[TEL AVIV]
Il 7 ottobre 2023 segna uno spartiacque drammatico anche nella politica interna d’Israele, tra un prima caratterizzato da oceaniche manifestazioni di piazza contro il governo di Benjamin Netanyahu e un dopo nel segno della massima unità nazionale, dietro lo stesso contestatissimo Bibi, nelle vesti del commander-in-chief del paese in guerra.
Resteranno impressi nella memoria degli israeliani i 41 sabati consecutivi di sit in e cortei contro la riforma giudiziaria, fortemente voluta dal governo di estrema destra e personalmente dal primo ministro, sotto inchiesta e passibile di finire letteralmente in prigione.
La riforma era volta a svuotare dei suoi poteri e della sua autonomia la Corte suprema a favore del governo. Una grave alterazione degli equilibri di poteri su cui si basa l’assetto democratico israeliano. Il pacchetto legislativo proposto mirava a modificare la composizione della Commissione per la selezione dei giudici in modo che il controllo sulla nomina dei magistrati fosse di fatto affidato al governo, riducendo drasticamente nel contempo i poteri della Corte suprema di Israele, fino all’approvazione alla Knesset, nel luglio scorso, di una legge che abolisce la cosiddetta “ragionevolezza”, cioè la facoltà della Corte suprema di impugnare decisioni del governo considerate “irragionevoli”. I 64 voti della maggioranza, zero dell’opposizione, uscita dall’aula nella votazione, fotografa la profonda, insanabile frattura politica prodotta dalla prepotenza del governo di estrema destra.
Il 7 gennaio, per la prima volta, a Tel Aviv c’è una grande manifestazione contro la riforma annunciata tre giorni prima dal ministro di giustizia Yariv Levin, uno dei falchi più estremisti del governo, fiero oppositore della creazione di uno stato palestinese e sostenitore del diritto degli ebrei a restare in tutte le parti della terra d’Israele. Da allora, ogni sabato, le vie e le piazze d’Israele si riempiranno di contestatori del governo.

Via Kaplan, all’incrocio con Via Begin, punto di aggregazione delle manifestazioni, diventa un luogo simbolo, tanto che a metà luglio il Comune di Tel Aviv ribattezza l’incrocio “piazza della Democrazia”. Il sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, sempre presente alle proteste, spiega in un tweet: “nel 75mo anno dello stato d’Israele, è diventato chiaro, contrariamente a quanto finora pensato, che la democrazia non è data per scontata”. Le manifestazioni che si svolgono ogni sabato in tutte le città e i paesi d’Israele sono un no corale alla riforma e al suo sponsor, Bibi.
Il grande movimento di piazza non è legato ai partiti d’opposizione, che anzi critica per essere concilianti con il governo, ed è il risultato della confluenza di tante organizzazioni di base e comitati di cittadini e lavoratori d’ogni settore e di diversi orientamenti politici, anche elettori del Likud. Crescendo di dimensioni e di forza il movimento va oltre la richiesta di accantonare la riforma giudiziaria per chiedere le dimissioni di Netanyahu, una richiesta che trova il consenso del settanta per cento degli israeliani.
Talmente imponente è la portata del movimento che vi partecipano, anche a viso aperto, tanti riservisti, che annunciano il rifiuto di prendere parte al miluim, il richiamo annuale per esercitazioni.
Il 7 ottobre lo shock del “nemico esterno” azzera all’istante ogni forma di conflittualità interna.
La reazione degli israeliani è forte e unanime. Tutti i riservisti si presentano alla chiamata, anzi molti di più di quelli tenuti a rispondere all’emergenza. La tensione sale, “annientare Hamas”, “cancellare Hamas”, “uccidiamoli tutti”, frasi di rabbia che risuonano anche tra le persone miti. E se la soluzione di conquistare Gaza e ripulirla dai terroristi è sempre stata la parola d’ordine della destra estrema, ora dopo l’attacco sanguinario diventa attuale e diffusa.
Ma c’è anche rabbia per come sia stato scoperto il fianco all’irruzione di oltre tremila terroristi e, dopo di loro, di abitanti di Gaza per partecipare al saccheggio e alla violenza. Una vulnerabilità resa possibile dallo spostamento di forze dal confine con Gaza alla Cisgiordania, nei territori dei coloni? Questa e altre domande girano ma si aspetta la fine del conflitto per la resa dei conti con i responsabili politici del disastro, Netanyahu in testa.
E su tutto c’è la questione dei 241 ostaggi. Le loro famiglie si sono organizzate, fanno pressioni sul governo. All’inizio erano contrarie all’invasione di Gaza, temendo per i propri cari, adesso c’è chi tra loro preme perché si vada fino in fondo, mentre un’altra parte chiede il cessate-il-fuoco.
Che cosa ne è dunque del movimento di piazza della Democrazia? La contestazione della riforma giudiziaria è messa da parte – d’altronde lo stesso governo l’ha accantonata – e il movimento è in grande attività, anche attraverso la sua fitta rete di chat e social, a favore delle famiglie degli ostaggi e degli sfollati dalle aree del nord, minacciate da Hezbollah.
Le dimissioni di Netanyahu restano sul tavolo, ma ci vorrà tempo perché il presidente Herzog se ne occupi. Molto tempo, perché il conflitto promette di essere molto lungo.

Immagine di copertina: Tel Aviv. La tavola imbandita dello Shabbatt con le 241 sedie vuote degli ostaggi.

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