ucciderò»; «… è l’inizio del gioco / di un dramma che non fa bene a nessuno / anche se cerchiamo insieme il sesso / di quella morte, amante dei versi»; «Te la farò pagare con / inutili meravigliose parole, / senza respiro addolcirò la voce / tanto da farti perdere il controllo»; «Ѐ un canto preghiera / di storie che non hanno lieto fine. / Ti farò inginocchiare al richiamo bugiardo / e morirai in un abbraccio granitico». E infine, all’insegna di quel rossetto del titolo, strumento della sottomissione seduttiva della donna ai desideri del maschio, ma anche segno di affermazione risentita della propria femminilità: «Sono una cortigiana / delle stelle / col trucco fosforescente / per essere riconosciuta / dagli uomini / che guardano attoniti / […] / però vi prego abbassate / il volume / non riesco a godere le note / di quella melodia che fa / concepire i figli».

Nelle sezioni L’innocenza e Amore, forse per via di un’intenerita condivisione della sofferenza di chi è più indifeso, da un lato, e per un desiderio di appartenenza alla sfera materna, protettiva e consolatoria dell’amore, dall’altro, i toni aggressivi si placano e si stemperano in un respiro musicale e ritmico più pacato e accogliente, anche se sempre intriso di lancinante tristezza. Un esempio basterà, per ciascuna delle sezioni. E cioè: una preghiera all’universo perché si prenda cura della fragilità esposta dei bambini:

I bambini del coro
hanno i piedi scalzi
cantano a richiesta 
sembrano ritratti funebri 
abbellito da piante e fiori rossi, 
doni di Cristo crocifisso 
che continua a morire. 
Le voci bianche sono 
in contatto con l’universo 
vogliono truccare la morte 
che si nasconde tra bandierine colorate.

E una ricerca d’approdo e di rifugio nella memoria dell’amore, un desiderio di essere protetta, almeno provvisoriamente, in scampo dalla continua fatica della vita, di “stare come il pesce nell’acqua”, insomma:

… da tempo mi sento un pesce che 
guizza nell’acqua di un fiume, 
grande ristoro per un’anima 
vagabonda che non riesce a trovare 
l’approdo. 
Tutto è sepolto sotto la sabbia per 
conservare le canzoni d’amore 
che abbiamo dimenticato. 
Intanto boccheggio.

Ma il riscatto più poetico dalle fatiche del vivere, in un intenso turbinio ritmico e sonoro di immagini e parole, il verso di Maddalena Capalbi lo trova nella sezione Flamenco, vero acmé della partitura del libro e della sua cifra poetica. Sia che derivi da antichissime danze di guerra o da primitivi riti di corteggiamento, il ballo “fiammingo” si è formato ed è stato tramandato, pare, dalla tradizione identitaria di popoli minoritari e oppressi, continuamente in fuga nella Spagna di un tempo, come i moriscos, gli ebrei e i gitani; e rappresenta, attraverso i movimenti del corpo e le espressioni del viso dei ballerini, sentimenti profondi come la passione, il dolore, la disperazione e l’amore. Maddalena ne fa la danza di una ballerina che si impone come figura centrale nell’esecuzione della danza, con la perentorietà della sua postura, con la fascinazione dei gesti e dei passi e con la seduzione degli sguardi: una donna libera, finalmente padrona della bellezza del suo corpo e dominatrice irresistibile del movimento degli altri danzatori (maschi):

Brillano gli occhi neri della gitana
e gli uomini che ballano 
frastornati si muovono 
come diavoli. 

Il corpo fasciato fa delirare 
le forti braccia sfidano altre mani 
che sfiorano le caviglie 
le labbra scarlatte sorridono vincenti.

Il trionfo delle corde accelerate 
dal ritmo tumultuoso 
si appropria del respiro che non 
fornisce vie di scampo. 

Lei domina come fosse nuda 
predice il futuro d’amore 
e senza perdere fiato invoca 
aghi taglienti sugli occhi. 

Zingari, ballerina, suoni oscuri
forza misteriosa che osa sollevare
le vanità aggrovigliate tra i capelli 
del pubblico: 
Viva Dios!

E “que viva Flamenco”, dunque!

Zingari, ballerine e suoni
di Maddalena Capalbi
La vita felice edizioni, 2023
Prezzo: 13,00 euro


Copertina: Foto di Patrick McDonald da Flickr

“Non fare di me dimenticanza” ultima modifica: 2023-10-27T01:10:15+02:00 da GABRIO VITALI
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