La dama bianca del Lagorai

CARMELO COCO
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In una delle sue novelle, Grigia (1924), lo scrittore austriaco Robert Musil (1880-1942) parla della spontanea naturalità di una contadina, la Grigia appunto, della Valle dei Mocheni. Con tale personaggio femminile, l’Autore volle raccontare la pervasiva ed intrigante bellezza di quel paesaggio che lui definisce “la valle incantata”, a quei tempi parte dell’Impero asburgico.
La Fersental-Bersntol, vallata del Fersina, più nota come Valle dei Mocheni, è abitata a tutt’oggi da una popolazione alloctona di origine germanica, i Mocheni, trapiantativi stabilmente dal 1300 dall’Alta Baviera, per sfruttare le miniere di ferro, rame e argento, proprietà dei Signori del luogo. E’un’enclave linguistica che si è mantenuta nei secoli, grazie all’impervietà della valle e agli scambi commerciali con la Baviera e la Boemia che in passato avvenivano periodicamente in autunno.

Sollecitato da tali suggestioni letterarie e storiche, verso la fine degli anni ’80, decisi di esplorare quel territorio che già allora ritenevo ricco di fascino antico.

Come d’abitudine, essendo un veneziano non dotato di macchina, presi il treno della linea Venezia-Trento e scesi a Levico Terme a 520 m. slm. La consegna familiare era di incontrarsi dopo tre giorni a Sant’Orsola, importante cittadina della Val dei Mocheni, per iniziare le vacanze con moglie e figlie. Avevo quindi tre giorni per raggiungere e attraversare il Lagorai sud-occidentale (in media sui 2000 m). 

Uno scorcio di Levico Terme

Levico mi si presentò come una cittadina di stile austro-ungarico d’altri tempi, linda, curata, arricchita da bei giardini pubblici. L’attraversamento fu veloce, interrotto soltanto quando raccolsi l’informazione più preziosa del primo tratto dell’itinerario: la direzione per Vetriolo, indicatami da una vecchietta sulla soglia di casa. Presi a salire tratti asfaltati e trascurate scorciatoie erbose. Raggiunsi l’agglomerato alberghiero di Vetriolo (1500 m slm), dimentico delle fonti arsenicali-ferrose che ne hanno fatto la fortuna e piuttosto colpito dall’artificiosità e dall’abbandono del sito, talmente intriso di tristezza da farmi cercare frettolosamente il sentiero d’uscita verso Panarotta. Dopo una salita monotona mi trovai finalmente sulla sommità delle ampie praterie alpine del Monte Panarotta (2002 m slm). A duemila metri ero già in una sospensione psicologica, lontano ormai da tutto e da tutti e attento a percepire ogni sensazione che mi fosse provocata dagli sconfinati orizzonti delle Terre Alte. La direzione era La Bassa (1829 m slm) e successivamente il Monte Fravort (2347 m slm). Percorsi il sentiero che corre sul filo della cresta erbosa, sentendomi dominante, a cavallo tra la Valle dei Mocheni e l’Alta Valsugana. Proseguii per la forcella Fravort verso il Monte Gronlait (2383 m slm). Ai miei piedi vi erano le selve e i prati di Frassilongo e Fierozzo, i villaggi storici dei Mocheni sulla sinistra orografica del Fersina. Rimeditavo i racconti dei cadaveri dei valligiani legati in inverno sui tetti dei masi mocheni, per preservarli dalle fiere, in attesa della sepoltura che non poteva aver luogo prima del disgelo: una lunga vicinanza con la morte abituava queste genti alla durezza del vivere su quelle montagne. 

I prati di Frassilongo

Davanti a me si allargavano orizzonti tersi e spazi dilatati, interrotti da grandi accumuli rocciosi e lunghi, aerei sentieri. La luce gradualmente si affievoliva. Ai piedi del Gronlait giunsi al Passo de la Portela (2152 m slm). A destra il Monte Hoabonti (2336 m slm) mi direzionava al Rifugio Erdemolo (1994 m slm), dove avrei passato la notte. Vi giunsi poco dopo il tramonto. Ebbi subito la sensazione di essere l’unico e solo ospite cui i gestori dedicarono ogni attenzione: una presenza umana dopo molte notti passate in solitudine, con cui potevano intrattenersi e scambiare opinioni e amore per la montagna.

