L’erba voglio cresce sul Viglio
Salire sul Viglio era in programma da qualche mese. I rinvii mi erano stati di aiuto per rafforzare la volontà di farlo e non, come spesso succede, motivo per trasferire l’intento nel dimenticatoio. La stagione valdostana, poi, aveva dato alle gambe, al fiato e alla determinazione la giusta ricompensa della intensa fatica accumulata.
La cima dei Monti Cantari, attribuita erroneamente dai meno attenti ai Simbruini, con i suoi 2156 metri, mi era stata narrata per la sua bellezza da Sandro (lo sherpa a me più caro), da Alberto (di Giannina compagno,orofilo per natura), da Giannina (primogenita di vette appassionata) e da Gemma (secondogenita, in una delle sue sporadiche uscite montane). Gemma preferisce la pianura e la discesa alla salita.

Sbagliare la strada per raggiungere il punto di partenza delle escursioni laziali è una costante, una sorta di pi greco. Testimone e complice ancora una volta è Luca, senza Boh. Prelevato alle 5.45 in via Tenore, ai margini di Centocelle. Filettino, con ferite ancora sanguinanti di un consumo del suolo da cementificazione convulsa e oltremodo impattante, è l’ultimo centro abitato. Da qui, con sinuoso percorso di alcuni chilometri, si arriva a Passo Serra Sant’Antonio, a circa 1600 metri. Non ancora sono le otto del mattino, fresca l’aria, a tratti bagnata dalla rugiada la strada.
La Fonte della Moscosa chiude la comoda carrareccia, con vacche Limousine che si abbeverano. Le lasciamo sulla destra, attraverso un ampio spazio verde glabro d’alberi, per il belvedere di Monte Piano con immancabili croce e madonnina a 1770 metri. Il panorama che si apre è il primo ristoro.

L’erta che parte lì nei pressi è di estrema pendenza e porta subito in quota con zig zag che ne attenuano solo parzialmente la fatica. Il tratto mette alla prova le nuove bacchette in fibra di carbonio e sfocia in una pietraia, anch’essa non solo ripida ma anche tanto esposta. Invisibili le segnaletiche di colore biancorosso, ci si affida a tracce una sull’altra, nessuna solcata a dovere. Una sorta di pentagramma con righe e spazi ondulanti. Guido per la prima volta un binomio in cammino, ma la presenza di Luca mi è fondamentale per l’attraversamento e il superamento degli orli meno stabili che sovrastano il precipizio.

Una piccola radura verde ci accoglie, rassicurante. Si rifà vivo il segnale del sentiero 651, posto su uno spuntone di roccia. Alla cui sommità, un minuto branco di cavalli pascola imperturbabile. La loro presenza e l’adrenalina accumulata per la recente tensione, unite alla invisibilità del sentiero sovrastante, ci sottopongono un dubbio iperbolico: procedere nell’andare avanti o rinunciare? Vince la voglia di Viglio.
E riscopro così, dopo la Valle d’Aosta, la taumaturgia che la montagna interpreta favorevolmente nell’appianare la spigolosità di mie fobie ancestrali.Superato agevolmente lo sperone di roccia, rasentiamo la mandria equina, immobile per indole, e scorgiamo summo cum gaudio il sentiero, questa volta segnato a dovere e assai riconoscibile.
Al bivio del Gendarme, dente di roccia che fa da guardia al Viglio, evitiamo ulteriori tensioni su quella via con passaggio in breve scalata e viriamo verso il sentiero di destra. La Gentiana Lutea, sulle pendici più fresche, e le violette, che un breve anfratto protetto alimenta con proprio stillicidio, ci fanno da addobbo floreale. Superato l’ultimo segmento in leggera esposizione, affrontiamo la rampa che conduce alla vetta del Viglio.
Il tempo è grigio e le nuvole non aiutano ad allargare lo sguardo sul Fucino, sul Velino e sulla Maiella da un lato e sui Simbruini, fin sui Lepini dall’altro. Il colore della croce, imponente, è blu e la statua della Madonna del Viglio con altare, posta poco più a valle, è sulle tonalità del bronzo. Madre e figlio in croce. Targhe in rame proiettano la visuale sui Comuni in traiettoria con la vetta.

Il Caciocavallo di Mauro Leone, sindaco allevatore delle Cinque Miglia, giallo per antociani del pascolo, conquista con l’altitudine, con il panorama e con l’appagamento per l’ascesa, livelli di bontà estremi. Nel libro del CAI dedicato agli escursionisti, custodito in una teca metallica, non trovo altra parola che faccia rima con Viglio all’infuori di cipiglio. E con questa, abbozzo una frase forse senza senso.
La discesa, slalom fra faggi secolari e fra tronchi a terra ostacoli al sentiero, è agevolata dalla palmare segnaletica, disegnata bicolore sugli alberi. L’ambiente è in ombra e sul tracciato scorgo un topolino mummificato. Raggiungiamo inaspettatamente la Fonte Moscosa. Qui, Selene, bimba di 6 anni, mangiucchia malvolentieri nell’area pic-nic una insalata di riso vegana, che giovani nonni eco-integralisti le stanno propinando.
La carrareccia che al fresco mattino era sembrata di veloce percorrenza, fa sentire ora nella gambe le scorie immagazzinate. Spezzo il pane con Luca per una merenda veloce. Prima di salire in macchina invito Luca a volgere lo sguardo verso la cima del Viglio, la cui distanza è, dal basso, siderale, per un ultimo saluto denso di emozioni.

Entriamo in terra d’Abruzzo, su strada inibita all’accesso. Una coppia di lavoratori rumeni ci “autorizza” ad andare avanti, per averla da poco transitata senza problemi. Luca è ossessionato dal voler dare al pasto serale una dignità gastronomica. Per pauperismo e, forse perché ancora satollo di Viglio, a me sarebbe bastata per cena l’erba voglio che ubertosa vi cresce.

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