
Esce per i tipi di ytali “Stazione di Transito”, la terza raccolta poetica di Mario Gazzeri.
Il libro è disponibile per l’acquisto online a questo link.
Di seguito riproduciamo la prefazione del libro, a cura di Mauro Richeldi.
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Un linguaggio vivo, condiviso, proiettato sulla trama cangiante della vita morale: la poesia che Mario Gazzeri consegna a questa nuova raccolta ha i caratteri di un diario intimo determinato a farsi appello. Ad essere chiamati in causa siamo proprio noi, i lettori: provocati da una lingua piana, da un io lirico che pretende distacco, dall’intima tensione di una confessione che si esige lucida, padrona di sé, intellettualmente avvertita.
Giornalista, Gazzeri porta in poesia qualcosa della professione: il suo modus poetico è propenso all’annotazione, al procedere per frammenti di comprensione naturalmente sporgenti verso concatenazioni a venire. E la sua indagine attraversa uno spazio dell’anima di cui, pagina dopo pagina, impariamo a conoscere i caratteri: un territorio del disincanto, della maturità, di amare conferme intorno alla poca rilevanza morale di una realtà certamente popolata di simboli, ma anch’essi segnati dallo stigma della disillusione, quasi impazienti di cedere alla sensibilità del poeta, con uguale noncuranza, segno e significato.
Un trasfigurato
interieur crepuscolare, potremmo dire, che però riserva sorprese. Perché
in esso (nel suo essere laboratorio del ripiegamento poetico, e non solo
intellettuale) si nascondono consolazioni durature, e può persino apparire
improvvisa l’illuminazione inattesa dell’ulteriorità, l’epifania esistenziale.
A più riprese, l’autore ci ricorda una sua convinzione: che poeta e musicista
sono fratelli, che il gesto della poesia è omologo a quello della musica. Accettando
questa premessa (di cui il lettore troverà evocazioni e validazioni empiriche
lungo la raccolta), acquista un significato particolare il fatto che in molti
componimenti l’accordo più memorabile, l’invenzione ritmica più saliente siano
posti lì dove il significato precipita sulla demitizzazione: sull’annotazione
ironica, sulla “calata di tono” di sapore crepuscolare. A sottolineare insomma che
solo il canto – solo ciò che della parola resta quando è esaurito il dire – è la
sede autentica dello scarto poetico, la quota su cui si realizza il prodigio di
una lingua che può ancora redimere e trasfigurare, perché capace di attribuire all’esistenza
un senso
meno provvisorio, o meno tautologico. Senza l’ulteriorità del canto, ci viene
detto, persino la poesia è solo “grammatica”, “aritmetica di sentimenti”.
Allora questa capacità di meraviglia recuperata attraverso la musicalità del verso, questa “irresistibile insorgenza del canto” (per dirla con Perse) è ciò che in ultima analisi dona prospettiva all’ispirazione, ad una frequentazione assidua con l’interiorità, ad una ricerca interiore che, evidentemente, non potrà che essere condotta in poesia. È una ricerca che Gazzeri accetta sia nelle sue determinazioni più intellettualistiche, sia quando appare gravata da una sofferta verticalità psicologica, in spirali che ripropongono e arricchiscono il confronto con plessi esistenziali ricorrenti e dolorosi – la dimensione dell’incertezza, l’implosione biografica, l’esperienza dello straniamento.
Questi sono dunque il compito e l’immanente tensione di cui il poeta decide di farsi carico. Quale sia la ricompensa, il premio di tale fatica, è cosa più difficile da definire, almeno ove si richieda una definizione univoca. Il cammino di Gazzeri approda certo a valori limpidi, tangibili, ma essi appaiono dispiegati su una varietà di piani: può essere l’accesso ad una grazia apollinea, tutta innervata di distacco e ironia, come nei versi di “Figlia”; o il dono di una spoliazione rivelatrice, come nel trasalimento da resa dei conti di “Tornanti”; ma può anche essere la forza di un’intuizione che riporta all’essenziale una sospetta complessità, come ad esempio accade in “Milano”, dove d’un balzo vengono scavalcate le stratificazioni della città-archetipo della modernità italiana e si giunge all’autenticità di una periferia fragrante di “calda vita”. Ciò che possiamo dire è che tutti questi felici approdi sono moneta sonante, nel senso di ciò che Dylan Thomas chiamava il “comune salario” del poeta – e cioè un privilegio raro, che tocca in sorte ad alcuni: quello di aver scoperto e abitato luoghi profondi, semplici e autentici dell’esistenza, e di saperli cantare.
Mauro Richeldi