politiche identitarie e sinistra
“La vera sinistra si preoccupa di problemi di classe, non di politica identitaria”, ha dichiarato qualche giorno fa Noam Chomsky in un’intervista rilasciata a Yascha Mounk per Domani. “La ragione ovvia è guardare alle forme principali di politica identitaria…Le forme principali sono ancora, prepotentemente, la supremazia bianca e quella maschile… La supremazia bianca, il patriarcato, la supremazia maschile sono patologie culturali che andrebbero superate… [Le battaglie di donne e minoranze per far valere la loro identità] non sono sinistra: è solo una ricerca di diritti su una gamma più ampia rispetto ai soli settori dominanti”.
Certo, sarebbe auspicabile che le battaglie per i diritti non fossero il terreno di un aspro scontro culturale e, in questo modo, smettessero di essere principalmente appannaggio della sinistra. Tuttavia, dichiarare che la supremazia bianca è la forma principale di politica identitaria significa deformare profondamente il significato iniziale del termine. Identity politics, politica identitaria, è un concetto creato dal Combahee River Collective, un gruppo di femministe nere, lesbiche, socialiste attive negli Stati Uniti durante gli anni Settanta. Esse consideravano la loro identità l’arma per condurre la “politica più profonda e radicale” contro un sistema di potere opprimente.
Si tratta di un concetto immediatamente evidente a coloro che fanno parte di una minoranza: esprimere la propria identità sulla scena pubblica è di per sé un gesto politico, una maniera di esistere. Un’affermazione finalizzata a liberarsi e liberare. Esattamente l’opposto di ciò che è la supremazia bianca, un sistema volto a conservare uno status quo oppressivo ed escludente. Considerare quindi la supremazia bianca o il patriarcato la “forma più grande e più potente di politica identitaria” – come fa Chomsky – delegittima e depotenzia il concetto di identity politics, che così perde la sua connotazione liberatoria.
Chomsky è in buona compagnia. In questi anni molti hanno contribuito a trasformare il termine “identity politics” in un insulto per azzoppare le battaglie sui diritti. L’argomento che viene tradizionalmente usato è che, mettendo l’accento sull’identità dei soggetti in questione, le battaglie delle minoranze spaccherebbero la società, creando una miriade di pericolose divisioni. “Esse sono espressione di una civiltà iper-individualista”, lamentano i detrattori. È anche un po’ quello a cui Chomsky allude dicendo che la sinistra tradizionale si occupa dei problemi di classe. Come se l’attenzione alle istanze delle minoranze distraesse la sinistra, indebolendone l’impegno contro le ingiustizie del sistema capitalista.
È lecito pensare l’opposto. L’identità non è mai un fatto individuale, ma il risultato di come ci relazioniamo con il mondo. Non è una novità. Il capitale, lo stato, la chiesa hanno contribuito attivamente allo sviluppo di gerarchie razziali, appartenenze nazionali e stereotipi di genere – una serie d’identità imposte – funzionali a giustificare un sistema di potere basato sul predominio del maschio bianco eterosessuale. Una struttura talmente radicata da apparire scontata e, perciò, paradossalmente invisibile. Lo dice anche Chomsky. Proprio per questo, l’affermazione sulla scena pubblica delle identità oppresse – la loro visibilità – ha un impatto che va ben al di là delle comunità interessate: sono vari tasselli dello sforzo per costruire una società migliore, una società di uguali.
Le lotte delle donne, delle persone Lgbt o delle minoranze razziali non riguardano mai solo i gruppi in questione. Esse condizionano la società tutta, che non vogliono frammentare ma rivoluzionare. Le percezioni su questi temi stanno cambiando. La rinnovata visibilità delle istanze femministe, Lgbt o razziali marca l’inizio di una presa di coscienza collettiva. A diventare più consapevole è soprattutto chi non è immediatamente toccato da queste problematiche. Ecco perché si tratta di una battaglia di tutti, anche della sinistra.

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