La città dove è il colore che dà vita alla luce

“Il pittore di Venezia”. Questo è il titolo della mostra su Italico Brass pensata dall’editore lineadacqua e organizzata con l’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti.
SANDRA GASTALDO
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È una Venezia popolata, ma senza la ressa delle comitive, gregge al seguito di pastori microfonati. Senza moto ondoso, con canali solcati solo da gondole. È una Venezia quasi senza stagioni. È una Venezia – fissata sulla tela dai pennelli, con toni mai troppo intensi per non toglierle eleganza –  che splende di lievità e chiarore. 

Una Venezia dove è il colore a dar vita alla luce, contrariamente a quanto accade ogni momento nella percezione visiva. È la Venezia nella quale ciascuno di noi vorrebbe passeggiare. Una Venezia che può evocare ricordi di ciò che non abbiamo vissuto. 

È la città dipinta da Italico Brass, “Il pittore di Venezia”. Questo è il titolo della mostra pensata dall’editore lineadacqua e organizzata con l’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti. Allestita negli spazi della biblioteca dell’Istituto, a Palazzo Loredan, in campo Santo Stefano, l’esposizione resterà aperta fino al 22 dicembre prossimo. 

Curata da Giandomenico Romanelli e da Pascaline Vatin, la mostra è stata resa possibile dalla collaborazione della famiglia dell’artista – l’unico figlio di Brass, Alessandro, importante avvocato, ebbe a sua volta quattro figli, tra essi il regista Tinto Brass –  e da prestatori che hanno preferito rimanere anonimi. Sullo sfondo, una complicata questione ereditaria, che portò a un lungo sequestro di opere. Motivo della  disputa, la contestazione di un testamento che avrebbe beneficiato le Gallerie dell’Accademia. 

Italico Brass, Caffè Lavena, Piazza San Marco, 1911 (courtesy lineadacqua)

L’esposizione di Palazzo Loredan colma una lacuna nella nostra conoscenza  della produzione di questo autore in un arco temporale compreso tra la fine dell’Ottocento e l’inizio degli anni Quaranta del Novecento. A Italico Brass  sono state dedicate, in tempi non lontani, mostre a Gorizia (1991, 2005, 2016) e a  Milano (2018),  all’interno di un’esposizione sulla pittura e la prima Guerra Mondiale.

A ottant’anni dalla morte di Italico Brass, quella di Palazzo Loredan è l’occasione per vedere tante sue opere insieme, dopo la personale postuma che gli fu dedicata nel 1948, nella prima Biennale del dopoguerra, quella che propose anche l’intera collezione di arte contemporanea di Peggy Guggenheim.

Nelle sale dell’Istituto Veneto, decorate con stucchi e specchi o fasciate dalle alte librerie, tutte illuminate da lampadari di Murano, un centinaio di dipinti, in maggioranza di piccole e medie dimensioni, srotola davanti agli occhi del visitatore una particolare Venezia: la Venezia secondo Italico Brass. Ma non è una sola la città. Oltre a quella, minore, pittoresca, che all’artista piaceva dipingere, molte altre Venezie affiorano o sono evocate come fantasmi.  

È una mostra che racconta tante storie. Si procede, in un’esplorazione temporale, condotti da una mappa di fine Ottocento del Baedeker, tra campi e calli, osservando con gli occhi di Italico i teatri di burattini per il carnevale, le regate e le feste popolari, le processioni sui ponti di barche attraverso il Canal Grande, quello della Giudecca o sulla laguna tra le Fondamenta Nove e il cimitero di San Michele.

Italico Brass, Fuochi d’artificio, a Venezia, 1920 (courtesy lineadacqua)

Si guardano i fuochi del Redentore, si ammira il rigoglio dei giardini privati,  ci si immagina sulla spiaggia del Lido – negli anni Dieci del Novecento, quando nascono i grandi alberghi e la Ciga – in una scenografia  che proietta direttamente dentro a un film di Visconti, pronti a riconoscere  von Aschenbach e il giovane Tadzio.

