Nel segno del sogno di Mandela

ROBERTO BERTONI BERNARDI
Condividi
PDF

English Version / ytaliglobal

Syia Kolisi, il capitano del Sudafrica di nuovo campione del mondo di rugby, aveva da poco compiuto tre anni il 24 giugno 1995, il sabato in cui, a Johannesburg, gli Springboks vinsero i Mondiali, di cui avevano ottenuto l’organizzazione, imponendosi sulla Nuova Zelanda per 15 a 12. Quattordici anni dopo quella partita e l’intera competizione si sarebbe trasformata in un film memorabile: “Invictus” di Clint Eastwood, con Morgan Freeman nei panni di Mandela e Matt Damon in quelli del capitano della Nazionale, François Pienaar. 

Mandela era stato scarcerato, per iniziativa del presidente de Clerk, l’11 febbraio del ’90, si veniva dell’Apartheid e, una volta divenuto presidente (aprile 1994) di una Nazione che per ventisette anni lo aveva tenuto in prigione, aveva deciso di evitare ogni forma di rancore e di vendetta, puntando su un gioco tipicamente bianco per favorire l’integrazione dei neri e la riconciliazione del Paese. Un gioco, è bene sottolinearlo, che aveva visto il Sudafrica escluso dalle prime due edizioni della Coppa del Mondo, proprio a causa dello scempio contro cui Madiba si era battuto per l’intera vita. 

Erano gli anni della “Rainbow nation” (la Nazione arcobaleno), particolarmente cara sia a Mandela che all’arcivescovo Desmond Tutu, dell’incontro e del prendersi per mano, al fine di sconfiggere l’orrore della segregazione razziale e di allontanare lo spettro di possibili ritorsioni. Non a caso, tutte le nazionali impegnate nelle varie discipline assunsero il nome di un fiore, la Protea, venendo ribattezzate Proteas. Tutte, tranne la Nazionale di rugby. Le antilopi che saltano rimasero Springboks, come si chiamavano dal 1906, proprio per dire ai bianchi: non vi faremo mai ciò che avete fatto noi. 

Mandela puntò sul valore dello sport, sulla sua capacità di emancipare le persone, sulla sua fortissima presa sociale, sulla passione che è in grado di suscitare a ogni latitudine e sulla bellezza di un gioco che esaltava le caratteristiche migliori della sua gente: la grinta, la tenacia, lo spirito di squadra, la forza del singolo che si trasforma in entusiasmo collettivo e, infine, il desiderio di riscossa che consente di compiere miracoli, gettando il cuore oltre un ostacolo apparentemente insormontabile.

Basti pensare che gli All Blacks vedevano nelle proprie file un fenomeno come Jonah Lomu, praticamente immarcabile, ed erano stati in grado di mettere a segno 145 punti in una sola partita, sia pur contro un avversario modesto come il Giappone. Ma soprattutto: in Nuova Zelanda il rugby non è uno sport ma una religione laica, una battaglia collettiva, un simbolo, diremmo quasi un dovere morale. Ed essere partecipi di quella gioia era l’aspirazione di ogni bambino, tifoso di una nazionale tostissima ma leale, quasi invincibile, ricca di talento e ambizione positiva, formidabile nel menare le danze e pressoché imbattibile.

Eppure, Nelson Mandela trovò la formula giusta. Convinse Pienaar che bianchi e neri fossero accomunati dallo stesso destino e, tramite lui, il resto della squadra. E così, lo sport dei bianchi, che i neri disprezzavano, al punto di tifare contro il proprio stesso Paese per rabbia e per disperazione, divenne lo sport di tutti.

Gli Springbok sfilano a Cape Town

All’epoca, c’era un solo giocatore nero in squadra, Chester Williams; ventotto anni dopo, un campione nero, figlio di Zwide, una delle township di Port Elizabeth, ha alzato al cielo la William Webb Ellis Cup, rendendo felice e orgoglioso un intero popolo. Non solo: proprio come allora, anche stavolta si è trattato di una vittoria tiratissima, addirittura per un punto solo, un 12 a 11 che fa il paio con i successi per un punto solo contro Francia e Inghilterra ai quarti e in semifinale, a dimostrazione della furia agonistica di un gruppo che non molla mai, che non si arrende, che lotta su ogni pallone, fino all’ultimo minuto, fino a una vittoria da dedicare alla propria gente, in nome di un ideale condiviso che scardina le barriere di un tempo.

Oggi siamo al cospetto di una Nazionale multiculturale, multietnica e, come abbiamo visto, fortissima, in cui le diversità costituiscono un valore aggiunto e l’incontro fra gli ex nemici è qualcosa che rende unici non solo i trionfi ma anche le singole partite. Ogni avventura condivisa, infatti, ha il sapore del riscatto, e questo spesso fa la differenza. È accaduto anche a Parigi, sabato scorso, quando Handré Pollard, uno che a inizio Mondiale non faceva parte dei trentatré della rosa per infortunio, entrandovi solo a torneo in corso, ha messo a segno tutti e dodici i punti che hanno regalato l’apoteosi ai verdeoro. E da lassù Mandela avrà sorriso.

Nel segno del sogno di Mandela ultima modifica: 2023-11-03T20:33:12+01:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
Iscriviti alla newsletter di ytali.
Sostienici
DONA IL TUO 5 PER MILLE A YTALI
Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!

VAI AL PROSSIMO ARTICOLO:

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE:

Lascia un commento