Di Nadia Agustoni (1964), poeta operaia che lavora in una fabbrica bergamasca, conoscevo alcune sillogi: Il peso di pianura, Alberi bianchi, La casa è nera, Il libro degli haiku bianchi, Taccuino nero. Altri suoi libri li ho cercati dopo averla ascoltata negli incontri organizzati da Gabrio Vitali in terra bergamasca. Minuta e forte, con la sua lettura quasi sussurrata, come a chiedere al pubblico il massimo dell’attenzione, Agustoni presta la voce a ciò che rimarrebbe muto.
In Lettere della fine, ristampata nel 2022 da Vydia nella nuova edizione ampliata (pp. 200, € 15), l’autrice, testimone dell’alienazione e dell’abbrutimento nella fabbrica, racconta di sconfitti e di malati, di solitudini, di dolore e di fatica che non escludono l’irrompere della bellezza e della tenerezza, come quando, in un’epifania,
escono dalle nuvole gli uccelli
e le stelle rotonde – i bambini
invece sono cometa
stanno in un canto, stanno
lassù il loro mondo – i colori.
O come quando il nipotino «Alessandro / balbetta fa gnam gnam gattona dice da / e l’albero è dove guarda sperare / cuccioli – l’inverno nelle manine. cosa sa.». Tra due punti fermi, il «cosa sa» è la domanda senza risposta di chi, proprio sapendo, ha bisogno di poter sperare per i «cuccioli», i più esposti di ogni specie.

Foto: Dino Ignani
In apertura della II sezione di Lettere della fine, un unico verso si distende orizzontale sul bianco della pagina ad affermare: «siamo vivi per l’intera vita ma non c’è l’intero». Cosa manca al compimento dell’«intero»? Siamo sempre alla «penultima fine»: le violenze non hanno fine, senza fine è l’«assenza» che non può essere colmata ed è indicibile. Agustoni ci fa intuire la drammaticità dell’indicibile, che può essere tentato forzando logica e punteggiatura, e ci avverte: «dei versi bisogna / spaventarsi». Cosa mostrano di spaventevole i suoi versi?
Il male nella sua inesplicabilità, nella Storia e nelle singole vite, ci viene ripetutamente indicato nelle storie di poveri e di annegati, in quelle degli operai. Nella sezione tra fabbrica e fine, se in «fabbrica non c’è parole», imperativo è l’ascolto dei compagni, dove e quando si può: «nelle infermerie raccogli / la storia di ogni altro». Ed ecco la disumanizzazione nel lavoro in fabbrica, dove c’è chi si vanta: «“noi siamo gli occhi della saldatrice”», mentre, per riaffermare l’umanità negata, viene ricordato che «nel timpano della sirena / restiamo creature».
Nella sezione ischemie, i versi – che si incolonnano in terzine senza legami logici – mimano i frammenti del passato che emerge dall’oblio di alcuni anziani in un ricovero. Come il vecchio che ha perso la memoria e che «nel vestito della domenica / si ricorda di piangere e non sa / chi è morto per primo // quale assenza ha fine». Per il vecchio degente, senza fine è l’assenza di tutti coloro che sono spariti dalla sua vita e non potranno nemmeno più tornare nella sua memoria.

di Nadia Agustoni
Vydia edizioni, 2022
La cronaca ci tiene informati delle morti sulla strada che va via via registrando. Con il «noi» che appartiene alla sua poetica («vedere la vita come se vivessi per ognuno»), Agustoni ci fa sentire lo strazio per ciascuna vita interrotta, ricordata dal «mazzo di fiori sulla statale» con il quale siamo chiamati ad identificarci, in questa stessa «pianura» desolata che siamo:
la nostra vita è vedere tutto
siamo noi la pianura il km morto
il mazzo di fiori sulla statale
che aspetta la neve e un’altra neve.
l’inverno è dove immagino ogni ora
nel grammo dei vetri.
Ciò che va oltre la nostra comprensione è lì, tra i versi che precedono e seguono un’affermazione sospesa: «ma il male credimi il male». Male, nella poesia di apertura, è il gas usato contro la popolazione civile: «lì cadono i bambini i fiori / che pensiamo per sempre». Fiori e bambini a scuoterci nella nostra drammatica incapacità di fronte al male. Ma leggiamola tutta questa poesia che inizia con la minuscola e resta aperta nell’assenza un punto fermo dopo l’ultimo verso:
i volti tra le frasi il poco
dei giorni succede chiaro
le parole arrivano viene il mondo
una volta erano le voci
un che di cicoria e limoni
o terra a patire
e il gas falciava i prati
in un altrove dove le spine
dove noi e nulla –
scrivi sulla morte
lì cadono i bambini i fiori
che pensiamo per sempre
e senza le tue parole c’è altro
come se restasse il sangue di tutti
e tutta la vita per niente –
ma il male credimi il male
guarda se siamo soli
se siamo figli padri
qualcun altro –
ricordati chi rideva chi
disse cosa a chi
e non trovava risposta
ma un’eco
l’osso cranico
(io non sono la domanda)
Nel biglietto n. 1, ciò che non possiamo comprendere riguarda il destino di altre specie: «i fiori e altri fiori / un solo fiore e fiorire / il gelo e gli occhi non sanno / non sanno com’è nei fiori». Fiori con cui condividiamo la fragilità creaturale: «viviamo fragili». Nel biglietto n. 5, ciò che ci attende ci è dato da pensare e da interiorizzare: «a lungo pensiamo la poiana / starà nella sera migrerà in noi / come il piccolo muscolo del fiore / […]».
Una delle storie che non finiscono è quella narrata in oratorio della fine, un poemetto dove, con l’evocazione delle scene del martirio di Santa Barbara – protagonista degli affreschi di Lorenzo Lotto alla Cappella Suardi di Trescore Balneario – Agustoni fa emergere in un cortocircuito un frammento della storia di una giovane immigrata in quegli stessi luoghi, che, per volontà del padre-padrone, ha subito la medesima sorte della Santa martirizzata. A non avere fine, qui, sono le violenze che da millenni continuano a perpetuarsi perché, siamo avvertiti, ci sono «le cose mai difese / e la storia si ripete – / non è mai stanca – ».
Copertina: Foto di Chris Bair su Unsplash

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