È una Venezia popolata, ma da un popolo non fatto da persone, bensì da sagome, “comparse” che sono come sfondo:  la teoria di chierichetti che trotterella in fila verso il santuario di turno, le balie che reggono i bebè di borghesia e nobiltà sull’arenile, veloci camerieri in frac,  impiraresse piegate sui vassoi di perle, spalatori di sale a torso nudo con spalle e busto da nuotatori più che da uomini abbacinati dal riflesso, stremati dalla fatica. Non si avverte il sentore del sudore in queste tele, così come nelle raffigurazioni di trincee – come ebbe modo di dire Mario Rigoni Stern  – “non si sente l’odore di morte”.  E, anche quando appaiono le merlettaie, non si pensa allo sforzo di fissare, curve per ore, le trine impalpabili create con ago e un sottilissimo filo.  Tutto passa davanti a noi in una Venezia  dal clima lieve, sereno  – apparentemente non turbata da conflitti – anche quando i suoi monumenti sono circondati da contrafforti di legno, da sacchi di sabbia. Eppure, dietro la Venezia cristallizzata che riempie gli occhi di vivace bellezza, scorrono la Storia, le storie: alcune raccontate, altre suggerite, altre ancora non dette. 

Italico Brass, Autoritratto, 1928 (courtesy lineadacqua)

La prima storia è quella che riguarda Italico Brass (1870-1943). Nato a Gorizia, quando la città era austroungarica, Brass, figlio di un mercante di vini di inclinazioni irredentiste, come testimonia il nome Italico imposto al figlio, mostrò fin da ragazzo un talento artistico.  Seguendo un percorso usuale per l’epoca, andò a perfezionarsi prima a Monaco di Baviera, poi a Parigi dove arrivò, non ancora diciottenne, a cavallo tra la fine del 1887 e l’inizio del 1888. In quella città Italico rimase per circa sette anni – non ininterrottamente –  frequentando una prestigiosa accademia privata. Nella capitale francese conobbe la futura moglie, Lina Rebecca Vidgoff, studentessa di medicina giunta da Odessa. Nel 1895, i giovani sposi partirono per l’Italia. Dopo una sosta a Chioggia, meta, al tempo, di molti artisti e in cui Italico aveva certamente già soggiornato, si spostarono a Venezia.  

Alloggiarono alla famosa pensione Frollo della Giudecca, si trasferirono quindi in calle della Masena e nel 1906 nella casa di San Trovaso, a fianco della chiesa, nel sestiere di Dorsoduro che era diventato quello di residenza di tanti pittori. 

Italico Brass, Partita a briscola, 1893 (courtesy lineadacqua)

Sul versante artistico poco è rimasto delle opere giovanili: un saggio del suo linguaggio di allora, fortemente realista,  è “La briscola”,  intensa tela che raffigura un gruppo di  pescatori chioggiotti attorno a un tavolo. L’opera fu presentata al Salon des Artistes Independantes del 1893. L’anno dopo Brass la ripropose con la Société des Artistes ottenendo una menzione, e la pubblicazione sull’Illustrazione Italiana

Il medesimo quadro dal titolo mutato, “Chioggiotti alla briscola”, venne esposto alla prima Mostra Internazionale di Venezia (la nostra Biennale che, va ricordato, è stata per decenni una mostra-mercato) nel 1895 e venne acquistato dal Museo di Udine. 

Da allora fu un inanellarsi di successi, ma fu anche un punto di svolta per le scelte dei soggetti e per lo stile. Con una virata netta, creando una propria cifra personalissima, pur se definita da alcuni una combinazione tra Guardi e Monet, Brass passò al plein air focalizzato su Venezia. Non la Venezia monumentale,  ma gli angoli, gli scorci che sembrano descrivere un vivere in un tempo lieto.

Italico Brass, Caffè Florian, 1912 (courtesy lineadacqua)

La quotidianità della Venezia dipinta di Brass non ha nulla a che spartire con quella possente fissata sui teleri dei secoli d’oro della pittura. Quelle di Brass non sono opere che descrivono il potere della Dominante, paiono invece concepite per abbellire case private di media e alta borghesia, per raccontare, anche e soprattutto ai “foresti”, l’esotismo di quella che era ancora vista come una porta verso l’Oriente. Il risultato della scelta di Brass fu ampio e fruttuoso, come dimostra la sua presenza da allora in poi a quasi tutte le Biennali, con due importanti personali nel 1910 e nel 1935 oltre all’esposizione postuma del 1948. Numerose furono anche le mostre nel resto d’Italia, da citare quella del 1918 alla galleria Pesaro di Milano con 135 dipinti. All’estero non si possono non ricordare la personale del 1914 nella prestigiosa galleria Petit di Parigi e la presenza nel 1915 all’esposizione mondiale di San Francisco. 

