Quando ho cominciato a bere da adulta (sono una bevitrice molto morigerata, ma in Piemonte ti fanno il battesimo del vino a tre anni versandoti un cucchiaio di barbera nel brodo di carne), il vermouth era all’ordine del giorno negli aperitivi di fine giornata da Mulassano, in piazza Castello o al Caffè Elena (immagine di copertina) in Piazza Vittorio (Veneto lo dicono solo i forestieri). Non era più la versione di mia nonna, che lo beveva in bicchierini di cristallo a sorsetti. Era già presentato in veste americana: ci sarà un motivo se poi Clooney chiudeva con lo slogan “No Martini, no party”.

Era mille variazioni sul tema, proprio come le descrive, facendoti dimenticare l’orologio e correre dal miglior barman della tua zona, il bellissimo volume dedicato al vermouth da Giusi Mainardi per la Kellermann Editori, Vermouth di Torino, dai liquoristi del Settecento il vino profumato che inebria il mondo.
Eh già, il vermouth è un vino, non è un alcol. Un vino aromatizzato, speziato, di gradazione superiore. Lo si trova attestato ufficialmente dal 1778, con quel nome e l’aggiunta “di Torino”, nei registri delle cantine di Agliè, il castello nel Canavese residenza di campagna di Benedetto Maria Maurizio di Savoia, duca del Chiablese. Il nome, va da sé, rivela le origini tedesche, ma è stata la capitale subalpina a trasformarlo in qualcosa di più di un vino amarognolo.

Il merito è della corporazione dei Confettieri e dei Liquoristi della città di Torino, abilissimi artigiani – ma sarebbe meglio definirli artisti – nel “maneggiare alcol, zucchero, erbe profumate e spezie”, come scrive Mainardi rivelandoci che il risultato era diventato così celebre anche fuori dei confini sabaudi da essere presente in molte cerimonie ufficiali che la storia ci ha lasciato.
All’inizio, il vermouth era prodotto in maniera quasi familiare. Poche bottiglie, qualche botte, riserve ridotte per fronteggiare il consumo personale o di pochi amici. Ognuno vantava proprie ricette, perché il trucco erano appunto i vitigni scelti, la quantità di zucchero, le erbe e le spezie necessarie a donargli quell’inconfondibile gusto amaro, dolce o secco, che lo rende perfetto per molte occasioni diverse.
Poi vennero la ferrovia e i battelli a vapore che ne segnarono il destino: girare il mondo e farsi apprezzare ovunque. È l’epoca in cui nascono i primi celebri nomi, Carpano, Martini & Rossi, Gancia, Cinzano, Cora, Freund Ballor, e i primi stabilimenti con produzioni a ritmi industriali.



Tutto ciò che non sapete, ve lo dirà questo delizioso, ben curato e benissimo illustrato, volumetto. Che vermouth è parola tedesca che significa assenzio, base aromatica fondamentale nel processo di distillazione. Che il dolce/amaro di fondo viene dal caramello, che le altre erbe e spezie che ne compongono i vari bouquet – ricordatevi che ci sono vermouth bianchi, rossi e rosati – sono abbastanza numerose, circa Ottanta, da farvi tuffare in un mare di morbidi aromi e sapori multicolori. Non manca una carrellata sui vitigni di base, dal moscato bianco al cortese, dalla malvasia bianca, all’erbaluce e al cascarolo.
Già a fine Ottocento, Edmondo De Amicis, scriveva “Torino ha l’ora del vermut, l’ora in cui la sua faccia si colora e il suo sangue circola più rapido e più caldo”. Dalla Galleria Subalpina, alla sfilata di portici in via Po, fu un susseguirsi di caffè e giovani studenti festaioli: cominciava una stagione che si è alla fine consolidata nell’happy hour.
Mainardi non dimentica di lasciarvi le dosi dei migliori cocktail in cui il vermouth entra da protagonista o da spalla. Che sia un Americano o un Negroni, che lo vogliate bere a mezzogiorno, alle 17 o subito prima di cena, non potete che alzare il bicchiere e ringraziare che il vermouth esista. Cin cin, old boy.

Giusi Mainardi, “Vermouth di Torino, dai liquoristi del Settecento il vino profumato che inebria il mondo”, Kellermann Editori,128 pagine, 16 euro.

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