Direttori d’orchestra italiani, un romanzo musicale “Andante con moto”

MARIO GAZZERI
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Quando Guido Cantelli, allievo prediletto di Arturo Toscanini, morì a soli 36 anni, nel 1956, in una sciagura aerea all’aeroporto di Orly (Parigi), la notizia non fu data all’anziano Maestro ormai quasi novantenne e che pochi mesi dopo cessò di vivere senza aver saputo della tragica fine di colui che considerava quasi un figlio. Non abbiamo elementi per poter scrivere della precoce attitudine di Cantelli alla direzione, sappiamo solo che all’età della sua tragica fine, era già noto in tutto il mondo. “Muor giovane chi al cielo è caro”, recita un’antica e popolare bugia. Certo è che di Guido Cantelli si parlava già come di un predestinato, e non certo perché fosse il preferito di Toscanini. Dopo quell’anno tragico (fu anche l’anno della rivolta in Ungheria e della crisi di Suez), ci fu un periodo quasi di riflessione negli ambienti dei musicisti usciti dai vari conservatori della Penisola. Come se non ci fosse più una stella polare italiana che dal podio potesse indicare il futuro della direzione musicale nel nostro Paese.

Ultimo concerto di Guido Cantelli, 17 novembre 1956 ,Teatro Coccia di Novara, Orchestra del Teatro alla Scala.

Ma, quattro anni dopo, nel 1960, ci fu il debutto alla Scala del ventisettenne Claudio Abbado, destinato (a nostro avviso), a diventare il più ispirato e intenso direttore d’orchestra italiano. Destinato anche a diventare Dirigent dei Wiener Philarmoniker e poi dei Berliner Philarmoniker e di essere infine nominato Senatore a vita della Repubblica Italiana.

Claudio Abbado

Ma cosa aveva di così personale, di così speciale, Claudio Abbado? La conoscenza profonda delle partiture, la profondità dell’intesa musicale con i maestri dell’orchestra, la semplicità ‘affettuosa’ del gesto, il rispetto totale per gli autori, per gli orchestrali e per il pubblico. Lo ricordiamo dirigere il ciclo delle nove sinfonie di Beethoven all’Auditorium di via della Conciliazione a Roma. Nove sinfonie in cinque concerti. Notammo come gli occhi degli orchestrali si alzassero molto spesso dal leggio per seguire il direttore. Ricordiamo in particolare la leggerezza della sua direzione nell’Ottava Sinfonia, “scherzoso“ interludio beethoveniano tra Settima e Nona. Ricordiamo il ritmo della Settima (apoteosi della danza, fu definita) e la malinconica melodia generata da una rassegnata tristezza del terzo movimento della Nona, la Corale. Una melodia di poche magiche note che ricordano, per felice intensità evocativa, l’emozione provocata dalle note del penultimo movimento (che precede il “prestissimo”) della sonata Waldstein’ per pianoforte. Una bacchetta magica, la sua, che da quasi dieci anni purtroppo non ci può più incantare.

Giuseppe Sinopoli

Diversa storia quella di Giuseppe Sinopoli morto sul podio a Berlino mentre dirigeva Verdi. Morte improvvisa dovuta a infarto del miocardio provocato almeno in parte, crediamo, dal suo inveterato vizio del fumo. Uomo di multiforme ingegno, Sinopoli fu anche compositore e appassionato di archeologia e psicoanalisi. A Roma, fu sempre gradito ospite della Spi (Società psicoanalitica italiana) per una serie di incontri in cui illustrò, da par suo, i vincoli segreti che uniscono le due discipline. Le discipline dello scavo, potremmo dire. Sinopoli (veneziano di origini siciliane) lo ascoltammo anche una mattina nella prova generale per il concerto serale; lui in maglione dolce vita e gli orchestrali in abiti civili provavano la Settima sinfonia di Beethoven. Tutto andò liscio per i primi tre movimenti, ma l’esecuzione del quarto fu tutta una serie di interruzioni. “Signori, signori, riprendiamo dalla sesta (battuta)”, “ancora”, “il primo oboe deve intervenire un attimo prima…”. Gli orchestrali obbedivano, forse un po’ increduli.

Riccardo Muti

Ma il talento di Sinopoli si manifestò anche nella direzione della musica lirica al pari di Riccardo Muti, che conoscemmo a Vienna, e che alcuni critici – sempre pronti a stilare classifiche dei più bravi – sostenevano che per la lirica fosse superiore ad Abbado il quale deteneva invece il primato per la sinfonica. E quest’ultima convinzione è, dobbiamo ammettere, assolutamente incontestabile. Va detto, peraltro, che nella musica sacra, Muti ha dato forse il meglio di sé. La Missa Solemnis di Beethoven per orchestra e coro, da lui diretta, è a nostro avviso la sua migliore esecuzione, una meraviglia che ci avvicina all’ignoto che alberga in tuti noi.

Riccardo Chailly

Muti ha una direzione energica, un piglio di comando che ci ricorda il Toscanini visto nei filmati d’epoca. E poi c’è Riccardo Chailly, milanese come Abbado di cui fu assistente alla Scala e, oggi, egli stesso direttore musicale del teatro d’opera forse più famoso al mondo. Chailly ha un ottimo rapporto con ogni orchestra che è chiamato a dirigere, con gli orchestrali imposta un clima di serena collaborazione, sentendosi semplicemente un primus inter pares. Ha una direzione che vorremmo definire pittorica’ A volte abbiamo pensato a lui, immaginandolo – come in un sogno – con un pennello al posto della bacchetta.

Animo sensibilissimo, figlio di un compositore, racconta nel suo libro Il segreto è nelle pause di quando, bambino di neanche undici anni, il padre lo portò a un concerto all’Auditorium del Foro Italico di Roma.

Entrò il direttore, un giovanissimo Zubin Metha,. A un suo cenno improvviso, lo spazio si riempì come d’incanto di un suono potente, di un’onda che mi sommerse. Fu un impeto dolcissimo, mi abbandonai a quella musica senza resisterle, con il corpo e con l’anima, galleggiando, perdendomi in un’estasi piena e febbrile.

Non sapevo cosa stessi ascoltando – aggiunge Chailly – Solo alla fine scoprii che si trattava della ‘Prima’ di Mahler.

Direttori d’orchestra italiani, un romanzo musicale “Andante con moto” ultima modifica: 2023-11-01T18:08:25+01:00 da MARIO GAZZERI
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