Numerosi e frequenti furono anche i viaggi in Europa e nell’America del Nord e del Sud. Allo scoppio della prima Guerra Mondiale, nonostante non fosse ancora cittadino italiano, la fama e le relazioni influenti contribuirono a fargli ottenere, dal Comando supremo, il permesso  di documentare la vita al fronte. 

Concluso il primo conflitto mondiale una nuova svolta. Brass acquistò, nel 1918, l’antica scuola della Misericordia, un pregevole edificio gotico danneggiato dai bombardamenti sul quale aveva posto gli occhi anche Gabriele d’Annunzio. Italico avviò un impegnativo restauro e, contemporaneamente, cominciò a ridurre il tempo per la pittura. Dopo aver venduto in tutto il mondo le proprie apprezzate vedute di una ariosa Venezia minore e aver approfondito in Europa e oltre oceano la conoscenza dell’arte antica e delle dotazioni museali, Brass cominciò a collezionare, scambiare, vendere opere antiche. Non è noto quante e quali tele siano passate nel salone della vecchia Scuola della Misericordia, allestita come una galleria: esistono foto che la fanno apparire un vero museo.

Cercando, però, il nome di Brass  negli archivi di grandi istituzioni museali si possono trovare, oltre a tele di sua realizzazione, delle tracce di ciò che per le sue mani transitò e che suggeriscono l’interessante dimensione della sua attività di collezionista. 

Al Metropolitan di New York è conservata una Crocefissione di Palma il Giovane, dono del banchiere  Robert Lehman,  appartenuta in precedenza a Italico Brass. Sempre del pittore d’origine goriziana erano otto tra schizzi e disegni, tra cui tre Canaletto e un Piazzetta, di artisti operanti in Italia tra Sei e Settecento, oggi alla Morgan Library.

Al Cleveland Museum of Art si trova un olio su tela raffigurante una Minerva (dipinta nel 1636  dal genovese Bernardo Strozzi) fino al 1929 nella collezione Brass.

E sempre a Cleveland, due bozzetti degli anni Venti del Novecento – maschere a palazzo Ducale e il ponte di Rialto – firmati da Italico Brass,  ma pure una testa femminile di Giovan Battista Piazzetta dono del pittore italiano.

E questa è una delle Venezie, anzi una fetta della storia della città, non direttamente correlata alla mostra, che però fa capolino sullo sfondo. È la Venezia diventata “miniera”. La  Venezia che vive della propria eredità, non precisamente un’eredità morale o ideale. La “miniera” Venezia è stata scavata per secoli, ma le vene più cospicue forse sono quelle sfruttate nell’Ottocento. Come non ricordare il famoso console inglese Joseph Smith (1674-1770) la cui raccolta d’arte è importante parte della Royal Collection, come non pensare a porzioni di antichi mosaici di San Marco, rimossi per interventi di restauro murale, riapparsi nelle collezioni del Museo Puskin di San Pietroburgo. Come non interrogarsi sulle centinaia di vere da pozzo disperse in parchi privati d’Europa. Per non parlare del Tiepolo staccato da Villa dei Leoni di Mira nel 1893 tranquillamente venduto a dei facoltosi francesi, ora visibile al museo Jacquemart-André di Parigi

Nella Venezia di fine Ottocento, quella in cui anche Brass visse, era di casa Isabella Stewart-Gardner,  la ricca americana appassionata d’arte e della città lagunare che, durante i suoi soggiorni, si dedicava a un raffinato shopping per trasformare la sua casa di Boston in quello che è oggi uno straordinario museo in forma di palazzo veneziano.

Isabella frequentava un altro appassionato d’arte, lui stesso bostoniano, il facoltoso pittore Ralph W. Curtis, la cui casa era ritrovo – come il celebre giardino Eden della Giudecca – della ricercata comunità angloamericana tanto affezionata alla nostra città.

Curtis era proprietario di Palazzo Barbaro, sul Canal Grande; uno dei soffitti dell’edificio era originariamente decorato con un Tiepolo,  “La glorificazione della famiglia Barbaro”, per ammirare la quale occorre oggi recarsi al Metropolitan Museum di New York, dove giunse con donazione anonima nel 1923.

La folta comunità angloamericana, che anche Brass incontrò o incrociò, sparì velocemente da Venezia forse a causa del colera del 1911 – quello raccontato da Thomas Mann – o per il divampare della prima Guerra Mondiale. Con essa evaporò anche il turismo internazionale. 

