3.385 morti sulle strade italiane nel 2013. 257.421 feriti. Vittime di 181.227 incidenti d’auto. Si potrebbero spulciare altre statistiche, altrettanto sinistre, altrettanto crudeli, dalle malattie e dai decessi provocati dall’alcol o dalle droghe pesanti fino agli stessi incidenti nelle mura domestiche che uccidono centinaia di migliaia di persone e ne invalidano milioni: nell’Unione Europea ogni due minuti qualcuno muore a causa di un incidente e altre 228 persone restano infortunate. Con 250mila decessi all’anno, gli incidenti rappresentano la quarta principale causa di morte, dopo malattie cardiovascolari, cancro e malattie respiratorie.
Eppure un aereo che si va a schiantare sulle Alpi occupa per giorni e giorni le prime pagine e buona parte dei telegiornali. Ancora una volta emerge clamorosamente come le tragedie aeree colpiscano la sensibilità del pubblico, una platea composta molto più da spettatori che da reali fruitori del trasporto aereo (tuttora, nonostante il grande balzo del trasporto aereo, la maggioranza degli italiani non ha mai messo piede su un aeroplano, senza contare la stragrande maggioranza che non sa neppure come prenotare un biglietto aereo). Colpisce molto più il disastro aereo raccontato dai media che un tamponamento multiplo e mortale che si può osservare con i propri occhi viaggiando in autostrada.
Quando il contesto narrativo è tedesco
Perché e come questo accada, se ne discute da tempo e se n’è discusso tante volte, gli psicologi sociali studiano da sempre questa fenomenologia. Questa volta però il classico meccanismo che abbiamo visto in scena chissà in quante altre occasioni ha avuto un moltiplicatore clamoroso, grazie all’apparire nella vicenda di un protagonista come Andreas Lubitz, il co-pilota impazzito ritenuto l’autore del disastro aereo del volo Barcellona-Dusseldorf della Germanwings, intorno al quale si è sviluppata una narrazione avvincente, ricca di colpi di scena. Il tutto in un contesto narrativo che funziona sempre, che è quello della Germania, ed è l’altro ingrediente che alimenta fuori misura la tragedia.
Inutile contrapporre barlumi di ragione, sia pure fiochi, a un simile poderoso meccanismo narrativo. Gli stereotipi su cui poggia sono straordinariamente forti, ancor di più in un momento nel quale la Germania torna a essere nell’immaginario diffuso “il cattivo”. Cattivo perché rigido, perché tutto d’un pezzo, intransigente eccetera eccetera.
E tuttavia, almeno dai media normalmente più “seri”, ci si aspetterebbe una qualche distanza da questa isteria che pervade i tabloid e fogli della destra ottusa.
Il Giornale tira in ballo Schettino, dimenticando il piccolo dettaglio che la pratica dell’inchino a breve distanza dalla costa era, se non incoraggiata, ben tollerata dalla sua compagnia di navigazione. Sarebbe come dire che Lubitz si sia schiantato sulle Alpi dopo aver fatto delle giravolte in volo per rendere più frizzante in volo per i passeggeri, con il consenso tacito della sua compagnia aerea.
Che il Giornale faccia il suo mestiere anti-tedesco “ci sta”, anche se il grosso dei suoi giornalisti viaggia su auto tedesche. Ma che La Stampa faccia lo stesso, ma col tono professorale e apparentemente ponderato di una firma come quella di Francesca Sforza, ci dà la misura di come tuttora vecchi schemi, pregiudizi duri a morire abbiano corso, anche appunto in giornali “seri”, rispetto all’osservazione della realtà com’è oggi, e che forse può apparire più “normale” e quindi più noiosa di come possa essere raccontata ricorrendo ai vecchi stereotipi.
La prevedibilità degli imprevisti
Dallo Schettinen del Giornale Sforza prende le distanze, ma per arrivare alle stesse conclusioni. Il disastro aereo, che colpisce una compagnia tra le più sicure al mondo, diventa adesso il caso della compagnia di un paese “con un sistema sociale strutturato sull’esclusione dell’imprevisto dal novero dei possibili”. Non è previsto in Germania che “un treno deragli”. Perché, da noi sì? Be’, se è così, trasferiamoci in massa in Germania. E lo consigliamo innanzitutto ai nostri pendolari che forse, chissà diversamente dia tedeschi, prevedono di viaggiare su treni che prima o poi deragliano, ma che intanto sono luridi, in ritardo, corse cancellate, toilette rotte. Ma che dice, Sforza?
Cos’è l’imprevisto da prevedere in sistemi complessi come quelli in cui viviamo? Che il massimo responsabile della Lufthansa sia visibilmente distrutto per quello quanto successo, e consideri “incredibile che una cosa del genere si sia verificato nella nostra azienda”, è una reazione umana, non “tedesca”, che merita rispetto. Ci aspetteremmo forse qualcosa di diverso dall’ad dell’Alitalia, ci aspetteremmo forse che dica, sapete siamo italiani, noi sappiamo che il fattore umano c’è, non siamo perfetti?
Il volo Rio-Parigi del 1 giugno 2009
Per comodità narrative, non si può consentire che una tragedia come quella della Germanwings sia trattata così, come una vicenda “tedesca”. Quando l’AF447, l’aereo di Air France in volo il primo giugno 2009 da Rio de Janeiro verso Parigi, precipitò nell’oceano Atlantico con 228 persone a bordo, per anni è stata accreditata solo l’ipotesi di un problema tecnico. Ma negli ultimi tempi la verità sta emergendo. L’ultima scoperta è stata che il comandante di quel volo non solo aveva dormito pochissimo prima di imbarcarsi a Rio (questo era già stato reso pubblico a metà marzo), ma aveva trascorso i giorni precedenti, quelli dello scalo nella città brasiliana, con l’amante e con un gruppo di amici a divertirsi. Arrivando il primo giugno all’aeroporto per il ritorno letteralmente esausto.
Comportamento tipicamente francese (stile Strauss Khan), si sarebbe detto con lo stesso metro con cui oggi si parla di Lubitz e di Lufthansa.
Le vittime di queste tragedie meritano rispetto, non meritano di finire nel frullatore dei luoghi comuni.