È uscito il 24 ottobre l’ultimo romanzo dello scrittore veneziano Giovanni Montanaro, Come una Sirena (Feltrinelli Editore) che racconta l’avventurosa vita dello scrittore Hans Christian Andersen [nell’immagine di copertina]
Noto a tutti di fama, Andersen risulta in realtà pressoché sconosciuto nella sua biografia, che invece desta particolare interesse. Nato poverissimo a Odense, da una alcolizzata e un ciabattino, aveva un corpo in cui non si trovava a suo agio, e che non piaceva agli altri. Altissimo, sgraziato, era vittima di continui scherzi. A quindici anni, il suo viaggio per Copenaghen, dove cercherà di diventare prima cantante, poi ballerino.
Approderà, infine, alla scrittura, e Montanaro racconta proprio come attraverso la scrittura, soprattutto quella delle fiabe, Andersen riuscirà a raccontare finalmente se stesso e le proprie contraddizioni, anche prendendo a prestito corpi di altri. Persino quello di una sirena, incapace di amare proprio come Andersen, sospeso per innamorati di uomini e donne, ma in fondo incapace di darsi fino in fondo, o solo di essere riamato.
Il libro sarà presentato sabato 4 novembre, alle ore 11.30 presso Human Safety Net, Procuratie Vecchie San Marco, insieme a Pietro Del Soldà e con un intervento di Giovanni Pelizzato.

Di seguito un breve estratto del testo
Allora cominciò a scrivere.
Quando parlava non ci si accorgeva che era un semianalfabeta, ma se provava a scrivere diventava evidente. Però gli sembrava la cosa giusta da fare, doveva almeno provarci, e così aveva chiesto a Fru Jensen un tavolino e aveva comprato una candela, dell’inchiostro, la carta.
Se scriveva, stava bene.
Così, scriveva in modo frenetico per giorni interi – gli capitava di cominciare in piena notte, quando non riusciva a prendere sonno, o di giorno, quando non aveva niente da fare, o da mangiare – e poi smetteva di colpo, senza più alzare la penna per settimane.
Scriveva per calmare la paura della vita, spaventosa come un cane randagio, che lo assaliva verso sera, al buio, ma anche di giorno, in piena luce. Scriveva per capire sé stesso, per fantasticare, per raccontare il mondo come voleva che fosse.
Scriveva perché gli altri ballavano meglio di lui. Per vendicarsi delle prese in giro. Scriveva per fare l’amore, perché di farlo davvero non se la sentiva.
Scriveva perché trovava divertente lo sguardo di un cagnetto, il nasone di un droghiere, l’accento di una donna. Perché la vita gli sembrava buffa, e le cose più importanti per lui erano, insieme, anche le più ridicole.
Si divertiva. Gli era tornata la fantasia, la libertà. E più le cose andavano male, alla Scuola, più scriveva. E quando lo espulsero, alla fine – gli avevano permesso di concludere il corso perché ne conoscevano l’animo sensibile e temevano di dargli una delusione troppo grossa –, gli rimase solo la scrittura.
Ma cosa doveva scrivere?


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