Italico Brass, Il giorno dei morti / Ponte S. Michele 1910-12 ca. (Collezione privata, courtesy lineadacqua)

Ma, e questa è un’altra delle storie che non fanno da cornice alla mostra, restando sospese su uno sfondo lontano, c’era un’altra “città” che stava lavorando da tempo a un progetto, quello della Grande Venezia, che produsse la nascita, nel 1917, della zona industriale affacciata sulla laguna tra Mestre e Malcontenta. Prodromi dell’intervento erano stati la creazione di società elettriche, lo scavo delle bocche di porto e dei canali, investimenti nella cantieristica e  nei trasporti  marittimi. Quella “città” era impersonata da un gruppo di imprenditori-banchieri con forti radici nel mondo politico ed economico, un gruppo nel quale spiccavano Vittorio Cini e Giuseppe Volpi, uomo, quest’ultimo, con interessi anche nel turismo d’élite e promotore dei grandi eventi culturali di richiamo internazionale,  che mi muoveva a tratti con libertà maggiore di quanta mai concessa a un principe serenissimo.  

Volpi fu certo presente nella vita di Brass, come lascia intendere una frase scritta da Elio Zorzi sulla Gazzetta di Venezia il 3 febbraio 1934, riportata nel catalogo della mostra. Annotava Zorzi:

’in una pagina del ‘Libro dell’Abazia’ Giuseppe Volpi, limpido conoscitore di cose e di uomini, ha scritto:  «al suo amico Italico Brass, venezianissimo pittore, con vecchia amicizia e riconoscenza» – te gò fatto cittadin venezian…

La grande reputazione di cui godeva e un’affinità con la classe dirigente veneziana sono attestate sia dall’assidua presenza di Brass alle Biennali, sia dal suo ruolo – per un lungo periodo – nel comitato deputato alla selezione degli artisti da invitare alla Biennale stessa. La sua competenza è testimoniata dal suo nome inserito nel comitato di organizzazione delle grandi mostre dedicate negli anni Trenta a Tintoretto e Tiziano, curate da Nino Barbantini.

L’altra Venezia che non appare in mostra è quella del contesto culturale di contorno, del fermento intellettuale delle avanguardie artistiche che stavano cambiando il panorama dell’intera arte europea e di quella italiana e veneziana. Quello che manca sono gli tanti pittori coevi di Brass, ma anche la generazione dei giovani, i cosiddetti ribelli di Ca’ Pesaro, luogo  che, dal 1908 al 1913, fu quasi un’anti-Biennale. Quello che manca è il profilo di una Venezia attraversata dalle lotte di potere non solo politico economico, ma anche culturale. 

In mostra, non fosse per una tela del ’36 in cui compaiono i giovani Balilla e le Piccole Italiane in divisa, non c’è traccia del Ventennio. E neppure dell’influenza del sindacato degli artisti fascisti, tanto forte da riuscire ad ottenere l’espulsione dalla commissione della Biennale di importanti critici -non iscritti al partito – come Ugo Ojetti e Margherita Sarfatti.    

Quella che manca totalmente, è poi la città invisibile. Non la Venezia minore e pittoresca che tanto ci piace, che piaceva a Brass, ed è piaciuta ai suoi collezionisti. La Venezia marginale e misera, sporca e puzzolente, perché priva di acqua corrente nelle modestissime abitazioni spesso sovraffollate, dove la latrina era sovente in cucina. La Venezia invisibile e marginale di Castello o della Giudecca, o di Santa Marta, la Venezia della povertà estrema, delle enteriri, delle tubercolosi, delle epidemie di tifo, vaiolo e colera, l’ultima descritta nella Morte a Venezia. Manca la città contro la quale inveivano i futuristi accusando i veneziani “felici di marcire nella vostra acqua sporca, di arricchire senza fine la Società Grandi Alberghi” come scrivevano in Contro Venezia passatista  Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo nel 1910. Nello stesso anno Raffaele Vivante, capo dell’ufficio di igiene del Comune, denunciava le gravissime condizioni in cui viveva una parte non trascurabile della popolazione dei sestieri periferici. Una città, quella a cavallo tra Ottocento e Novecento dipinta da Brass, che ha un tasso di mortalità più elevato di quello delle grandi città italiane (24 per mille nel 1901), un tasso al quale contribuiva notevolmente – coma ha scritto in un suo saggio lo storico dell’economia Giovanni Favero – l’elevata mortalità infantile: quasi un bambino su cinque (196 per mille) moriva nel primo anno di vita.

La città dove è il colore che dà vita alla luce ultima modifica: 2023-11-01T15:27:53+01:00 da SANDRA GASTALDO
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