La notte avvolse la mia stanchezza, impedendomi di contemplare i riflessi del cielo stellato sul piccolo lago. 

Avevo organizzato una strategia di ricognizione del territorio che mi portava a tenermi per due giorni a nord della testata della Valle del Fersina, con un tracciato a forma di stella. Di buon mattino mi diressi quindi verso nord, sempre in alta quota, al Passo Palù o Calamento (2071 m), sovrastato dal Monte Slimber (2204 m). Da qui raggiunsi nei due giorni successivi altri passi, un rifugio e una malga con una sensazione permanente di grande luminosità, silenzio assoluto, solitudine completa. 

Ricordo la singolarità di due percorsi. Il primo è da riferirsi all’euforia di una salita su balze: rigide bancate ignimbritiche pirognomiche con colate e domi lavici, espressione di un vulcanesimo esplosivo e effusivo di milioni di anni fa. Erano volumi geometrici affrontati tra loro che potevo superare con assoluta disinvoltura e una soddisfazione profonda, quasi avessi le ali ai piedi. 

Il secondo singolare percorso è stato quello del terzo giorno, attraversando il Monte Fregasoga (2452 m), su cresta, con lieve pendenza, quando calpestai fino alla cima un tappeto di escrementi di pecore e capre che mi avevano preceduto in greggi visibili lungo tutto il pendio: fu la prima e greve presenza animale di tutto l’itinerario. Dal Monte Fregasoga, attraverso altri passi, raggiunsi infine il Passo Cagnon di Sopra, punto strategico e definitivo per il raggiungimento di Palù del Fersina prima e Sant’Orsola poi.

Passo Fregasoga.

Era ancora abbastanza presto per non mancare all’appuntamento pomeridiano con la mia famiglia. Potevo quindi concedermi di contemplare dall’alto le impervie cime che mi circondavano e quello che sarebbe stato il mio ultimo tratto di cammino scendendo in valle. Il mio sguardo spaziava tra il cielo di un azzurro abbacinante, la sterpaglia dei prativi, lo sfasciume dei ghiaioni, il tortuoso disegno, appena accennato, del sentiero. Il silenzio totale fu improvvisamente interrotto da una lontana presenza: qualcuno stava salendo. Non si trattava però di un’escursionista, ma di una giovane donna vestita di bianco con un largo cappello di paglia che le copriva il volto: poteva sembrare una delle donne ritratte da Renoir. La veste bianca ornata da veli fluttuanti l’avvolgeva e accompagnava il suo incedere elegante e armonioso che non faceva trasparire la ben che minima fatica. Si avvicinava velocemente nella mia direzione. D’istinto mi portai a lato della sua traiettoria e non riuscii a proferire parola alcuna, né a scorgere i suoi lineamenti, quando mi passò a pochi metri di distanza. La sensazione di trovarmi di fronte a un miraggio e contemporaneamente la paura che si trattasse invece di un fantasma, fece sì che mi allontanassi il più velocemente possibile, dando le spalle alla donna, senza chiederle nulla, né darle il civile, dovuto e consueto saluto tra escursionisti. Mi precipitai per un sentiero alternativo verso il fondovalle, senza incontrare nessuno che potesse confermarmi la presenza della donna e non mi voltai fino a quando non giunsi a destinazione, a Palù del Fersina.

Anni dopo rifeci in salita, ma non da solo, il sentiero da Palù verso il Passo del Cagnon di Sopra ed ebbi conferma dell’impossibilità che una lunga veste bianca impreziosita di veli fosse passata indenne per un sentiero lungo e impervio, pieno di cespugli e rovi, come quello. L’amico con cui ero andato in perlustrazione fu anche lui del parere che il mio non era stato un miraggio, ma una misteriosa presenza degli spiriti della montagna che si era manifestata in quel modo, come un fantasma. Forse proprio la Grigia di Musil, che aveva affascinato e stregato il Nostro, durante il suo breve soggiorno a Palù del Fersina e che era tragicamente scomparsa, forse precipitata in una miniera.

La dama bianca del Lagorai ultima modifica: 2023-10-31T12:57:10+01:00 da CARMELO COCO
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